Premio Racconti nella Rete 2011 “La rapina in banca” di Decimo Lucio Todde
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011Boèddu serrò le labbra e fece un cenno del capo da autentico balente.*
– Sei un vero uomo, Luzià! – mi disse, accompagnando le parole con una manata sulle spalle.
Gli avevo appena detto che per quella rapina in banca poteva contare su di me.
Boèddu era un duro. Quando si metteva un’idea in testa, non ascoltava consigli e storielle, non si perdeva nei meandri del dubbio e del compromesso; fulmineo e impetuoso come l’artiglio dello sparviero si lanciava all’assalto del mondo. Aveva un aspetto autoritario e, nonostante la bassa statura, incuteva timore, forse ciò era dovuto ai capelli tagliati a zero, agli occhi piccoli, profondi, scintillanti sul suo volto geometrico e scalpellato come pietra lavica. Lo conoscevo fin da bambino, da quando si condividevano libri e quaderni con il gregge e la campagna, che, ben presto, inghiottì i primi anni delle scuole elementari. Ci ritrovammo, così, negli albeggi umidi e freddi, tra i suoni dei campanacci, a mungere le pecore. Me lo ricordo ancora come una volta, con il suo viso infantile di quegli anni, cresciuto prima del tempo, e la sua smania di diventare grande per uscire alla festa delle Grazie, e camminare con il passo lento del pastore; la giacca di fustagno sulle spalle con le maniche penzoloni, i cambales** ben lustrati, lo sguardo fiero per incutere timore e suscitare riverenza. Era diventato adulto in fretta, così come me e come tutti i servi pastore; mi sembra di rivederlo con le maniche del maglione rimboccate, che odorava di formaggio e lentisco, la sigaretta tenuta con forza fra le labbra, simile in
* Persona capace di compiere gesta eroiche
** Parastinchi di cuoio
questo atteggiamento a tziu* Tandeddu, il nostro padrone.
Tziu Tandeddu era un uomo d’altri tempi: aveva trascorso la sua vita nei luoghi più agresti e raminghi, tra pietre, capre, alberi e pecore, a contatto con ogni sorta di fuorilegge che, nel passato, erano numerosi per le campagne della Sardegna. Una donna, che viveva solitaria in una casupola alla periferia del paese e, da tutti, additata come strega, gli aveva dato un figlio. Con quella donna il nostro padrone aveva avuto solo il figlio e basta, in seguito ricevette soltanto strali e malefici, che si abbatterono sull’innocenza di quel ragazzo. Il figlio, infatti, scomparve nel temporale di una cupa sera autunnale; inghiottito dal fiume, mentre era intento al ritiro del gregge. Non fu mai più ritrovato.
Nelle serate fredde tziu Tandeddu non lesinava l’agnello arrosto nel camino, il formaggio, il pane carasau e il bicchiere di vino. In quelle ore incantava la nostra adolescenza sfogliando le pagine dei suoi ricordi giovanili: saltavano fuori così, e danzavano sul focolare, uomini crudeli e feroci, emersi dalla natura selvatica e oscura. Banditi dipinti come eroi, poiché avevano avuto la speme e l’ardimento di trucidare i tiranni che dissanguavano la povera gente. E noi: io e Boèddu, lì, davanti a ztiu Tandeddu, con gli occhi lucidi e il cuore in tumulto, già desiderosi di imitarne le gesta.
Boèddu: un ragazzo venuto al mondo alla pari di un capretto selvatico, abbandonato dal destino tra i dirupi dei monti. La madre morta di parto e lui svezzato da quella natura indomita e severa; il padre risucchiato nel vortice di quel mondo agreste, pietrificato nel grembo di quella selva primordiale, scosso soltanto dal belato delle greggi. Non che io fossi da meno di Boèddu, per tutti questi aspetti riguardanti gli anni spartani dell’infanzia, tuttavia avevo avuto la fortuna di ritrovare sempre la mia casa ripiena dall’affetto dei miei genitori.
* Letteralmente significa zio, ma che equivale a un termine di rispetto.
Intendiamoci, a casa si riusciva, a malapena, a raccapezzare pranzo e cena, poiché c’erano altri due fratelli e tre sorelle, tutti in tenera età. Forse sarà stato tutto questo bisogno a generare in me una notevole componente aggressiva, ma rispetto al mio più caro amico, il mio modus operandi era più subdolo e ingannevole. Così, io e Boèddu ci siamo barcamenati fino ai vent’anni, accudendo, per un pezzo di pane, le greggi dei vari padroni. L’occasione del nostro affrancamento da quella servitù millenaria, ci fu spiattellata inaspettata da tziu Tandeddu:
– Fiztos caros, deo so mannu e istraccu de custa vida remitana… * – ci disse.
Ci offriva le sue seicentocinquanta pecore e sei ettari di pascolo ad un prezzo stracciato per chiunque, ma non per me e il mio amico, che avevamo le tasche gonfie soltanto di fatiche e sudori.
– Toh!- mi disse Boèddu, porgendomi un mezzo bicchiere di acquavite – Non temere Luzià, tutto andrà bene – aggiunse con un sorriso maligno.
– Quanti siamo? – domandai non senza qualche perplessità, vista la frenesia del mio amico.
– In tre, siamo in tre. Pascàle con la macchina sa il fatto suo.
Pascàle era un tipo sveglio. Aveva l’occhio scaltro e il fare sbrigativo, fisico asciutto e nervoso di media statura, capelli neri e ricciuti, viso olivastro, ma sopratutto una grande passione per i motori. La prima volta che l’incontrai indossava una tuta da meccanico imbrattata d’olio. Aveva lavorato come apprendista per qualche tempo in un’officina di Nuoro e, durante quel periodo, aveva imparato in maniera magistrale a guidare automobili di grossa cilindrata. Sarebbe diventato sicuramente un ottimo meccanico e invece… qualche furto, qualche processo, e infine la galera.
* Figli cari, io sono vecchio e stanco di questa vita raminga.
Scontata la pena e riacquistata la libertà riprese a lavorare per qualche tempo nella solita officina, ma il marchio del galeotto l’aveva reso ancora più ribelle; più propenso al guadagno facile.
– Volevo farti vedere dell’altro… – continuò Boèddu, aprendo la porta dello stanzino, dove mettevamo il formaggio fresco ad essiccare. Mi invitò ad entrare e dalla cassapanca tolse alcuni passamontagna, una pistola calibro 7.65 e due fucili a canne mozze – Uno è per te. Toh, prova un po’. – disse, e accennò quel suo sorriso maligno – Pascàle arriva qui domattina alle undici. Si parte subito per Olbia – aggiunse con voce grave.
Era una mattina fredda di febbraio, quando Pascàle arrivò all’ovile puntuale, come stabilito, alla guida di una alfa romeo 1600. Ci sedemmo intorno al tavolo per alcuni chiarimenti, subito dopo Pascàle s’infilò la pistola sotto la cintura e tirò su la cerniera del giubbotto in pelle. Boèddu incrociò per un istante i nostri sguardi e, in quei momenti, lo vidi come il lupo affamato in cerca della sua preda. Un’ora più tardi raggiungemmo viale Diaz a Olbia. Pascàle rallentò, e si accostò sulla destra a pochi passi dall’ingresso al Banco di Sardegna. Boèddu mi fece un segno del capo, infilammo i passamontagna e alcuni secondi dopo tenevo già sotto la minaccia del fucile sei o sette persone tra impiegati e clienti; pallidi e spaventati. Boèddu aveva saltato il bancone e come una furia riempiva di banconote un sacco che teneva ben stretto. Tutto sembrava scorrere per un evento benevolo al nostro disegno, e invece il suono di una sirena mi spaccò in due.
Mille tumultuosi pensieri si scatenarono nella mia testa. Agile come un cervo, Boèddu saltò il bancone degli impiegati e via fuori nell’aria gelida e traballante già di dolore. Una raffica di mitra squarciò il nostro sogno meschino. Mi ritrovai a terra dolorante e smarrito, sulla spalla destra avevo una profonda ferita dalla quale perdevo molto sangue. Quando due poliziotti mi sollevarono da terra per portarmi via, vidi Boèddu. Stava disteso sul marciapiede di granito, gli occhi impietriti rivolti al cielo plumbeo, la testa in una pozza di sangue: era morto. Aveva il sacco ancora tra le mani, alcuni biglietti da centomila lire sparsi intorno a lui e nulla più. Mi sono fatto cinque anni di prigione così come Pascàle, che da quel giorno ho rivisto poche volte, poiché lui, scontata la galera, era emigrato in continente. Io, invece, tornai al mio solito lavoro di pastore e abbandonai definitivamente quella perversa via del male. La mia vita cambiò, una luce nuova entrò in me: con il frutto del mio onesto lavoro mi riscattai da quella condizione barbara e disumana.
Oggi che gli anni sono appassiti sui miei capelli bianchi, cadenti sul volto rugoso, e vivo serenamente nell’affetto di mia moglie, dei miei figli e nipoti, confesso che, quando all’albeggiare mi ritrovo da solo a mungere le pecore e il latte mi sgorga generoso tra le mani, rivedo gli occhi impietriti di Boèddu e un brivido silenzioso, che mi percuote l’anima, si avvita intorno ad un’antica preghiera.
Racconto bellissimo! Davvero complimenti.
Veramente un bellissimo racconto!!!!!!!:-) molto emozionante:-)
Spero tanto che questo racconto vinca. E’ un tra i più belli. In bocca al lupo!
Naturalmente volevo scrivere “uno tra i più belli”. Di nuovo in bocca al lupo!
Grazie di cuore Alessandra per i complimenti. Quando si riconosce, in una esposizione letteraria, quel sottile, indefinibile pathos dell’anima, significa che ” chi legge” porta in sè, oltre ai valori culturali e artistici, la grande ricchezza dell’umano sentire; del porsi sulla sponda degli sconfitti per comprendere e donare la propria esperienza interiore per redimere e trasfomare il Male nel Bene. Nuovamente, Grazie Alessandra.
Una storia con suggestivi richiami deleddiani. Luciano aderisce alla proposta di Boeddu per un frainteso senso dell’amicizia, come purtroppo spesso accadeva in Barbagia, dove la solidarietà poteva a volte anche travalicare il limite del rispetto dei propri valori. Luciano ha conosciuto in famiglia un’affettività che all’amico è mancata, non avrebbe motivo per incamminarsi su quella china; forse nell’aderire alla sua proposta vuole fargli sentire la sua vicinanza, supportarlo nella sua profonda e precoce solitudine. Non c è nell’autore alcun intento di giustificazione rispetto a quelle antiche scelte che oggi ci appaiono ancor più incomprensibili. Egli fotografa semplicemente un mondo. La fine del racconto rivela il suo più intimo sentire.