Premio Racconti nella Rete 2022 “Trentadue anni, un mese e sette giorni” di Lorenzo De Angelis
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022Cara Livia,
sono passati anni, ormai, dall’ultima volta che abbiamo parlato. Ad essere precisi sono passati trentadue anni, un mese e sette giorni dal giorno in cui dalla finestra ti ho visto allontanarti lungo il viale di casa e lentamente svanire come fanno i fantasmi.
Ho pensato tante volte di cercarti, sapevo che dovevo essere io a farlo, lo sapevo fin da quel giorno, ma ci tenevo così tanto che la paura di sbagliare mi ha sempre fermato. Me lo dicevate spesso, del resto, che sono uno che sparisce, e ho persi tanti rapporti per questo: succedevano piccole cazzate che mi dividevano dalle persone e poi non sapevo come riallacciarmi, e a mano a mano che il tempo passava, la cosa diventava sempre più difficile. E così non ci riuscivo. Non avrei mai voluto sparire da nessuno e ogni persona che ho perso ha lasciato un segno indelebile sulla mia pelle. Tu, però, hai lasciato il segno più profondo di tutti. La verità -ora possiamo dirla sì, a te e a me, è che davanti alla paura di fallire e alle difficoltà ho sempre preferito arrendermi senza tentare. È quel che è successo con quelle persone e soprattutto con te: così ora sei soltanto un ricordo sfumato nel tempo, ma che brucia ancora come faceva all’inizio.
In questi trentadue anni, un mese e sette giorni ne sono cambiate di cose nella mia vita, e chissà quante nella tua. Tu che eri così intraprendente, forte e coraggiosa, di certo non ti sarai mai accontentata.
Sai, ho avuto una figlia: si chiama Andrea e ha nove anni. È la cosa migliore che io abbia fatto in tutta la mia vita. È intelligente, ama studiare come me ed è sempre allegra. Nei primi tre-quattro anni, pensa, a volte ho avuto l’impressione che ti assomigliasse, non so come, ma la guardavo e in qualche modo ci vedevo te. Mica solo nell’anima, persino nell’aspetto. Quando era contrariata faceva un’espressione proprio uguale alla tua e la cosa mi sconcertava. Poi quando mi riprendevo mi rendevo conto che non era possibile, e il senso di colpa per questi pensieri ha cominciato a tenermi stretto lo stomaco come una molletta.
Ma non sono state le uniche volte in cui, per così dire, ti ho visto. Forse una volta ci siamo persino ritrovati nella stessa stanza, qualche anno fa. Non so come visto che mi sono trasferito a Barcellona, ma un giorno ero alle poste e aspettavo il mio turno guardando il telefono per passare il tempo, e proprio mentre scrivevo un messaggio ho sentito la tua voce: “Grazie mille, arrivederci”. Lo stesso identico suono dolce e leggermente acuto, deciso ma con un velo di timidezza inconfondibile. Anche oggi potrei riconoscere la tua voce in mezzo ad un coro. Non ho avuto il coraggio di alzare gli occhi dal telefono, ero paralizzato. Mi sembrava così impossibile, e anche ora so che probabilmente non eri tu, difficilmente potevi essere lì. Ma per giorni ho risentito quella frase rimbombare nella mia testa. La sentivo continuamente, persino quando mi mettevo a letto fino a che non mi addormentavo, persino quando parlavo con Elena, mia moglie. L’idea di essere rimasto di sasso senza far nulla, senza il coraggio prendere in mano la situazione per l’ennesima volta nella mia vita, mi logorava.
Io ed Elena siamo sposati da un anno prima che nascesse Andrea. L’ho conosciuta al bar di Gianluigi, quello in Piazza Grande, che odiavi tanto. Ci siamo trovati fin da subito in sintonia, è una persona spiritosa e legge i libri di edizioni vecchissime, proprio come me. Mi è sempre stata accanto, non mi ha mai abbandonato, neanche ora. Non me lo sono mai meritato: per troppo tempo ti ho cercato nei suoi occhi. Odia la parola vaffanculo, come te. Nei primi tempi, ogni volta in cui mi rimproverava ti vedevo al suo posto e non riuscivo a levarmi la tua immagine dalla testa. Sentivo la tua voce, al posto della sua. Eri sempre lì pronta a spuntare. Ho dovuto smettere di dire vaffanculo per provare a non pensarti più.
Ti giuro, Livia, che le ho dato tutto l’amore che avevo. Ma c’è sempre stato qualcosa che mancava, e mentre scrivo diventa sempre più palese: c’eri tu, ecco.
Ho sempre pensato che tutte queste cose capitassero semplicemente perché non ero riuscito a trovare una ragione per la nostra separazione e che fosse semplicemente questione di tempo. Non so come mi sia venuto di prendere in giro anche me stesso per così tanto tempo, perché adesso sono certo di aver sempre saputo che eri tu quella mancanza. Probabilmente il senso di colpa nei confronti di mia figlia e di mia moglie mi convinceva a lasciarti in disparte, cercando di non pensarti e di fare finta di niente. E così lentamente mi sono adattato alla mia vita e a quello che pensavo di meritare.
Mi sono costruito la mia storia: una moglie, un figlio, un lavoro per tirare avanti e un sogno nel cassetto mai avverato. Non sono diventato un pittore. Non ce l’ho fatta, evidentemente non ero bravo. Ma sai, la verità è che il mio sogno è finito insieme a quelle cose che non ho mai provato a fare per davvero: mi sono arreso, tutto qui. Come con te, insomma. Il fatto è che la vita è un groviglio di nodi che non tutti sono in grado di sciogliere. E io faccio parte del gruppo che non ci è riuscito: così oggi, a cinquantatré anni, sono un addetto alle pulizie in un hotel con un frammento di cuore perso chissà dove.
Probabilmente quel giorno hai fatto bene ad andartene, a farti la tua vita e a costruire la tua felicità. Per molto tempo mi sono raccontato che eri stata tu ad averci perso. Pensavo di poter stare bene senza di te. Ma con gli occhi aperti mi rendo conto che semplicemente ce l’avevo a morte con me stesso per averti lasciato andare.
Non sai quanto vorrei averti qui: immagino come sarebbe colmare trentadue anni, un mese e sette giorni in un attimo soltanto. Sarebbe bello che tu appena ricevuta questa lettera mollassi tutto (la tua felicità, la tua vita, quello che hai costruito, proprio tutto) e ti fiondassi qui di corsa sapendo soltanto che ci sarei io ad aspettarti, ma il fatto è che da una stanza di ospedale sognare diventa parecchio facile.
Ti scrivo da una stanza d’ospedale, sì, mentre una dannata malattia mi porta via. Manca poco, ormai, ce lo siamo detto coi dottori: questione di giorni.
Tu sei stata la prima cosa a cui ho pensato e così mi sono convinto ad abbattere questo muro di silenzio.
La verità è che la vita con te avrebbe avuto tutt’altro sapore. Vorrei poter tornare indietro e cambiare tante scelte, per avere quello che desideravo invece di arrendermi ogni volta. Mi piacerebbe poter essere una persona felice e soddisfatta con te accanto, ma oramai mi restano solo i sogni e mi rendo conto che se tra noi è andata così un motivo deve pur esserci. Sarà stato per il tuo bene, o semplicemente per la mia stupidità, chissà.
Non saprei neanche dove spedirla questa lettera, a pensarci meglio. La lascerò volare al vento, deciderà lui cosa farne, così che se mai un giorno dovesse arrivarti chissà come, tu saprai di dover continuare a vivere la tua vita meravigliosa, perché io non ci sarò già più.
Tieni quel mio piccolo pezzo di cuore sempre con te, spero che il mio abbraccio possa avvolgerti ora,
e per sempre.
Non è certamente un racconto dai toni allegri, ma è proprio quest’atmosfera ricca di malinconia e rimpianti che mi ha attirata. Ho letto il racconto d’un fiato e l’ho apprezzato molto perché riesce ad avvicinare il lettore al protagonista e alle sue emozioni. E’ un racconto intimo. Complimenti, ho visto sensibilità nelle tue parole
Bellissimo racconto, mi ha coinvolta fin dalle prime righe. Ha una malinconia dolcissima ed esprime molto bene il senso di tristezza impotente delle persone sconfitte da una vita che non sono riuscite a dirigere come avrebbero voluto, che si sono lasciate “trascinare dalla corrente” e hanno dentro profondi rimpianti per le occasioni perdute.
Per il mio lavoro mi è capitato di accompagnare le persone nell’ultimo pezzo della loro vita e ho capito che la possibilità di recuperare i rapporti più veri e più significativi che si sono incrinati per tante ragioni permette loro di andarsene in pace e di lasciare la pace a chi resta.
Complimenti per la delicatezza del tuo scrivere.
E’ un racconto “epistolare”, mi viene così definirlo, che in un punto mi ha profondamente toccato e che riporto. “Me lo dicevate spesso, del resto, che sono uno che sparisce, e ho persi tanti rapporti per questo: succedevano piccole cazzate che mi dividevano dalle persone e poi non sapevo come riallacciarmi, e a mano a mano che il tempo passava, la cosa diventava sempre più difficile. E così non ci riuscivo. Non avrei mai voluto sparire da nessuno e ogni persona che ho perso ha lasciato un segno indelebile sulla mia pelle”. L’ho apprezzato infinitamente…Personalmente, e mi scuso, l’avrei chiuso con “Ti scrivo da una stanza d’ospedale, sì, mentre una dannata malattia mi porta via. Manca poco, ormai, ce lo siamo detto coi dottori: questione di giorni!”, e giù il sipario, rilasciando un sapore super amaro nella bocca del lettore: il veleno della malattia. Stile maturo sotto ogni aspetto, confermato in altri racconti che ho avuto il piacere di leggere. Bravo.