Premio Racconti nella Rete 2022 “Armida detta la Strega” di Delia Giordano
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022Quella mattina di gennaio il freddo era pungente, un leggero nevischio bagnava le strade. La notte prima la temperatura era scesa sotto lo zero. Lungo il Tevere un battello navigava svogliatamente portando il suo carico di turisti, nonostante la giornata non proprio ideale. Armida, stretta al suo gatto Mimì, il freddo, quella notte lo aveva sentito tutto. A nulla era servita la coperta che i volontari le avevano dato la sera prima e nemmeno i cartoni che aveva messo a terra sul pavimento del marciapiede. Il ponte riusciva a ripararla dalla pioggia ma non certo dal freddo.Armida non era né vecchia, né giovane. Era una di quelle creature senza tempo, nate chissà quando, che passano in punta di piedi su questa terra. Creature che nascono senza fare rumore e vivono nell’ombra. Tutti la chiamavano la Strega, per via del grosso cappello a punta che portava sempre in testa, estate e inverno. Viveva per strada da che aveva memoria. In verità, di ricordi ultimamente gliene erano rimasti pochi, avvolti da una nebbia che diventava sempre più densa. A volte, aveva la sensazione di essere venuta al mondo così come era adesso. Per il passato aveva cercato di recuperare qualche ricordo. Chi era lei, da dove veniva? Armida era il suo vero nome? Ma per quanto si sforzasse, il passato non riaffiorava. Con le dite carezzava i segni impressi sui polsi, due lunghe cicatrici che le attraversavano il braccio, sperando di ricordare il perché della loro presenza. La sua memoria non riusciva ad andare più lontano del Natale passato. Quella mattina il suo Gigi se ne era andato. Lo aveva lei trovato nel suo giaciglio, proprio accanto al suo. Freddo, rigido, chissà da quanto era morto. Eppure la sera prima erano andati insieme al banco della Caritas a prendere il pasto.
<Cara la mia Armida. Dammi il braccio, è Natale. Ti invito a cena.>
Così le aveva detto, tirando fuori dal cappotto un piccolo cioccolatino. La carta d’orata brillava alla luce dei lampioni, come un gioiello tutto d’oro.
<Oh, il mio Gigi, sei sempre galante.>
Le sussurro lei, mentre si incamminarono insieme. Seduti sulla panchina lungo il Tevere, mangiarono il pasto caldo, che quegli angeli gli avevano offerto, e bevvero il vino che la cassiera del supermercato gli aveva regalato. Tutti conoscevano il suo Gigi e tutti gli volevano bene. Sempre gentile, con un sorriso per tutti. Sotto quel cappotto logoro si nascondeva un vero signore.
<Tu sei un uomo d’altri tempi, chissà da dove vieni tu >.
Gli ripeteva Armida. Lui le prendeva la mano, sfiorandola dolcemente.
< Voulez-vous danser avec moi madame?>,
Mentre lei scoppiava a ridere la faceva volteggiare proprio là sul marciapiede. Ora, lui non c’era più, e lei si sentiva ancora più sola.
La solitudine, come il freddo le entrava nelle ossa e non ne voleva sapere di andarsene. Avvolta nei suoi stracci, spingendo il carrello del supermercato, Armida trascinava i suoi giorni sempre uguali, mentre i ricordi diventavano sempre più sbiaditi. Di tanto in tanto, tirava fuori una vecchia foto, in bianco e nero, era sbiadita dal tempo, ma si riusciva a vedere una giovane donna con in braccio un bambino che sorrideva felice all’obiettivo. Non sapeva più chi fosse quella donna, ma il cuore le diceva che le apparteneva. Per lei ormai nulla aveva più importanza, sentiva che la vita le stava scivolando via, e incurante lei la stava lasciando andare. Niente più la tratteneva sotto quel ponte. Una notte di gennaio, stretta al suo Mimì, tiro fuori la vecchia foto e se la pose sul cuore. Scavò nei suoi ricordi e con tutte le sue forze si aggrappò alla donna della foto. Come sollevata da un forte vento, la foschia che copriva i suoi ricordi, si diradò. Si vide bambina correre felice tra i campi. Sentì l’odore del pane appena sfornato e le carezze di sua madre. Rivide il ragazzo che le faceva battere forte il cuore, e sentì il sapore dei suoi baci rubati. All’improvviso udì grida e i pianti, e si ritrovò davanti alla stessa foto che stingeva, impressa su una fredda lapide. Rabbrividì al tocco delle mani di un uomo che non conosceva su di lei. Senti le sue stesse urla, mentre altri due uomini vestiti di bianco la portavano via. Rivisse l’inferno, i legacci ai polsi, gli elettroshock, l’acqua ghiacciata sul corpo nudo e le notti, legata a un termosifone. E senti l’odore del sangue che sgorgava dai profondi tagli sui polsi. Si perse in una vita che non conosceva, che non ricordava. E mentre il freddo la attanagliava, senti il corpo cedere e la mente fermarsi, all’attimo in cui, dopo chissà quanti anni, guardò il cielo senza sbarre e ingurgitò avidamente l’aria fresca che aveva l’odore dei fiori appena sbocciati e non il fetore di piscio e vomito. Rivide per l’ultima volta l’edificio che l’aveva inghiottita ancora bambina e l’aveva restituita alla vita, ormai vecchia. Restò per strada, per gli anni che le restarono. Dimenticò sé stessa e ciò che aveva vissuto.
Armida, detta la Befana, se ne andò una notte di gennaio, sola, così com’era vissuta. Tra le mani le trovarono una vecchia foto sbiadita e sul volto un sorriso.