Premio Racconti nella Rete 2022 “Più che animale, più che uomo” di Paolo Di Fino
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022“Se esiste un Dio, io me lo sono chiesto la prima volta che ho posato gli occhi su di lei.”
Lince Dorata, la figlia del capo tribù dei Piedi Neri. Bellissima, e magnetica. Ancor di più nuda a un paio di metri da me. Nonostante il camino acceso, nella baita farà al massimo una decina di gradi. Tuttavia, lei sembra arda di suo. Con passo felino esce fuori al gelo della veranda dove sono. Con il sedere poggiato alla balaustra d’acero, osservo i suoi piedi danzare lungo l’unica striscia di pavimento scampata alla neve.
“E ho una mezza idea di cosa sia il paradiso, soltanto quando il profumo di lillà, tipico di lei, mi ubriaca e avvolge. Fino a incatenarmi l’anima.”
«Mi sono svegliata e non c’eri. Sai che lo odio» mi rimprovera, poi posa la testa sul mio petto. Per non infettarla come il resto del mio mondo, d’istinto, allungo il collo e sbuffo al cielo il fumo trattenuto in gola. In bocca mi resta il classico retrogusto salato dei Montecristo. Spengo il mezzo cubano nella neve presente sulla balaustra. E stringo forte Lince Dorata a me.
“Con lei accanto, niente è stato più uguale. L’ancora nel mio mare in tempesta.”
Sento le sue braccia esili aggrapparsi alla mia schiena come a una quercia. Mi stropiccia la canottiera, quasi volesse strappare l’unico ostacolo che separa i nostri corpi così diversi. Io, simile a un orso, due metri di muscoli, peli, e cicatrici. Lei, identica a una mini riproduzione di una dea dalla pelle olivastra, e vellutata come nient’altro al mondo. Due poli opposti finiti per attrarsi.
“Per lei sarei morto, risorto, e morto ancora.”
«Che c’è Donovan, a che pensavi? Ancora incubi?» Alza lo sguardo. Non le rispondo. Fisso muto l’abisso dei suoi due laghi neri, assorbono ogni sprazzo d’alba che sale alle mie spalle. Con la scusa di spostarle una ciocca di capelli le accarezzo il viso. E in un lampo ritraggo la mano bestiale deturpata dalle cicatrici. Non mi sono mai abituato al contrasto con la sua bellezza. Né lei me l’ha mai fatto pesare.
“Ma non potei morire per lei. Né riuscii a dirle cosa provavo.”
«Niente, piccola. Tutto ok» grugnisco a mezza bocca.
“Quante volte. Centinaia di volte stavo per confessarle tutto. Lei lo sentiva, dentro sapeva.”
«Vieni D, torniamo a fare l’amore, amore, amore…» La sua voce prima angelica, diventa grottesca, difettosa. Echeggia nella mia mente, come fossi a chilometri da lei. E le linee delicate del viso iniziano a incresparsi, guastate dal continuo formarsi di cerchi concentrici tra la pelle olivastra. Gocce di sangue rosso vivo colano a intervalli regolari al centro del viso di Lince Dorata. E così lei svanisce. Sotto di me, resta una pozza d’acqua cristallina mezza ghiacciata, che, un po’ alla volta, si tinge di un rosa incarnato. Uno stupido ricordo. Una delle mille allucinazioni che certificano il mio lento declino.
“Stupido io con i miei stupidi silenzi.”
Ora sì che vedo riflesso ciò che sono. Un animale stanco, ferito, rigurgitante rabbia. Che lorda di sangue tutto ciò che tocca. Perché quel che tocca muore.
“È passata una vita. Anche due. E non ho fatto altro che sopravvivere, regredire, inasprire.”
Ho perso il conto delle cicatrici, così come ho fatto il callo al dolore. Però, qui in ginocchio in questa foresta di querce rosse, con mani e piedi ficcati nella neve, intorpidito fino alle ossa, mi sento di nuovo vivo. Il sangue che ho perso, è rappreso, congelato addosso ai miei pantaloni mimetici. Inalo l’aria tersa e gelida, imprigionata nelle raffiche di vento polare che tempestano questo versante delle Montagne Rocciose. Ho i polmoni in fiamme come dopo una profonda immersione. Scrollo la schiena allo stesso modo di un cane randagio completamente fradicio. Caccio le mani dai cumuli di neve molle. Oltre a quello che, sempre più a rilento, sgorga dallo squarcio sulla mia testa, sono ricoperto dalle dita ai gomiti del sangue d’altri. Nonostante il clima polare, sotto una patina friabile, è ancora denso e colloso. Stendo le braccia ai lati manco fossi in croce. E ruggisco. Finché non ho più aria nei polmoni.
“Invece, attorno a me, da quando non c’è più Lince Dorata, tutto è così uguale. Monotono. Molti sognano l’avventura, il pericolo, magari il trionfo. Io non sogno più da tanto.”
Malgrado la scarsa visibilità, ruoto la testa da un lato all’altro. Con lo sguardo seguo gli schizzi di sangue per terra, si allargano ovunque nella radura circostante. A parte i cadaveri disseminati sul terreno, una dozzina di sicari mandati a farmi la festa, sono solo. Ignorando le fitte al costato, raccolgo la giacca da moto a un passo da me, e mi rialzo. La indosso, la pelle è fredda come quei cadaveri. A contatto con le ferite non può che darmi sollievo. So già che il dolore andrà a sommarsi alla collezione, però so pure che almeno le ferite guariranno in pochi minuti.
“Ero tornato su questa montagna per lei. Nel mio giorno più triste. Per ricordare.”
D’un tratto, annuso l’aria con più cura. Me ne accorgo subito: puzza di paura. «Abbiamo un fortunato!» grido, e resto ad ascoltare l’eco vuoto che vola via a valle. Malgrado la bufera, a terra noto un’ombra che si muove appena, è nascosta dietro quella immobile della quercia alla mia destra, a non più di tre metri da dove sono.
“Tuttavia, quando ti fai troppi nemici, è arduo persino restare soli con il dolore. Qualcuno ha cantato, qualcuno pagherà. Qui è il mio territorio, decido io chi entra.”
Celato dai suoni della natura, oscillo tra la neve bianca più fresca, e quella cremisi più vecchia. Il manto soffice attutisce i miei passi. L’ombra che trema dietro il gigantesco tronco secolare, neanche mi vede arrivare. Mi piazzo addosso all’albero. Gli faccio credere d’averla scampata. Sento il suo cuore a mille, il respiro accelerato, le mani che grattano la corteccia. Lo immagino fare capolino dalla parte opposta alla mia. Avverto un sospiro, e un sibilo in giapponese: «Se n’è andato? Sono vivo!»
“Come da tempo immemore sono io a decidere chi vive e chi muore. Ciò non è mai cambiato. Ora ancor di più, devo proteggere ciò che ho lasciato qui d’essenziale.”
Come un boa striscio intorno alla quercia. Lo sorprendo con le spalle poggiate all’albero. È uno sbarbatello della Yakuza. «Sicuro?» gli chiedo nella sua lingua, ripescata tra i ricordi di vecchie missioni. Non lo lascio rispondere, né urlare. Con la destra gli agguanto l’intero viso. Avvicino l’orecchio alla sua bocca. Farfuglia un: «No, no ti… ti prego.» Continua a ripeterlo, finché non somiglia a un urlo disperato. In un batter di ciglia, l’urlo sparisce ingoiato dal vento. Digrigno i denti, a stento trattengo l’acquolina che mi si forma in bocca. Prima di lei avrei già sbavato per una roba simile. «Io ti prego, ho già un gran cazzo di mal di testa» gli sussurro. Stringo di più il suo viso, lo trascino indietro, prendo la rincorsa con il braccio. Sto per fracassargli la testa contro l’albero. Eppure, esito.
“Perché l’uomo ferma l’animale? Perché non lascia che la natura faccia semplicemente il suo corso?”
Senza convinzione, e con un decimo della forza che avrei voluto metterci, sbatto il ragazzo contro la corteccia. Il mezzo tonfo del cranio sul legno è una totale delusione. Mi ero già sognato il solito schianto che fanno le ossa rotte. Mollo il viso, ma gli piazzo la stessa mano sulla giugulare. Per evitare che torni a frignare, o, peggio, che mi ringrazi, gli ficco la mia espressione più truce davanti agli occhi a mandorla: «Di’ a chi ti manda che, se ci riprova, andrò io a trovare lui e tutte le sue future generazioni.»
“L’uomo lo fa per lei? O solo per sé stesso?”
Spalanco la mano, e il collo si gonfia alla disperata ricerca d’aria. Mi sposto da davanti al ragazzo. Lo guardo fuggire via, mi fa un effetto strano, di qualcosa di nuovo. Lo vedo sparire, inghiottito dalla tormenta. Piego le ginocchia e poggio la schiena alla quercia. Inspiro a fondo, mi sembra di avvertire nell’aria profumo di lillà. Un paio di minuti e mi rimetto dritto. Devo riprendere da dove mi hanno interrotto. Con un fragore di sottofondo, prima quasi impercettibile, poi sempre più evidente, cammino per un centinaio di metri. Arrivo al bordo di un precipizio, a fianco alle cascate Takakkaw, le nostre preferite. Un salto di trecentosettanta metri. Una morte certa. O così speravo.
“La prima volta ho creduto sarebbe successo, che finalmente sarei morto. Sarei tornato da lei.”
Mi lascio cadere. Mi abbandono al vento. Per un secondo, pare quasi sollevarmi. È quell’attimo in cui non sento il peso del mio essere, ogni mia colpa. Però, dura troppo poco. Precipito verso la schiuma impetuosa e i gorghi violenti che continuano a formarsi sotto di me. Trecentosettanta metri nel vuoto durano niente. Nemmeno il tempo di gioire di finirla lì. Mi schianto contro un pavimento invisibile che m’ingoia, tira giù, scuote in ogni dove, e poi rivomita. Muoio in un abisso gelido. Ma solo per un istante. Sento il corpo iniziare già a guarire, mentre la corrente mi trascina a riva. Essere trascinato dalla vita è la mia condanna. I migliori dottori ingaggiati dalla mafia secoli fa mi hanno spulciato a fondo. Soltanto per dire, senza averci capito granché, che il mio corpo sa come guarire rapido da ogni ferita. Il sicario perfetto. Questo interessava alla famiglia. E così mi sono lasciato trascinare dagli eventi. Almeno, finché non ho trovato lei sulla mia strada.
“Ma l’animale reagisce d’istinto. Ti tiene in vita, oltre ogni limite. Pure oltre l’amore. Anche se l’amore è puro istinto. E perché l’amore va oltre l’animale, l’uomo, o l’anima.”
Esco dall’acqua limpida e incontaminata di questo paradiso disperso tra le montagne. Ignoro il sangue che mi cola negli occhi. Tre passi e ha già smesso.
“Vorrei provare molto più dolore di quello a cui ormai sono abituato. Quello di tutti questi decenni in cui un’unica ferita non s’è mai rimarginata.”
Vado verso il modesto campo di lillà che ho coltivato qui per lei, al riparo delle rocce. Provando a non macchiarli di sangue, ne strappo una dozzina e li lego insieme con un laccio di cuoio.
“Come la baita costruita per noi, ho creato un paradiso soltanto per lei. Sono l’unico che può raggiungerla qui.”
La neve fresca si è accumulata pure sotto la nostra quercia rosso fuoco, la sola ai piedi della cascata. Mi inginocchio davanti al cumulo di neve, e fisso il logoro disegno di un cuore intagliato nel tronco, e la scritta al centro di esso: Lince Dorata & Donovan.
“Non sono riuscito a proteggere ciò che avevo di più importante. E fingo a me stesso di farlo ora, cercando d’essere quello che lei credeva fossi: un eroe.”
Ripenso a quante promesse non ho mantenuto. A quell’istante in veranda, mentre le scostavo i capelli dal viso, e nella testa mi ripetevo: “Diglielo. Diglielo. Porca puttana, diglielo!” Sto qua in ginocchio, davanti alla sua tomba, e non so manco piangerla. Ho imparato a ricacciare la bava, l’animale che è in me, ma ancora non so piangere una lacrima per chi la merita. «Ciao, amore mio. È tardi per parlarti di me, dell’uomo, e dell’animale?» Ficco il mazzo di lillà nel cumulo di neve. «Mi sa di sì. Scusa, piccola, è che mi manchi troppo.»
“In realtà avrei sempre e solo voluto parlarle di noi.”
Non so quanto passa, forse ore. Della neve si è accumulata sulle mie spalle, dietro il bavero alto della giacca. Rialzatomi, la scrollo via. Accendo un Montecristo. È ciò che ci vuole prima di una scalata di quasi quattrocento metri.
“Che non sogno più l’ho già detto? Forse è il mio modo d’essere morto. Di sicuro, senza lei, è come se lo fossi da secoli.”
Buona lettura a tutti!
Aspetto i vostri commenti 😉
Complimenti Paolo!! Buon lavoro!
Bello e ricco di spunti il tuo racconto. Un protagonista infrangibile e fragile…mi è piaciuto.
Complimenti, avvincente come sempre lo sono i tuoi racconti.
Con il tuo modo di raccontare immagini ed emozioni il lettore si sente il protagonista del racconto.
complimenti Paolo. Emozionante, imprevedibile e mai banale..!!!!
Grazie mille a tutti!
I vostri commenti sono la mia forza creativa
Ops non erano punti interrogativi, ma emoj ahahahaha!!!
Mi è piaciuto molto come racconto, sia la scrittura molto veloce e avvincente, ma anche il personaggio protagonista: sei riuscito a dipingerlo molto bene nonostante la storia sia breve. Complimenti!
Un racconto particolare, attento alla descrizione dei personaggi a al paesaggio, che ho apprezzato particolarmente. Bravo. Però potevi dire di più del “segreto” di Donovan!
Grazie mille a voi per esservi prese il tempo di leggere il mio racconto e per i tanti commenti positivi che continuano ad arrivarmi qua, alla mia mail, e nei social.