Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2022 “La Pianura” di Guido Panziera

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

In ricordo di chi ho perduto e non ho più ritrovato, sono tornato spesso nei luoghi del mio natale.

Era un borgo senza un suo vero nome e con un solo monumento ad abbellirlo: quello dedicato ai caduti delle due guerre, nascosto dietro a dei rovi e sterpaglie che mai nessuno andava a tagliare.

C’era soltanto una bottega in cui comprare ciò che non si poteva prendere dalla terra, ma ci si andava poche volte e malvolentieri, quasi fosse un peccato spendere i soldi.

Abitavo accanto a una chiesa con il campanile storto, in una casa costruita su muri vestiti di edera e muffa, ma con un cortile enorme in cui potevo giocare mentre mia nonna mi osservava dalla finestra della cucina.

Anche il cimitero non era lontano; mi bastava percorrere a piedi un viale protetto da altissimi cipressi, e ad attendermi trovavo un campo santo dove, a parte i morti, non c’era mai nessuno a tenermi compagnia.

Non avevo molti amici e altri non ne cercavo, e ho sempre amato una sola donna che non ha mai voluto conoscere il mio nome.

Le lentissime ore che apparentemente trascorrevo senza scopo, si mostravano come esperimenti sempre nuovi e dal risultato confuso e incerto, e anche se non avevo alcuna idea di cosa avrei mai fatto da grande, sognavo il giorno in cui sarei diventato importante almeno per qualcuno.

Dove tutto appariva immobile, c’era un luogo in particolare in cui il tempo sembrava essersi dimenticato di invecchiare le cose.

Ci andavo con mio padre per osservare il momento esatto in cui la luce del giorno lasciava il posto alle ombre della sera, e solo quando il crepuscolo veniva illuminato dai bagliori delle stelle riprendevamo la via di casa.

In compagnia dei rumori della notte, costeggiavamo la sponda di un fiume che segnava la terra come un serpente sulla sabbia, e mentre ci tenevamo per mano, ascoltavo i suoi racconti che lo scorrere degli anni ha reso antichi e preziosi.

Volevo bene a mio padre e anche lui credo me ne volesse, ma il giorno di San Giuseppe decise di andarsene per sempre, chiuso in una cassa, senza salutarmi e senza darmi il tempo di chiedergli ciò che di lui ancora non conoscevo.

Non ricordo quanto piansi, ma la sua mancanza riempì di vuoto ogni stanza della nostra casa, e la sua foto appoggiata alla credenza uccideva ogni sorriso che cercavo di strappare a mia madre.

Non mi fu mai del tutto chiaro perché il destino amasse accanirsi così con certi cristiani per poi premiarne altri senza un evidente motivo, e su quel mio inquieto meditare che mi accompagnò per molto tempo, nemmeno il prete mi fu mai del tutto di conforto.

Don Marcello era un uomo schivo che sembrava nutrirsi della sofferenza e del dolore di chi incontrava e che, anche se cercava in tutti i modi di trasformare l’angoscia e lo stordimento in qualcosa di diverso dall’abbandono della speranza, ti parlava con la stessa vicinanza del becchino che scavava le fosse in cimitero.

Durante quei giorni inventati per riempire la chiesa di persone e per alimentare la malinconia di chi aveva perso qualcuno o non aveva più nessuno accanto, rimanevo chiuso in casa per aspettare che il Sole scomparisse dietro a delle montagne lontane che non ho mai conosciuto, e che dipingevano di grigio l’infinito orizzonte.

Non c’era nulla attorno alla mia abitazione, ma quel sistema fatto di pochi elementi ridava la giusta dimensione umana a chi credeva nella vita eterna.

Tra i silenzi della pianura, la vita lasciava presto posto alla morte, e senza poi tanto clamore.

Se ogni funerale veniva accompagnato dai sinistri rintocchi di una campana arrugginita, gli animali della notte, in cerca della loro cena fatta di omicidi crudeli ed efferati, si muovevano indisturbati senza che nessun giudice pronunciasse per la loro mai alcuna condanna.

Quando pioveva, le nubi anticipavano i colori del buio e l’aria profumava di muschio e temporale. Tutto appariva diverso sotto quella forza oscura che sferzava i rami degli alberi e che conferiva loro una voce in grado di spaventare chi si fermava ad ascoltare il lamento del vento; ma dove il cemento non aveva mai impedito alla terra nuda di nutrire l’erba e di colorare di fiori le vie tra i campi, durante l’inverno, tutto scompariva seppellito sotto un muro di nebbia, gelido e denso.

Anche il Sole, però, durante l’estate, aveva poteri immensi: quello di intimorire i colori, sfumarne gli eccessi, e inaridire ciò che l’acqua, con fatica, riusciva a lambire.

Dove pochi mesi prima i pallidi campi induriti dal gelo si mescolavano con l’azzurro del cielo profondo, immense foreste di frutteti e frumento separavano tra loro case mai dipinte, e abitate da persone riservate con i volti scolpiti dalla fatica.

Chi viveva nella pianura non era solito allontanarsi da ciò che custodiva, ma in quella parte di universo dove tutti si conoscevano per nome, non c’era bisogno di chiudere a chiave la casa e il magazzino.

Era un moto lento, ma perpetuo e inesorabile, che si ripeteva da anni, e che mutava nei gesti per volontà delle stagioni e mai dell’uomo.

La vita mi appariva strana a quel tempo, e senza mai definirne il perimetro e ciò che esso avrebbe potuto contenere, ne comprendevo solo che pochi elementi.

Accompagnate da quell’esercito di ombre che sembrava non volermi mai lasciare solo, erano le luci dell’alba le prime a spaventarmi, e mi tenevano compagnia finché non raggiungevo il piazzale della chiesa e varcavo quella porta che non ho mai trovato chiusa.

Mi sedevo sui banchi in fondo, nascosto anche dalla luce delle candele dell’altare, intrappolato in quel dono ricevuto che non avevo chiesto e mai voluto, e dal quale avevo trovato soltanto due modi per fuggire.

Se il buio nasconde le cose che spesso già conosciamo, in quel silenzio che uccideva i miei sogni e dipingeva di nero ogni cosa, ritrovavo il giusto riposo prima di ritornare a far credere a mia madre che anch’io, almeno in parte, ero felice.

Appena compiuti vent’anni, pensando di trovare altrove ciò che la malinconia della pianura aveva cercato in tutti i modi di alimentare, mi allontanai da quei luoghi a cui sentivo di appartenere, e persi ogni cosa.

Tra quei condomini di daltonico grigio e strade luride di asfalto nero, non vidi più rifiorire la primavera e mai dimenticai quella donna che ritenevo l’unico antidoto al mio male di vivere.

Al mio primo ritorno in quelle zone che ben conoscevo, poco del mio paese era cambiato, e solo alcuni alberi si erano trasferiti altrove, in un luogo comunque poco lontano da dove ero solito ricordarli.

I miei amici, invece, non c’erano più, e di loro, oltre a dei fiori rinsecchiti e della polvere che ricopriva ciò che non era più importante per nessuno, non mi rimase che il rimpianto di aver perduto l’occasione di invecchiare con loro.

Il tempo aveva solo in parte consumato le cose, ma le poche persone che quei giorni incontravo e riconoscevo, sembravano non essersi nemmeno accorte che la mia casa accanto alla chiesa, da quasi quarant’anni, era abitata da fantasmi.

Invisibile ospite e dimenticato abitante di quelle terre senza fabbriche e quartieri popolari, mi ritrovai esule senza più nessuna patria a cui affidare ciò che di me sarebbe rimasto.

Anche il prete se n’era andato, e la porta dietro alla quale mi nascondevo da ragazzino, la ritrovai marcita dagli anni e derubata di quel suo potere magico di proteggere chi, come me, ad ogni risveglio fuggiva dalla vita.

Se quel poco che era rimasto della mia casa venne sepolto dal crollo delle ultime travi dell’antico tetto, il luogo in cui era nata e cresciuta l’unica donna a cui dedicai il mio tormento, aveva l’aspetto di un cenotafio abbandonato.

C’era ancora il nome della sua famiglia sul campanello, il filo su cui stendeva i panni sua madre, e altre cose lasciate lì come un ritratto che imprigiona per sempre le immagini di oggetti e persone morte, con il solo scopo di lasciarne un ricordo, destinato altrimenti ad annegare negli abissi della memoria.

Appoggiato su quel cancello che mai prima di quel momento avevo avuto il coraggio anche solo di sfiorare, venni colto dal rimpianto di non averle mai confessato ciò che il mio cuore, di lei, urlava alla mia mente.

Dando voce agli spettri che abitavano i miei pensieri e non ascoltando chi, invece, continuava a ripetermi che il dono ricevuto alla nascita non andava troppo investigato, gettai via ogni attimo di felicità che, seppur in misura differente, è concessa a ogni uomo; e ora che è troppo tardi per rimediare, in ricordo di mio padre, cerco chi ho perduto tra le stelle che pungono d’oro il velluto della notte; ma dove tutto è iniziato e dovrà terminare, in compagnia del rumore del silenzio, tra quella natura che si trasfigura a ogni stagione, ritrovavo me stesso e ciò che di me è rimasto.

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4 commenti »

  1. C’è molto in questo racconto che mi piace. Innanzitutto, il ritmo lento e cadenzato della narrazione. E poi, le atmosfere struggenti, una mestizia che affiora e avvolge ogni cosa: ho avuto l’impressione, leggendo, che malinconia e tristezza addirittura precedano le circostanze e gli eventi dolorosi. I lutti, la separazione dell’io narrante da luoghi e persone, l’impossibilità di coronare il suo sogno d’amore: tutto concorre a rabbuiare il suo orizzonte.
    Ho apprezzato molto anche quella che a me è parsa una efficace consonanza tra il paesaggio che fa da sfondo alle vicende del protagonista e i suoi stati d’animo.

  2. Per me è un meraviglioso inno alla malinconia descritta in maniera delicata e senza fronzoli! Complimenti!

  3. Anche a me è piaciuto molto questo racconto, soprattutto per il ritmo lento e le atmosfere naturali evocate. Un racconto decisamente malinconico, ma anche molto Romantico: paesaggi vasti e silenziosi; il susseguirsi delle stagioni; ma anche un’indifferenza della natura rispetto all’uomo; tutti elementi decisamente romantici. Anche lo stato d’animo tormentato del protagonista, alla ricerca di sé, mi ha ricollegata agli stessi temi e viene accompagnato perfettamente dal paesaggio di sfondo (come è già stato evidenziato anche in un altro commento). Complimenti!

  4. Una profonda e corposa descrizione di un ambiente agropastorale dove gli eventi si susseguono immutabili, dove la natura ed i rituali ad essa collegati la fanno da padrone e sembrano inghiottire tutto il resto.
    Estremamente malinconico.

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