Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2022 “Il quinto giorno” di Francesco Montonati

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

Quando ti ho vista la prima volta non lo ricordo, ti sono passato davanti per giorni senza accorgermi. Poi, stamattina, mentre camminavo su corso Vittorio Emanuele mi sono fermato a guardarti, aspettavo che qualcuno ti mettesse i soldi, ma a quell’ora a Milano vanno tutti di fretta. Era bello guardarti, fiera sul piedistallo, i muscoli tesi, le mani sui fianchi, i capelli chiari e luminosi. Ti fissavo gli occhi color ghiaccio, perché è lì che mi accorgevo che eri viva. Rosati e umidi, con le ciglia che sbattevano per frazioni di secondo e le pupille che, stanche di quelle attese, si concedevano di tanto in tanto un giretto lì attorno – tutto bene qui? – e tornavano in posizione. È in quello spazio che ci siamo incontrati. Nei tuoi occhi. È stato l’attimo più caldo della giornata. Tanto che sono scappato. 

Poi è stata una giornata piena di te. Non riuscivo a staccarmi, la mia occupazione principale era immaginare i pensieri che facevi lì sul piedistallo. Ti vergogni mai, mi chiedevo, io morirei di vergogna, davanti a tutti. Qualcuno ti disturba, magari? Hai caldo, freddo. E poi sulla tua vita: hai un cane, un gatto, vivi con amici, con un uomo, con una donna, ti piacciono le donne, gli uomini, i fiori? E io? Ti piacerei io? Adesso, qui nel silenzio della notte, i pensieri si fanno chiassosi. Non sapendo il tuo nome, ti riporto alla mente con un’immagine: i tuoi occhi. Provo a immaginare cosa provi aiutandomi solo con quel che ricordo dei loro movimenti. 

La prima cosa che farò domattina sarà mettermi in tasca una manciata di monete, poi darò da mangiare ad Alfredo, un gattaccio isterico che ogni volta che lo accarezzo soffia, graffia e salta via con la coda gonfia, poi scenderò a fare colazione con gli altri. E verrò da te.

Ti ho vista muovere. 

Stavo arrivando e ti ho vista, ho sentito un calore dentro grande come un sogno che prende vita. Via, non esageriamo. Però come se, per dire, il gatto si fosse messo a parlare. Ecco, Alfredo, acciambellato sul davanzale, che si alza e mi chiede un caffè. Ma non ti sei mossa per me. Era una donna con grandi occhi a mandorla che ti ha lasciato la moneta, e la prima volta che ti vedevo muovere avrei voluto che fosse per me. Me ne vado a lavorare. 

Sto ai Giardini di Palestro, dove ci sono il Museo di Storia Naturale e il Planetario. Raccolgo le lattine, con il mio bel cappellino del Comune, le bottiglie, le carte, i preservativi – eh sì, anche quelli mi tocca tirare su – e butto tutto in un grande sacco azzurro sul furgoncino. A volte, in estate, quando c’è poca gente, mi fanno portare il tagliaerbe; che impagabile senso di libertà a sgasare su e giù per le collinette nel parco mezzo vuoto! Gli uccelli che gridano come pazzi, le cicale che spaccano i timpani, l’aria calda e verde. Ma adesso è ottobre, raccolgo cartacce.

Il giorno dopo stai parlando con la ragazza delle spade. Una tipa tosta, anche lei, nervosa, con bracciali sugli avambracci come le guerriere della tv, che la sera ingoia spade e di giorno fa fiocchi e cagnetti con i palloncini per marmocchi eccitati. Certo che uno sguardo anche solo per curiosità, per cortesia, potresti mandarmelo. No, sei distratta dalla ragazza. Allora ti cammino davanti e finalmente con gli occhi segui il mio passaggio. Non mi fermo, trotto fino in fondo al Corso, arrivo a Piazza San Babila, faccio inversione e torno passando dalla parte opposta. C’è tanta gente, non ti accorgi di me. Sei molto presa dalla conversazione. A un certo punto allarghi le braccia stizzita, con un cenno saluti la tua amica e torni in equilibrio sul piedistallo. Io resto qui, in disparte. Aspetto il coraggio con le monete sudate in mano. Sei immobile, il viso bianco di cerone, il piedistallo coperto da una cascata di raso nero, basta un tintinnio per farti muovere e salutare che è un piacere. Ma i tuoi occhi che si voltano al mio passaggio, questa è una scoperta nuova. Il primo giorno ti ho vista magra e salda, il corpo che muovevi lentamente ad ogni monetina che finiva nel cappello. Il secondo avrei voluto averti mia, e con te il tuo movimento. Oggi, il terzo giorno, ti ho vista parlare con l’amica delle spade. Ti ho vista guardarmi, e ho visto il tuo sorriso, piccoli denti che affioravano da quel taglio di rossetto. Per oggi può bastare così.

Il quarto giorno vedo il tuo bianco appassire sotto la pioggia, io dentro il bar e tu al di là del vetro appannato. Vengo a lanciare venti centesimi nel cestello, li butto forte, contro gli altri, perché facciano rumore e tu possa sentirli, ma stai già salutando qualcuno che prima di me ha buttato soldi e sembra che non ti accorgi neanche dei miei, ma poi invece volti la testa verso di me e con il tuo fare robotico porti la destra alle labbra, la premi forte e mi soffi un bacio. Ti sorrido, grande e lucente. Ma non faccio altro perché ho il sangue che mi sbatte contro il petto e vedo tutto molle e tremulo. Corro nel bar, tu ancora al freddo sotto la pioggia che goccioli cerone bianco dal viso, e allora torno fuori, mi piazzo davanti a te, ti guardo per un po’, e questa volta lascio planare nel cappello soldi muti, una banconota.

Per un attimo ti muovi come si muovono le persone, sotto il bianco arrossisci e mi guardi come guardano le persone.

«Vieni a bere una caffè con me?» ti chiedo con dolcezza. 

Mi guardi in silenzio, non sorridi. 

«Me preso per putana?» Hai l’accento dell’est. La voce roca, gli occhi arrabbiati di Alfredo quando gli faccio una carezza. Ti balbetto che ti ho dato questi soldi per permetterti di venire a bere con me senza perdere l’incasso, e tu: «Nemmeno in due giorni li prendo cento euro» mi dici. E torni robot. 

Mi sento vacillare, il mondo si fa molle. Non te ne andare, non smettere di parlarmi. Please. S’il vous plait. 

Immobile. Robot. 

Statua.

Non voglio che te tu ne vada, che sia già finito tutto. Allora ti sfioro un braccio ma lo allontani e la mia mano ti finisce sul seno. Tenero e polposo. Cacci un urlo che ti sentono fino in Duomo. Io mi spavento e il cuore mi salta in gola che quasi non riesco più a respirare. Non urlare, ti prego, si girano tutti, non voglio tornare là. Ti abbraccio con tutta la dolcezza che ho, ma tu urli ancora, urli sempre più forte. 

«Me fai male» dici, «me spezza ossa! Aiutoooo!». 

Un colpo alla schiena mi fa sussultare. Non so chi è stato, ma riprendo i soldi dal cappello e scappo mentre tu continui a urlare aiuto aiuto e l’urlo ti deturpa la faccia, sdraiata a terra, il vestito rotto, la cassetta piedistallo squarciata, e la gente – tanta gente – che mi guarda impaurita e io corro e ce l’ho tutta intorno, la gente, che mi indica e spalanca gli occhi e la bocca rossa, e corrono tutte le vetrine profumate e le pozzanghere poi mi bloccano i piedi e cado a terra di faccia. È la stronza delle spade, mi ha abbrancato le caviglie e mi tiene stretto. Tento di divincolarmi ma la stronza mi punta alla gola la spadina che sembra uno stuzzichino d’acciaio ma lungo lungo, e spinge, mi grida stai fermo animale. Quando mi muovo sento dolore. Mi manca il respiro. Allora sto fermo e alzo le mani. Piove ancora. Penso ai tuoi occhi. Non volevo. Il sangue mi zampilla dal collo e mi ricorda Alfredo, quando fa la pipì contro la pianta dell’Istituto; mi fa tanto tenerezza quel micio, sempre da solo, in giro a zonzo con il collare che gli ho fatto io con lo spago che mi ha dato la suora.

Quando arriva la polizia sono quasi addormentato, la ragazza di spade scatta in piedi e gli sbraita contro. 

«È un mese che ve lo diciamo!» strilla. «Possibile che non vi muovete finché non c’è l’incidente? Adesso ve la prendete con me? Lasciatemi!». La caricano sulla volante blu. Poi anche le sirene sono blu, e i vestiti arancioni, spaziali, con i catarifrangenti. Mi si avvicinano, mi sdraiano con garbo, mi fanno operazioni agitate intorno. Fermiamo l’emorragia, dicono, il polso, rianimiamo, portiamolo là e mi caricano sull’ambulanza, mi portano via senza neanche accendere la sirena, ma io  non ci voglio tornare. Sul lettino chiudo gli occhi perché c’è troppa luce e mi fa male la testa. Nel buio rivedo il tuo viso. 

Ho agito da montato, scusa. È che io non so mai comportarmi con le ragazze, me lo dice sempre la suora. A ogni modo rimedierò: domani è il quinto giorno e tu sarai lì a mandare baci e io sfiorerò ancora i tuoi occhi.

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