Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2022 “Colt 104” di Claudia Chiti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

La noia mi avvolgevano intensamente in quel pomeriggio deserto e pieno solo di quel vuoto disinteressato e rassicurante composto dalla certezza che il rientro in classe era ancora lontanissimo. Mentre Il sole a picco sulla testa, l’odore acuto delle stalle e il frinire delle cicale riempivano un silenzio denso.

Era l’estate del ’93, quella in cui tutto cambiò: la fine dell’apartheid, gli 883, i ragazzini sopra motorini truccati, l’esplosione della straordinaria invenzione: Internet. Ma io tutto questo non lo sapevo ancora e, dopo la fine della scuola, stavo con la mia unica compagnia: la bici.

La polvere arida mossa dal vento mi raschiava fino in fondo alla gola e irritava gli occhi che strizzavo anche per il bagliore della luce di quel fine giugno, ma del nostro incontro ne conservo un ricordo vivido a cui ancora sorrido.

Lontano dal paese e dalla gente, ronzavo nel piazzale assolato del cimitero dove io e Babi ci siamo conosciuti davvero.

Lui era un personaggio quasi irreale, non aveva un nome vero perché tutti lo avevano sempre chiamato Babi. Ci eravamo già intravisti a scuola, poi lungo la stringa di strada sterrata che allacciava il cimitero alle poche case del paese raggomitolate nella stretta valle, la percorrevamo in senso opposto e io mi divertivo ad alzare la polvere, tantissima polvere, per poi fermarmi e guardare Babi sparire nel “mio” nuvolone.

Diverse volte ci eravamo scrutati con un’occhiata potente senza perdere le parole e l’equilibrio.

Anche quel pomeriggio fiaccato e uguale a tutti gli altri, ci incrociammo lungo la strada: lo vidi sfrecciarmi accanto e in un sussulto strinsi forte le mani, inchiodando la bici e cambiai direzione, senza sapere che stavo svoltando anche nella mia vita.

Non badai alla nuvola di polvere in cui entravo, che mi pungeva la gola a ogni respiro e che danzava davanti a me nell’aria confondendo i contorni del mondo che conoscevo.

Arrancando sulla leggera salita, arrivai nel piazzale dove lui, come se sapesse che lo avrei raggiunto, girava a vuoto con la sua Bianchi.

Mi vidi dentro i film Western del nonno: ero il pistolero sudicio e risoluto, pronto al duello. Dalla fronte madida di sudore, le goccioline si riunivano lungo il solco degli occhi sembrando lacrime dense con un colore simile alla melma.

Io non le sentivo, io non sentivo più niente.

In quel momento Babi mi vide e si fermò.

Ci trovammo l’uno di fronte all’altro. Io appoggiavo a malapena sulla punta del piede con il sole che riverberava nel bianco della ghiaia, gli occhi come due fessure potenti e il manubrio della bicicletta in pugno insieme ai miei sette anni. Usai fino in fondo il mio sguardo più minaccioso e lui sembrò fare lo stesso, ma con un ghigno moltissimo più bellicoso e tutto il piede piantato a terra che quasi sembrava quello di un toro impaziente davanti al mattatodor.

Ma non avevo paura, non ne ho mai avuta davvero nella mia vita fino a quando ci siamo allontanati molti anni dopo.

A scuola mi avevano detto di stare attento perché Babi aveva la 104. Dicevano che era uno dei primi a cui l’avevano data.

Quando ci fronteggiammo in quel mezzogiorno di fuoco aspettavo trepidante che lasciasse la presa della bici ed estraesse rapido dalla tasca la sua 104 lucida con cui, prima di uccidermi, mi avrebbe abbagliato.

Ma forse per la polvere o il sole, lui si mosse e starnutì, soltanto.

Io non lo persi di vista e teso, senza sbattere gli occhi, scrutai la sua mano che lenta entrava nella tasca alla ricerca di qualcosa.

Un brivido mi attraversò la schiena, nella testa quei pochi secondi si frammentarono in briciole di tempo infinite e rallentate che si stamparono nei miei ricordi con un foglio di carta carbone.

Babi sembrò non farci caso e lentamente tirò fuori un fazzoletto gualcito e sudicio con cui si soffiò sonoramente il naso e sorrise dicendo:

«Senti, io ho caldo. Andiamo da qualche altra parte?», sibilando una esse incerta in un ritmo cantilenante.

Confuso scesi dalla bici poggiando entrambi i piedi in terra con un sollievo dal fondoschiena intorpidito da un sellino troppo alto.

Scossi la testa con gli occhi chiusi come la feritoia del castello di Merlino, puntati su di lui come un fucile caricato per colpire; poi, un lampo… “E se fosse soltanto una tattica per distrarmi?!” mi interrogai.

Anche i pistoleri del West lo facevano: strizzavano lo sguardo, una battuta e quella era l’ultima che il disgraziato avrebbe sentito nella sua vita. Così non mi mossi, ancora più determinato a vedere la sua favolosa 104 nuova. Nessuno l’aveva mai avuta in paese e io volevo, volevo e volevo essere il primissimo.

Così senza aver udito niente di quello che aveva appena detto, gli chiesi:

«Senti… ma dove la tieni?», buttando le parole fuori tutte insieme con il volto rabbuiato, uscendo finalmente allo scoperto e superando il timore per il quale da tempo lottavo.

A Babi durante la scuola nessuno chiedeva, nessuno sembrava sapere nulla anche se tutti bisbigliavano. I bambini di quinta elementare ridacchiavano, i piccoli si tenevano alla larga, mentre i grandi sembravano sussurrarlo tra loro, con il tono di un segreto pesantissimo.

La curiosità si era insinuata in me, come fuoco che divampa nel buio, tormentandomi ogni volta che incrociavo Babi.

Poi la certezza: volevo vedere la 104. Niente era più importante!

«Cosa?» rispose perplesso, sempre con quel suono strisciante della lingua incerta.

«La 104… Non credere di fregarmi solo perché sono piccolo!».

Babi mi guardò perplesso con gli occhi vuoti delle rane che gracchiavano dai canali di quella campagna testimone invisibile di scorrerie di indiani e pistoleri.

«La 104!» ripetei fermo, ma con il petto che rullava come cavalli al trotto.

«E cos’è?» disse con il viso corrugato scuotendo le spalle in un sussulto.

«Non lo so… Ma mi hanno detto che ce l’hai solo te» precisai con decisione.

«Neanche io lo so…» mi rispose, facendo di nuovo spallucce e avvicinandosi a me. «Senti andiamo a giocare da un’altra parte? Fa caldo qui!».

Io lo guardai diffidente e deluso.

Volevo vedere la sua 104!

Non mi fidavo, aveva appoggiato la bici in terra, aveva accorciato le distanze tagliando il piazzale in diagonale con quelle strane scarpe alte fissandomi con occhi chiari e buoni.

Mi immaginai che potesse essere solo una tattica per distrarmi, accostarsi e stendermi con un solo colpo. Così lo tenni agganciato al mio sguardo e lui si avvicinò come un pesce che ha imboccato l’esca.

Fu lì che diventammo amici.

Lui sembrava un gigante vicino a me, aveva degli occhi intensi e intrisi di un’ingenuità accentuata dal suo passo impacciato e pesante, due gote rosee e piene. Sorrideva grondando amicizia con una gioia per me sconosciuta e l’idea di giocare con lui mi fece perdere le tracce della diffidenza.

In un attimo dimenticai le chiacchiere, la 104 e tutto il resto per seguirlo.

In quei giorni liberi dalla scuola, dai genitori e da tutti quelli che erano spediti o partiti per il mare noi due sperimentammo un legame intenso tra i viottoli assolati della campagna dove lui ridendo si dileguava come un razzo su una bici che era il doppio della mia, mentre io arrancavo dietro a lui tra i sassi e le buche della strada.

Ogni sera riportavo a casa un’intensità che solo le mie gambe graffiate e sporche potevano spiegare alla mamma.

«Dai corri!» mi diceva, ma poi si fermava ad aspettarmi guardando indietro nel nuvolo di polvere da cui instancabilmente comparivo sprezzante.

Passammo l’estate immersi nei fossi acchiappando le rane con le mani, sbraitando l’uno contro l’altro per avere quella più agile, ma subito tornando ad ammaestrarle per lo spettacolo fantastico che prima o poi avremmo realizzato insieme.

In quella bolla del tempo le nostre differenze vennero risucchiate diventando intangibili anche se nessuno dei due lo sapeva perché Babi è sempre stato solo il mio migliore amico.

Avevano ragione i grandi quando dicevano che lui era strano, perché lui era davvero speciale!

Babi sembrava non pensare, si buttava in ogni cosa con un entusiasmo intenso e contagioso, mentre io spesso avevo la sensazione che i pensieri corressero troppo veloci, avevo mille domande nella testa a cui nessuno sembrava dare troppo peso, mi dicevano che ero distratto, ma io mi annoiavo a morte e, se a scuola raccontavo i miei progetti, gli altri bambini ridacchiavano e inesorabilmente restavo solo con ferite così profonde di cui nessuno sembrava accorgersi.

Anche a Babi succedeva lo stesso, gli altri bambini sembravano passargli accanto come fosse un tavolo o una sedia, in pochi erano interessati ad ascoltare la sua voce cantilenante e incerta.

Per questo con lui mi divertivo veramente. A noi piaceva proprio giocare!

Ci eravamo detti pochissimo, ma con l’intensità di tutto ciò che è davvero importante.

Ci capivamo subito quando bisbigliavamo per costruire i capanni degli indiani, le pistole, gli archi con le frecce e vivevamo in un tempo sospeso che custodiva il nostro mondo in cui la musica, che quasi sentivamo davvero.

Ci salutavamo solo la sera, che arrivava sempre troppo presto, quando il sole si ritirava dietro un orizzonte scarlatto merlettato tra il profilo delle montagne e la voce della mamma risuonava tra i ciottoli delle strade e le finestre socchiuse dell’imbrunire.

Passammo luglio e agosto tra assalti e avventure mozzafiato, poi arrivò settembre e tutto di nuovo cambiò.

Io restai ancora più annoiato alle elementari del paese, mentre Babi andò in città alla scuola media insieme alla 104.

Non gli chiesi mai più di vederla perché capii che era tenuta nascosta dalla sua mamma. Lei non ne parlava mai e, quando glielo domandavano, bisbigliava con circospezione.

L’intensità di quella estate consumata e irripetibile mi mancò con un dolore allo stomaco, che quasi mi bloccava il respiro e a tratti lasciava sgorgare qualche lacrima che velocemente rimandavo indietro.

Nell’inverno pensavo a Babi quando ero seduto al mio banco, quando tornavo da scuola, quando mangiavo. Ci pensavo praticamente sempre. Mentre non ho mai capito che cosa restò a lui della nostra amicizia; ma so che quando ci rincontrammo di nuovo a giugno del ‘94 fu come se la bolla del nostro tempo si ricompattasse, ci avvolgesse con il caldo e la polvere e ci lanciasse nel vento come se l’estate del ‘93 non fosse mai finita.

In fondo, fino a che c’è stata la nostra amicizia, l’estate del ’93 non è mai finita.

L’estate è sempre l’unico posto in cui resto davvero libero.

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6 commenti »

  1. La delicatezza della scrittura ti fa tornare all’estate, all’infanzia e alla libertà. Affronta la tematica della disabilità riuscendo a tenere insieme l’intensità e la leggerezza tipica dei giochi dei bambini. Inoltre, è capace di suscitare sinestesie intense che avvolgono davvero e che mi hanno riportato alla mia infanzia.

  2. Un racconto scritto in modo intenso e allo stesso tempo delicato. La scrittura sensibile è capace di cogliere sfumature psicologiche e suscitare immagine e suoni molto precisi. Si ha l’impressione di veder scorrere un film. E quando il racconto finisce lascia una sensazione di sospeso, perchè vorrei leggere ancora…
    Affronta una tematica impegnativa e già molto approfondita ma con una visione nuova e delicata. TRovo molto interessate l’accostamente dei due bambini apparentemente molto diversi: una con una disabilità, l’altro con una probabile plusdotazione che in realtà riescono a superare più barriere degli adulti “normali” che li circondano… questo mi ha toccato molto!

  3. Un racconto che lascia una delicata felicità, che mi ha ricordato molto intensamente la mia infanzia quando giocavo libera nei campi quando ancora c’era la possibilità di stare in una dimensione diversa rispetto a quella dei bambini di oggi. Divertente e geniale l’idea del fraintendimento e bellissimo quando descrive l’intensità con cui il bambino crede che l’amico custodisca qualcosa di prezioso.

  4. Grazie ha chia ha lasciato un commento che ha saputo cogliere il senso del racconto.

  5. Complimenti Claudia. Una descrizione equilibrata che permette al lettore di immergersi nella lettura e immedesimarsi con il protagonista. Un racconto che mi ha riportato indietro nel tempo…

  6. Grazie Fabrizio!

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