Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2022 “Quell’impossibile verità” di Francesca Lucrezia Straziota

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

Ero immobile. Gli occhi, come finte perle che, ormai logore, hanno smarrito il loro valore e rivelato la propria menzogna, fissavano un punto indefinito della stanza. Sentivo il vuoto conficcarglisi dentro con forza, risucchiando anche quell’ultimo, lieve, afflato di vita. Quel niente annullava e impediva anche un ultimo contatto con gli alberi che si ergevano non troppo lontano da quel luogo ameno chiamato casa.

A giudicare dal lieve tepore che infastidiva la mia pelle, dovevano essere all’incirca le sei del mattino e il mio corpo già trasudava cortisolo. Prepotentemente, il profumo nauseante dei fiori posti sul davanzale della finestra giungeva a disturbare le mie narici. Odiavo non conoscerne il nome. Enrico mi aveva ripetuto più volte che, in fondo non mi avrebbe giovato sforzarmi di ricordarlo.

Zero impegni,  interminabili stanze con spazi ampi, rilassanti suoni di campagna. Molti avrebbero rinunciato a qualsiasi cosa per vivere in una simile agiatezza. Per me era diverso.

Non ero protetta, ero isolata; non ero a casa, ero lontana dal mondo, contro la mia volontà, ma quello stato compromesso non mi dava la forza di oppormi. Ero vittima e fingevano di non vederlo, attendendo solo il momento giusto per sferrare il colpo finale e annientarmi definitivamente.

Vivevo in un punto  indefinito delle campagne toscane, non mi era dato neppure conoscere il nome di quel posto ostile, né da quanto tempo la mia mente e le mie membra non trovassero o provassero qualcosa di stimolante.

All’improvviso, balzai in piedi. Dovevo andare via prima che fosse troppo tardi, mi avrebbe trovata. Sapeva dove ero, sapeva che ero imprigionata.

Non avevo mai considerato l’idea di restare per sempre così apparentemente libera, quegli odiosi fiori lo erano sicuramente più di me e lo mostravano senza alcun ritegno. Costretti in un vaso, ma esposti ai raggi del sole; con le radici fisse nel terreno, ma con la possibilità di prendere fiato e di godersi un altro giorno di vita. I loro  petali non erano inutili oggetti nascosti, anzi: erano perpetuamente esposti alla luce e delicatamente accarezzati dal vento o, se la giornata era piovigginosa, erano aggressivamente  picchiati dall’azione impetuosa dell’acqua. Io, invece ero vittima di una trama spietata, ma stavo al gioco solo finché le forze non mi fossero state rese. Eppure loro non dovevano aspettare, non erano debilitati, erano belli e forti e io li detestavo profondamente.

Le feste non erano mai mancate nella nostra casa; giorno dopo giorno, in ogni angolo delle ampie pareti di quella gabbia rivoltante, si avvertiva la voce di qualcuno cedere all’ebrezza e barcollare fino al primo giaciglio libero, mentre qualcun altro invitava gli sconosciuti bevitori a degustare nuove soluzioni alcoliche, gingillando tra le dita i bicchieri.

Enrico spesso rotolava giù per le scale e vi restava finché non tornava brillo. Un demone lo abbandonava solo quando lo vedevo provare a ricomporsi e restare per ore a piangere con la faccia tra le mani.

Non ho mai creduto del tutto a quella recita, lui era come loro.

Tutta quella parvenza di benessere, caos volgare, tutta quella inutilità e quello spreco di mezzi, mi inorridiva. Sorridevo e annuivo, ma dentro morivo. Tacevo, ma il mio era solo un urlo disperato che non riusciva a farsi sentire.

Erano passati sei lunghi anni e quella figura accanto a me, sbronza, lercia e che mi pareva sempre più corrotta, divenne presto solo insopportabilmente ributtante, ancora più quando l’orrore di quella vita sudicia che avevo inettamente appoggiato, mi colpì.

Corsi in fretta giù per le scale che conducevano alla cantinola, mentre sentivo le mani infuocarsi lungo il corrimano e il fiato spezzarsi in gola, poi richiusi violentemente la porta alle mie spalle. Doveva avere un peso la mia presenza. Quella persona doveva sapere che esistevo, sebbene la paura minacciasse di paralizzarmi.

Aprì, con timore misto a cruda violenza, il baule dei ricordi e cercai, in preda a un impeto frammisto di collera e desiderio malsano, la ragione che mi aveva condotta in quello stato. La trovai.

Era annerita, danneggiata dal tempo e dalla muffa, ma la causa di tutto, il sigillo che mi avevano apposto altri, la mia ingiusta colpa per un motivo ignoto.

Per tutta la vita.

Sapevo di essere innocente, sapevo di non aver meritato una sola lettera di quel papiro illeggibile, pieno di termini astrusi e contorti, sapevo che la mia mente funzionava bene. Dovevo mostrarlo al mondo. Dovevo riprendermi mio figlio, dovevo volare. Sì, volare, con lui tra le braccia e punire chi mi aveva costretta in quelle condizioni.

Il tempo passò in fretta e fuori ormai si era fatto buio, ma questa volta lo ignorai. Scelsi di indossare i miei vecchi occhiali da sole e tornai indietro, salendo dalla porta esterna. Il buio, ora, non era più anche dentro di me. Era solo un estraneo contorno sfumato.

Nel breve tratto che mi separava dalla parte superiore della casa, godevo nell’incrociare quei volti transeunti che consumavano i propri corpi lassi in perverse voluttà.

Nessuno mi avrebbe più fermata. Quella me lontana era ancora qui da qualche parte e stava giungendo il suo nuovo esordio.

Osservai la culla che era stata sapientemente ricoperta di qualsiasi tipo di lerciume, tanto da sembrare un mobiletto bruscamente dismesso. Pensai di ripulirla, ma il sangue mi si gelò nelle vene e, senza che me ne accorgessi, le mani lasciarono cadere un oggetto pesante sepolto all’interno.  

In quell’istante, una lepre balzò vicino ai miei piedi. L’animaletto ricordava più di quanto non ricordassi io. Rimasi per terra, mentre lei scappò via.

C’era il mio bambino, l’unico essere umano che mi aveva avvicinata e mi aveva sorriso e io non gli avevo fatto mai mancare nulla. Il latte era nel frigo, come anche il biberon, ed era compito di Enrico curarlo, così come doveva avvenire per quei fiori, i gigli-ecco, si chiamavano così-.

La mia testa sembrava volermi riportare indietro nel tempo, quando avevo accettato, senza alcuna convinzione, di sposare un uomo sconosciuto; presto i litigi erano cominciati, senza che capissi nemmeno di cosa parlasse. Si lamentava di tutto, del mio comportamento asociale, dei debiti che accumulavo, del curarmi dei miei affari: me e il mio aspetto.

Avevo un armadio con un ammontare interminabile di abiti diversi, costosissimi, che compravo solo per istinto, senza una vera ragione. Non era grave, non sapevo resistere alle tentazioni, non avrei mai accettato di assumere quei farmaci che dovevo ingurgitare come una spugna.

Il leprotto mi aveva infastidita un granché con quello sguardo dolce e impaurito, come una vittima prima di recarsi al macello. Quante storie per nulla! Gli permisi che corresse via, che tornasse da tutta la sua irrecuperabile vita.

Una sera di due anni prima, Mattia tornò presto dal lavoro.

“Com’è andata oggi, amore? Ti senti meglio?” Risposi con un cenno del capo vago e mi diressi verso la stanza per gettare tutte le pillole nel water.

“Cosa stai facendo? Mi avevi detto che non avresti più assunto questo atteggiamento di rifiuto! Devi curarti per stare bene! Devi farlo per te, per noi!”

Mentre mi parlava, il sangue mi ribolliva nelle vene e lo sentivo giungere sino alla punta estrema dei miei capelli. Non poteva più darmi ordini, dovevo riprendermi la mia vita. Ero lucida e lo stavo odiando.

“Amore, sai che ti amo. Promettimi di non farlo più. Voglio che tu sia davvero  felice. Cerca di riflettere”.

Uno scoppio squarciò il mio silenzio. Un’unica pallottola lo colpì dritto al cuore. Ora ero libera. Non ebbi alcun rimorso. Potevo smettere di obbedire, ma non sapevo ancora che non sarebbe stato tutto così facile.

Passarono pochissimi giorni ed Enrico realizzò l’accaduto. Decise che il fragore del centro di una città come Firenze non faceva per me e riuscì a farmi ottenere gli arresti domiciliari per interdizione mentale.

Da quel momento, mio marito sparì, la pistola sparì, la culla sparì e fui obbligata a firmare su un registro per ogni assunzione di psicofarmaci avvenuta regolarmente. Io lo trovavo del tutto inutile.

Vivevo nel nulla, con un vecchietto disperato che si era fatto tentare dall’alcool pur di non soffrire. Io riuscivo solo a ripetermi che la brava impiegata  diligente, Luana, era tenuta lontana con la forza dalla sua occupazione, mentre qualche altra incompetente aveva osato occupare il suo posto di lavoro.

Il baule, tuttavia, era stato riaperto dalla bella e seducente Luana, a cui tutti avevano fatto la corte in ufficio, e i conti sarebbero stati regolati presto, per sempre.

I giorni seguenti si svolsero con una tale frenesia da far girare la testa. Enrico continuava a invitare ubriaconi e non fu difficile avvicinare più di un paio di volte un  uomo sulla quarantina cui Enrico aveva rivelato dove nascondeva i miei  farmaci, per paura che se ne dimenticasse, vinto dallo sciocco vizietto.

Più volte al giorno, aveva cura di depositare sulla mia scrivania le giuste dosi e di attendere che le ingurgitassi, poi si allontanava nei meandri di quelle stanze ariose che ai miei occhi risultavano maledettamente cupe e desolate.

Mi disfeci di quel malloppo di sostanze sottratte a quel misero soggetto e lo sotterrai ai piedi di un ampio faggio. Mi accorsi presto di essere stata seguita.

“Non ricordi nulla?” mi urlò un uomo. Aveva ancora la voce flebile di un ragazzino. Non capì chi fosse e non mi voltai.

“Quel bambino non è più un neonato!” Continuai a non rispondere, mentre la voce diveniva sempre più incalzante e i suoi passi guadagnavano terreno.

“Mamma!”

Voltai lo sguardo, c’era un uomo che conoscevo da tanto tempo. Teneva tra le mani un registratore dal quale si sentiva ripetutamente pronunciare quella sola, unica parola che squarciava il silenzio di quel luogo.

Enrico farfugliava sillabe, si dimenava, rideva a crepapelle.

“Sei solo una povera pazza! Ormai non sai più distinguere se tutto questo sta accadendo sul serio, se è frutto della tua malattia o di una spiccata quanto irreale fantasia. Hai ucciso Mattia, mi hai costretto ad alimentare un fantoccio con un  biberon per anni, convinta fosse tuo figlio. Come se non bastasse- proseguiva emettendo ghigni ironici- hai scambiato un mobile dismesso per una culla! Una culla, ma pensa un po’!”

Avevo ancora le mani sporche di terra e il mio atteggiamento stava tornando rabbioso, come quello di una tigre pronta a sferrare l’attacco.

Mossa dall’impeto, gli chiesi: “Cos’ è reale?”

Lui continuò a ridere per un po’ e glielo richiesi, mostrandomi inferocita com’ero: “Dimmi cos’ è reale! Dimmelo!”

Non rispose, ma smise di ridere. Il suo volto divenne triste e le labbra si serrarono.

Afferrai l’oggetto pesante che avevo ritrovato nella culla ricoperta di lerciume e che avevo risposto nella mia borsa.

Enrico se ne accorse e riuscì solo a dirmi: “Sei grande, ti ho vista crescere e ti ho accudita con amore. Avrei solo voluto che non avessi sottovalutato le cose.”

Lo diceva mentre mi girava attorno e quel moto aveva solo fatto aumentare la mia ansia. Cominciai a tremare e lui, notando il mio tentennamento, afferrò la mia mano e mi sussurrò all’orecchio: “Scegli tu a cosa credere. Potremmo tutti averti preso in giro e tu potresti essere l’unica vittima.  Nel frattempo, promettimi di non farlo più. Voglio che tu sia felice”.

Scelsi di non capire la verità.

“Ti voglio bene, papà”. Sparai. L’odore dei gigli si diffuse.

In un attimo, la pace.

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1 commento »

  1. Siamo Tutti catapulti nella psicosi della protagonista, impossibile distinguere la verità, quell’impossibile verità. Bel patos, avvincente e ahimè straziante. Complimenti.

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