Premio Racconti nella Rete 2021 “Le quattro strade” di Cristina Gatti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021“Vacillo sulle gambe per lo sforzo. Mi sento come congelato, anche se c’è il sole e fa caldo. Riesco soltanto a vedere la schiena di quello davanti a me. Ogni passo che mi obbligano a fare è un minuto di vita in meno. Vado incontro alla morte.”, leggevo avidamente quelle pagine. Erano parole scritte da un uomo, forse un prigioniero o un sopravvissuto a qualcosa di grave, che aveva scritto perché non poteva farne a meno. Qualcuno che, era chiaro, non aveva l’abitudine di prendere appunti o tenere un diario. Le parole su quei fogli salivano senza tenere nessun allineamento, si facevano ora più piccole ora più grandi. Non c’erano né virgole né punti, come fosse stato scritto con foga, tutto d’un fiato. Era di qualcuno che mia nonna conosceva, perché lo avevo trovato tra le pagine del suo messale in casa della mamma. Continuai a leggere.
“Il tedesco che ci ha portati via col fucile alla schiena ogni tanto grida ‘Raus, Raus’ e qualche volta calcia qualcuno nelle gambe. Stiamo camminando da più di un’ora su per la ”fonte giallina” a Monte Morello. Arrivati in uno spiazzo pieno di terra smossa, uno cade in una buca. Un altro, uno di quelli in fila davanti a me, lo tira fuori per un braccio. Alfredo non lo vedo più da quando ci hanno presi. Non posso fermarmi, non posso alzare la testa, le mani sul manico della pala tremano. Ci fanno scavare una fossa. A che serve? Forse ci getteranno tutti dentro. Morirò laggiù in fondo…”
Presi quelle pagine ingiallite e prima di finire di leggerle le portai a mia madre in cucina. Le chiesi cosa fossero, ma lei, con aria sorpresa, me le sfilò di mano e si mise a guardarle, mentre si sedeva. Nel frattempo avevo fantasticato di un misterioso amante di mia nonna Giuseppina, una di quelle storie romantiche e impossibili. Ma rifiutai subito l’idea. Lei era fedelissima, cattolica praticante, una donna energica che aveva tirato su quattro figli tra gli ostacoli e la povertà dei tempi della guerra. Ma soprattutto la nonna amava molto il nonno.
«Questo è il diario del babbo, dove l’hai preso?», fece mia madre interrompendo il flusso dei pensieri.
«Nel messale della nonna. Questo!» risposi mettendoglielo sotto gli occhi. «L’ho trovato nell’armadio in cantina. Non ci posso credere! Il nonno aveva un diario?»
«Non era proprio un diario, si è messo a scrivere solo dopo quei fatti …»
Mio nonno si chiamava Fosco, era un uomo mite e solare a dispetto del nome e faceva l’organista a San Michele a Castello, una piccola chiesa che dominava il borgo dalla cima della collina. Tanto era pacato e tollerante lui, tanto era sbrigativa e rigorosa la nonna Giuseppina. Mia madre invecchiando, le assomiglia sempre di più.
Vivevano a Castello, una frazione nella periferia nord di Firenze, tra alberi secolari e colline verdi, al confine con Sesto Fiorentino, tra la Villa medicea La Petraia e Villa Reale, quella che poi è diventata la sede dell’Accademia della Crusca. Quella zona era stata scelta dalle famiglie nobili già ai tempi dei romani, per la sua terra fertile e per la presenza dell’acqua. Infatti il suo nome viene da Castellum che significa cisterna. Insomma un paradiso in cui tutti vorrebbero stare.
In quei tempi usava dare nomignoli e soprannomi anche ai luoghi. La famiglia dei miei nonni abitava in un posto che la gente chiamava “le quattro strade”, all’incrocio tra via della Querciola e via di Castello. Intorno alle case costruite lungo la strada, c’erano dei campi e poco lontano si vedeva la facciata della Villa dei principi Corsini, quella che la bisnonna Cecilia, la mamma della Giuseppina, chiamava la “Villa dei Rinieri”.
La bisnonna non l’ho mai conosciuta, so che era minuta e piccola di statura, ma con un carattere di ferro. All’epoca vivevano tutti insieme in quella casa a “le quattro strade”: la famiglia dei nonni con quattro bambini, tre maschi e una femmina, e i bisnonni Alfredo e Cecilia.
In quelle pagine si parlava di Alfredo. Così forse anche lui era stato preso dai tedeschi? Perché mai nessuno me ne aveva parlato?
La mamma sembrò captare i miei pensieri e disse:
«Sai, ci sono cose della vita che vorresti solo dimenticare. Per questo non se ne parla. Solo che non puoi …»
«Che vorresti dire? Conosci questa storia?»
«Certo che la conosco. Io c’ero, anche se ero solo una bambina. Non avevo nemmeno cinque anni, ma non posso scordare quei colpi alla porta quando arrivavano i tedeschi. Ero piccina e mi facevano paura. La mamma li sentiva pestare con quegli stivaloni e berciare per strada. Correva a chiudere porte e finestre e metteva il paletto al portone. Ma quelli ci avevano visto e bussavano sempre più forte. Mi ricordo il babbo e il nonno che andavano a nascondersi, a volte in fondo al giardino, in terra sotto le foglie, altre volte nel palco morto.»
«Il palco morto? Che cos’è?»
«Era una specie di sottotetto, un solaio nascosto. Una volta le case avevano i soffitti molto alti e usava fare questi vani nascosti che servivano per metterci coperte, borse, vecchi mobili. Il nostro palco morto era in bagno, c’era una botola sul soffitto. Il nonno metteva la scala e lui e il nonno Alfredo si infilavano là dentro di corsa. Poi la mamma buttava la scala di legno sotto il letto. I soldati non smettevano di battere finché lei non apriva. Piero, tuo zio, correva a nascondersi dietro le porte e Franco stava attaccato alle gonne. I tedeschi entravano di corsa, aprivano tutto, la cucina, i cassetti, gli armadi. Guardavano anche sotto i letti. Una volta uno si arrabbiò perché non aveva trovato niente. Gridando, gettò l’unico uovo che avevamo in cucina contro il muro».
«Mamma! Non mi avevi mai raccontato queste cose».
«Te l’ho detto. Forse si cerca di dimenticarle. Mi ricordo quella volta che il babbo e il nonno non fecero in tempo a scappare. Eravamo tutti intorno al tavolo della cucina. Il nonno aveva la catena dell’orologio che spuntava dai pantaloni. Il tedesco fece cenno di tirarlo fuori, ma il nonno Alfredo non si mosse. Allora quell’uomo piantò con forza un coltello in mezzo al tavolo. Si portò via l’orologio del nonno e anche quello del babbo. E, prima di uscire, sghignazzando, gettò il suo orologio in mezzo alla stanza, come per fare uno scambio. Quanto era bello il cipollone del nonno! Mi ricordo che me lo faceva vedere, mentre mi teneva in braccio: sembrava un ricamo. Non l’ho più visto!»
«Vi hanno fatto del male?», esclamai preoccupata.
«No, ma portavano via tutto quello che volevano. Qualcuno era un po’ meno cattivo. Mi ricordo uno alto e biondo. Mi fece una carezza sulla guancia e nonna Cecilia mi allontanò da lui mettendosi in mezzo»
«Che coraggio! Me la immagino, una donna piccina che fronteggia un gigante armato».
Mia madre sorrise e continuò: «Non tutti erano violenti. Avevano fame anche loro, cercavano roba da mangiare. Figuriamoci… non ce n’era abbastanza neanche per noi! La mamma faceva spesso farinate, olio e farina cotti nell’acqua oppure la crema con i piselli secchi. Diceva che riempivano la pancia. A me la farinata di piselli non piaceva, ma lei allargava le braccia e mi porgeva il cucchiaio. C’era solo quello!»
«Il nonno qui parla di tedeschi che l’hanno portato via. Cosa è successo?»
«Era la primavera del ‘44. Lo so perché la mamma me l’ha raccontato. Come ti dicevo, io ero troppo piccola. E tuo zio Carlo ancora più piccolo. Lui non si ricorda niente. Una volta il babbo e il nonno erano in giardino e un gruppo di tedeschi li vide».
«E allora?»
«Allora non poterono scappare. Li presero. Quella volta i tedeschi non entrarono nemmeno in casa. Vidi la nonna Cecilia mettersi le mani sulla faccia e piangere alla finestra. Li avevano portati via insieme ad altri. Avevano catturato tutti gli uomini delle famiglie intorno a noi.»
«Perché li hanno portati via? Qui il nonno parla di una fossa che gli facevano scavare. Fu quella volta?»
«Sì, fu proprio quella volta. Era mattina quando uscirono di casa. Tornarono la sera tardi, era già buio. Mi ricordo che il babbo era tutto sporco di fango e sorreggeva il nonno che non stava in piedi. Mi ricordo le grida della nonna Cecilia mentre gli portava l’acqua».
«Però non mi hai detto che cosa è successo!»
«Dovevano fare una buca enorme, da poterci costruire una casa sottoterra. Gli uomini venivano portati in cima alla linea della resistenza tedesca sui monti e molti di loro erano obbligati a scavare con i fucili puntati addosso. Era successo anche altre volte. Ogni tanto a qualcuno sparavano davvero, tanto per far vedere che facevano sul serio. C’è qualcuno che non è più tornato a casa».
«Poverini, saranno stati terrorizzati. E chissà che fatica!»
Ripresi a leggere. Volevo sapere tutto.
“… il sudore mi fa scivolare la mano sulla pala, non riesco a stringerla. Olimpio… Olimpio non c’è più. Olimpio Bruschi, era a scuola con me al “Viottolone”. Ora è immobile, lo vedo laggiù in fondo, sotto di me. Gli hanno sparato perché non ce la faceva più. Dio, Dio mio, aiutaci!”
Mi fermai, la pagina finiva così. Ero sconvolta. Sapevo della guerra, racconti frammentari, ma leggere quelle parole mi faceva tremare dentro. Mia madre riprese:
«Il babbo pensava che lo avrebbero seppellito in quella fossa. Invece poi li lasciarono andare, scacciandoli con il calcio dei fucili nella schiena per farli allontanare. Come le bestie.»
«Sai, mamma, ho letto che sulla linea gotica della resistenza tedesca avevano interrato alcune torrette dei vecchi carri armati Panther, per sparare a valle. Forse quella buca serviva per questo. Ma la linea gotica si trovava più a nord, verso il Passo del Futa, Firenzuola e il Giogo. Non passava sopra a Monte Morello».
«No! Erano appostati ovunque, mica solo nel Mugello. Più tardi, dopo la primavera del ’44, avanzarono verso Firenze», replicò mia madre.
«Quanti ne sono morti a Castello, fucilati dai soldati?»
«Non lo so di preciso. Fucilavano i partigiani e tutti quelli che si nascondevano. E anche qualcuno a caso come il povero Olimpio. Mentre suo fratello Orlando, che aveva solo ventinove anni, fu ammazzato a Cercina, come i partigiani di Radio Cora. In quell’anno il Partito d’Azione aveva organizzato una radio ricetrasmittente clandestina che si chiamava appunto Radio Cora. Serviva per dare informazioni sulle attività dei tedeschi ai comandi alleati. Attraverso quella radio i partigiani ricevevano aiuti, fino a quando furono scoperti in Piazza d’Azeglio e arrestati. Tutti quelli che facevano parte di quel gruppo, compresa una donna, Anna Maria Agnoletti, furono fucilati vicino al fiume sotto a Cercina.»
«Ma gli americani non sono riusciti a fermare queste stragi?», esclamai.
«L’eccidio di Radio Cora avvenne nel giugno del ’44 e gli alleati arrivarono solo dopo l’estate di quell’anno. I tedeschi avevano minato tutti i ponti di Firenze per rallentare la loro avanzata da sud».
Notai che, mentre la mamma raccontava quelle vicende, con tutti i particolari che ricordava o che le avevano detto, diventava sempre più cupa. Gli occhi le si erano velati e lo sguardo era fisso in un punto lontano, dietro le mie spalle. Fece un sospiro profondo, poi riprese:
«La guerra è brutta, non si ragiona più. Non erano solo i tedeschi ad ammazzare i partigiani, ma anche i partigiani a far fuori tutti quelli di idee diverse dalle loro. Tuo zio ha sempre davanti agli occhi un partigiano che portava via, fucile alla schiena, quell’uomo che abitava in fondo a via della Querciola, non mi ricordo il nome. Quei due erano stati bambini insieme. Ma poi uno era per il duce e l’altro no. E così hanno dimenticato tutto. Anche il valore della vita.»
Tra di noi calò il silenzio. Io non sapevo che cosa dirle. Le sue parole, ma soprattutto la sua espressione, mi facevano venire i brividi, tanto che mi dimenticai dei fogli del nonno, che tenevo ancora in mano. Il suo sguardo comunicava un sentimento di disperata, lucida e profonda tristezza, come di chi non veda la luce né nell’una né nell’altra parte dell’umanità. Mi avevano insegnato, a scuola, a pensare ai partigiani e ai combattenti armati della nostra resistenza, come a degli eroi. Ma lei me ne faceva un quadro diverso, molto più amaro.
«I partigiani non erano così eroi allora!», sbottai per interrompere quella tensione.
«Nessuno è un eroe in guerra!» rispose lei con sicurezza, improvvisamente rianimata. «Anche gli alleati americani, che avrebbero dovuto salvarci, hanno ammazzato la gente con i bombardamenti aerei. Cercavano di colpire i nemici, ma in mezzo a loro c’eravamo noi.
I tedeschi si nascondevano dappertutto, avevano un quartier generale proprio qui nella “torretta di Castello”, la Villa di Collodi».
Aveva ragione. Mi ricordai di aver letto della Villa “Il Bel Riposo”, dove aveva vissuto Collodi e dove aveva scritto proprio la sua opera più grande: Pinocchio.
«Mamma, la casa di Collodi è la villa bianca con la torre a merli, accanto alla salita per La Petraia?»
«Sì, è l’unica che ha una torre così. Aveva intorno un grande giardino, con due pini altissimi che vi facevano ombra. C’era una grande fontana a due piani come quella dei giardini nobili. Pensa che fu lì che Collodi vide per la prima volta la sua fata turchina. Un giorno la domestica portò con sé sua figlia e la mandò a giocare nel prato mentre lei faceva le pulizie. Quella bambina, che aveva ispirato lo scrittore per il personaggio della fata, anni dopo diventò famosa: si chiamava Giovanna Ragionieri. Riceveva le letterine di bambini di tutta Italia e le visite degli alunni delle scuole che facevano la fila per incontrare la fatina. Oggi riposa nel cimitero di Castello. Una storia tenera».
«Quante avventure, mamma! Ti ascolterei per ore. Io conoscevo un’altra versione, per averla letta da qualche parte, sulla fata turchina. Ma la tua è più bella. Sembra che Carlo Lorenzini si sia ispirato ad Anna Kuliscioff, una russa, processata a Firenze nel 1879 come cospiratrice anarchica. Lui faceva il giornalista, la vide in tribunale e fu colpito dagli occhi di quella donna, trasformandola nel personaggio della fata turchina.»
«Davvero? Non so chi sia questa russa. I vecchi del luogo giurano che la fata era la bambina della domestica. Dicevano che fosse bellissima fin da piccola, bionda, con i capelli lunghi e lisci e gli occhi azzurro-cielo».
Mi fermai un momento ad assaporare quella favola, come fossi una bambina. Il mio corpo e le mani si rilassarono per un attimo e i fogli del diario del nonno caddero sui miei piedi, riportandomi alla realtà.
Li raccolsi e dissi a mia madre: «Pensa se Collodi avesse saputo che la sua casa sarebbe stata occupata dai soldati tedeschi! Si sarà rivoltato nella tomba».
«In tempo di guerra, non c’era posto per le favole. Si doveva pensare a sopravvivere. Però qualche volta i sogni sopravvivono a tutto, proprio come quella villa che ne ha viste di tutti i colori, ma che è ancora al suo posto».
«Che vuoi dire mamma? » feci io, intuendo che mia madre ne aveva un’altra da raccontare.
«Gli americani bombardavano i quartier generali tedeschi e tutte le case dove si erano stabiliti. Dopo quell’estate, gli aerei alleati cominciarono a passare sulle nostre teste. Un giorno cercarono di colpire la villa di Collodi, ma sbagliarono mira e la bomba cadde proprio in mezzo all’incrocio delle “quattro strade”. Crollarono le colonne all’ingresso e parte della Villa Bianca, quella subito accanto. E così la culla di Pinocchio si salvò, ma una bambina che giocava in strada morì schiacciata dalle macerie».
«Oh mamma, che periodo difficile deve essere stato quello».
«Già! Noi ragazzi non si capiva perché la mamma non ci volesse far uscire. Volevamo solo giocare. Quando eravamo in strada, lei ci veniva e prendere e ci trascinava tutti e quattro in casa. Aveva paura delle bombe. Anche tuo nonno una volta, in cima alla salita di fronte alla chiesa, mi buttò a terra e mi coprì con la sua borsa, mentre un aereo ci sorvolava. Cercava di proteggermi come poteva».
«Certo che ogni giorno era una battaglia per la vita. Forse allora le persone erano più solidali e si aiutavano non è vero?» le chiesi, conoscendo già la risposta.
«Sì. Tutti cercavano di aiutare chi era più in difficoltà, scambiandosi quel poco cibo o offrendo protezione l’uno nelle case dell’altro. Abbiamo imparato il valore della vita e l’importanza di custodire le memorie in un posto sicuro».
«Anche la nonna ha voluto proteggere con cura quei fogli piegati dentro al messale…», sussurrai piano.
«Sì. Perché un giorno i nostri figli potessero capire e sentirsi parte delle tradizioni e della storia della famiglia» continuò mia madre, rivolgendomi uno sguardo luminoso. «Senza i sacrifici dei nostri genitori oggi non saremmo quello che siamo e né te né io saremmo qui».
Non risposi, mi limitai a sorriderle. Piegai con cura quelle pagine e le rimisi dov’erano. Mi incamminai fuori, per vedere con altri occhi “le quattro strade”.
Il pudore tenace della Memoria. Bello.