Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2021 “Haida” di Cristina Gatti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

Haida era sconvolta. Che cosa era successo, qualcuno l’aveva forse bastonata? Si sentiva così. Si sentiva come se le fosse crollato un muro addosso. Forse si trattava del suo muro?

Con la fantasia aveva creato un imponente palazzo dalle pareti nere e lucide, il simbolo del successo, il suo totem. Ora quelle mura non c’erano più. Cercava negli anfratti più reconditi della sua mente, chiudendo gli occhi. Ma non c’era che il vuoto. La sua sicurezza era crollata insieme alle fantasie di potenza. Improvvisamente.

Le era sempre piaciuto immaginare i vetri a specchio delle finestre che riflettevano i raggi del sole pomeridiano ai piani alti del suo palazzo, modernissimo e sofisticato, una meravigliosa creazione, frutto della sua volontà. Ci aveva messo una vita a pensarlo quel palazzo. Aveva scelto con cura ogni particolare. Era la dimora di una donna di successo, che mostrava nella finezza dei materiali scelti, la sua forza e il suo valore al mondo. Ma esisteva soltanto nella sua mente. Per il momento.

Haida aveva deciso che avrebbe realizzato quel sogno, ne portava l’immagine negli occhi dal momento che  aveva scelto di essere diversa da sua madre.  

“Sono un medico, sono una donna, ma costringerò tutto il mondo a dimenticarlo”.

Era un medico bravissimo Haida, dinamica, energica, preparata, puntigliosa, testarda, competente. Una forza della natura. Non c’era niente che potesse fermarla e gli ostacoli che incontrava, soprattutto da parte dei colleghi maschi, la stimolavano ancora di più a emergere e realizzarsi. Quel palazzo la teneva in piedi. La rendeva orgogliosa di sé stessa. 

Rendeva orgoglioso di lei anche quel brav’uomo di suo padre, Omar. Un algerino, imprenditore, commerciante di stoffe, un uomo considerato benestante e per questo tollerato dalle frange più integraliste islamiche per le sue, diciamo così, aperture al mondo occidentale. Era quindi un illuminato, per quanto potesse esserlo un uomo algerino.  

Il Front de Libèration Nationale , che propugnava la restaurazione dello stato algerino all’interno dei principi dell’Islam e il Governo algerino dell’allora colonia francese sotto il presidente De Gaulle non sospettavano che oltre ad essere un uomo strano era anche un rivoluzionario. Omar era impegnato con il MNA (Mouvement National Algérien), di ispirazione socialista, per l’indipendenza del paese. E per questo rischiava la vita ogni giorno. E con lui sua moglie Alìce e la sua famiglia.

Aveva sposato Alìce due anni prima, una graziosa, minuta e devota fanciulla francese, conosciuta durante i suoi viaggi di lavoro in Provenza. Gli era subito piaciuta: aveva occhi neri e vellutati che lo facevano sentire a casa. Quegli occhi gli erano familiari, ma non aveva mai pensato che forse lo sguardo di sua moglie ricordava quello delle donne arabe. Eppure ne aveva incontrati molti di quei volti, donne che aveva conquistato e qualche volta amato. Donne che sarebbero rimaste sue per sempre, tutte quante. 

Anche il padre di Haida aveva una fervida immaginazione, proprio come lei. Lui però aveva costruito un harem femminile anziché un palazzo. Anche lui possedeva un tesoro immaginario che teneva soltanto per sé: era un uomo che piaceva molto e credeva di poter avere qualsiasi donna lui avesse desiderato. C’era tutta la femminilità del mondo in quel suo harem, volti dorati, morbide ciocche di capelli, pelli vellutate, occhi dei colori più vari,  profumi inebrianti e  i fruscii leggeri degli abiti femminili. Era il suo rifugio di pace pensare a quanto sa essere accogliente una donna.

Quando vide Alìce seduta dietro la scrivania di quell’ufficio impolverato, le sue labbra si inumidirono e sentì in bocca il gusto del pasticcino alla crema che aveva appena consumato al bar di sotto. Era graziosa, dolce, decisamente bella. Aveva movenze delicate. Era una donna francese e le francesi sono famose per la loro grazia, ma qualcosa in lei gli ricordava anche la devozione e la sottomissione tipica delle sue compatriote. Questo miscuglio era affascinante e lo eccitava molto. Dopo meno di un anno fu sua moglie.

Haida era tutta un’altra cosa, lei da sua madre non aveva ereditato niente. Sentiva un fastidio insopportabile al solo pensiero dell’amore stucchevole e affettato che sua madre aveva riservato al marito per tutta la vita. Era piccola, ma ricordava bene come fosse civettuola e ammiccante con suo padre, mentre a lei riservava le attenzioni che si danno agli obblighi più ingrati. Il suo sguardo perdeva luce non appena si posava su di lei. Ma bastava il solo suono della voce di Omar che rientrava a casa per vederla saltellare rianimata e cinguettante.

Lei non era così.  Lei era solida, era intelligente. Aveva avuto successo senza nessun bisogno dell’aiuto e della protezione di un uomo. Lei sarebbe presto riuscita a edificare quello splendido palazzo.

Come mai allora si sentiva così a pezzi? Il suo palazzo era crollato. Non abbattuto dalle bombe dei suoi amici kamikaze, né dai missili lanciati durante le guerriglie nelle quali si era trovata troppo spesso a partecipare. Ma da una fragile donnetta dagli occhi grandi e umidi alla quale aveva salvato il figlio.

“Non lo capisce questa qui, che sto facendo soltanto il mio lavoro? Perché continua a guardarmi così?”

Fathma era una giovane ossuta donna algerina che si era ferita durante un’azione volta a fermare l’emigrazione dal paese. Un manipolo di uomini armati le aveva sparato mentre stava scappando dalla povertà e dalla violenza riservata alle donne che avevano avuto figli fuori dal matrimonio.

Fathma era stata violentata, ma la volevano vittima due volte. L’avevano lasciata in pace fino a che non avesse partorito. Poi tre uomini si erano presentati alla sua porta per strapparle il bambino nato pochi giorni prima. E lei era scappata.

Braccata da una parte dai suoi inseguitori, correva verso il confine incontro a guardie armate e senza scrupoli. Tra due fuochi, si trascinava sgusciando tra la vegetazione col bimbo in braccio quando dall’alto la mano gentile di un angelo si mosse a  compassione e la fece inciampare. La caduta le evitò il proiettile rivolto a lei, finì dentro una buca, forse una trappola per animali, con la caviglia dolorante.  Ma il bimbo non piangeva più. E un rivolo di sangue apparve da dietro il piccolo orecchio sinistro. Si accasciò con la testa sul corpicino immobile e desiderò la morte.

La preghiera di Fathma non fu ascoltata. Era ancora viva quando qualche ora più tardi la ritrovarono i volontari di una organizzazione di assistenza sanitaria ai profughi che operava nei pressi. E era vivo anche il suo bambino. Furono trasportati all’ospedale da campo, dove molti profughi come lei erano stati raccolti e curati.

La prima immagine che vide fu il volto di Haida: «Tuo figlio sta bene ora». Fathma rinacque alla vita in quel preciso momento. Quella donna era una madre, la madre di tutte le madri.

Quando Haida le depose accanto il piccolo addormentato con la testolina fasciata, le parve di averlo partorito di nuovo. E di averlo partorito insieme a quella donna, a quella madre. Ora le madri erano due. Il suo piccolo poteva riposare tranquillo.

«Grazie signora, grazie».  Le uscì soltanto un filo di voce, ma l’emozione che provava invece esplose fuori dal suo petto e riempì tutta la tenda.

«Ora devo andare». No, Fathma non voleva, non poteva permettere che lei si allontanasse. «Come? dove vai? le madri stanno con i loro figli».

«Ci sono altri feriti, devo..devo…. », balbettò Haida. Si sentì travolgere da quella parola: madre. Madre lei? Lei che aveva abbandonato suo figlio dieci anni prima nelle mani di suo marito Luc. Lei che, quando glielo misero in braccio, non aveva sentito altro che un impedimento alla sua carriera. Un fastidio nemmeno troppo pesante, soltanto un paio di chili, nato prematuro. Troppa fretta di toglierselo da dentro. Lo scaricò addosso a Luc. “Prenditelo tu, ora! E’ una tua decisione”. Dopo tutto l’aveva costretta a portare avanti quella gravidanza. Fosse dipeso soltanto da lei, quel fagotto non sarebbe cresciuto più di un seme di grano. Luc lo aveva voluto? Che se lo prendesse allora e lo portasse via da lei. Credeva forse che avrebbe cambiato idea? Nemmeno per sogno. C’era un contratto favoloso che l’aspettava a Princeton e aveva rimandato di ben quattro mesi l’inizio della sua vera vita. Finalmente aveva capito che cosa voleva.

Non era mai stata tenera con suo marito, un medico anche lui, conosciuto ai tempi dell’università a Parigi. Si sposarono più per volontà di lui che per passione, e poi gli affitti erano costosi. Le voleva bene Luc, e anche lei in fondo. E poi la aiutava sempre. Ricordava tutte le volte che Luc era andato a prenderla all’uscita dalle lezioni serali. Anche sotto la pioggia lui era là. Un piccolo familiare ombrello a scacchi bianchi e grigi. Era piacevole sentirsi così coperta dalle attenzioni di quell’uomo.

No, ora quella donnetta ignorante e disperata non aveva potuto distruggere tutta la sua sicurezza. Eppure si sentiva vuota.

Un cumulo di polvere e mattoni nascondeva il suo malessere. Il suo sogno era crollato e tutti gli sforzi per aggrapparsi a esso erano vani. In una manciata di istanti era cambiata, qualcosa si era rotto per sempre. Un dolore profondo, nascosto a malapena, le toglieva tutte le forze. Le gambe deboli, tachicardia, tra gli angoli della bocca e il naso sentiva perline di sudore formarsi e bagnarle le labbra.

«Non posso rimanere, c’è un rene da operare di là»,  se ne andò facendosi forza. Ma la sua forza non c’era più, come tutto il resto.

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