Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2021 “Il bambino mancante” di Antonella Racanelli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

C’è un video che gira da ore, su tutte le testate giornalistiche online. Hai una certa età, ma hai ceduto, anche tu, alla praticità di leggere il giornale sul cellulare, specialmente se la mattinata a lavoro è così fiacca. La sala parto è praticamente vuota, c’è solo una paziente, primigravida, partorirà, nella migliore delle ipotesi, nel prossimo turno, non è affar tuo. E visto che manca un’ora all’arrivo del collega per il cambio, hai il tempo di leggere nella tua stanza e guardare questo video shock, di cui tutti parlano, perfino le ostetriche, che, per una volta, non si lamentano del lavoro, di figli e mariti.
Digiti video Open Arms naufragio novembre Mar Mediterraneo. E’ breve, pensi, tanto rumore per soli 30 secondi di video, seguiti da un lungo articolo relativo al naufragio in cui hanno perso la vita sei migranti, tra cui un bambino di 6 mesi. Di nuovo, pensi. Era un po’ che non se ne parlava. Il piccolo si chiamava Joseph e veniva dalla Guinea. L’organizzazione ha anche postato sul suo profilo Twitter il video della mamma, riportando testuali parole: “Abbiamo deciso di rendere pubblico quello che accade in quel tratto di mare, perché i nostri occhi non siano i soli a vedere e perché si ponga fine a tutto questo, subito”.
Fai partire il video, compaiono pochi caratteri bianchi su sfondo nero, che spiegano come le immagini possano urtare la sensibilità, ma pensi che tu fai il ginecologo da 30 anni e non c’è nulla ormai, che possa più urtare la tua sensibilità.
Primi cinque secondi, il mare è nero e la corrente sembra forte, ti spaventa il solo pensiero di stare tu su quel gommone e subito compare una ragazza, giovanissima, che si agita forsennata, urlando che ha perso il bambino. Che strazio, dici, questa donna ha salvato il figlio dalla povertà, dal deserto e dalla Libia, ma il mare l’ha fregata. Il mare è traditore, diceva sempre tuo padre. La ragazza grida, senza sosta: al ventesimo secondo guarda la telecamera e trova la forza di continuare a urlare che ha perso il bambino, malgrado le onde la sbattano da una parte all’altra. Ti sta venendo il mal di mare. Ora la vedi un po’ meglio, anche se la videocamera è bagnata e sporca di salsedine, lei ha una bocca grande e si vedono i denti, eburnei. Indossa un vestitino rosa…questa è salita sul gommone con un vestitino…Ti penti immediatamente del pensiero che hai fatto, è una ragazza così giovane, ha il diritto di indossare un bel vestito colorato. Sospiri.
Pure quella paziente, l’anno scorso, era arrivata in sala parto con un vestito simile, coloratissimo. Una bella signora, alta e magra, originaria di qualche paese del corno d’Africa. Era giunta in ospedale senza lamentarsi, aspettava il quarto figlio e per esperienza, dal terzo figlio in poi, il parto è una passeggiata. Per lei e pure per te. Le donne africane poi, hanno una concezione diversa del dolore, non vogliono neanche la peridurale. Glielo spiega sempre l’anestesista che non si paga, che è meglio per lei e per il bambino, ma niente, non se la fanno fare. La signora, si chiamava Theresa, aveva con sé solo un sacchetto di tessuto, come quelli che si usano per fare la spesa, con lo stretto necessario per il bambino in arrivo. Parlava benissimo l’italiano, era pulita, ordinata, educata. Era arrivata in silenzio, ma anche lei, come tutte le altre pazienti, ti aveva fatto venire l’ulcera.
La ragazza del video ha dei capelli bizzarri, quei cosi, arrotolati, come si chiamano, i drealocks, però sono corti e dritti, vanno verso l’alto. Ti tocchi la testa, non c’hai più un capello tu. Te li hanno fatti cadere uno per uno, tutte le donne che hai fatto partorire.
Theresa aveva i capelli cortissimi e i denti, anche i suoi, erano di un bianco infantile.
La ragazza urla disperata, ma non è disperazione, è un urlo disumano, viene dal profondo del mare scuro e agitato, che ti fa raggelare solo a guardarlo.
Pure Theresa ti aveva fatto raggelare, perché ad un certo punto non si trovava più. L’ostetrica era venuta a cercarti e con qualche giro di parole, per non farti salire troppo la pressione, ti aveva detto che la paziente era sparita, era irraggiungibile al telefono e anche il marito era irrintracciabile. Non avevi capito all’inizio: dove se ne può andare una signora che sta in travaglio? Guardavi basito l’ostetrica, che era diventata paonazza e aveva già iniziato a comporre il numero delle forze dell’ordine. Era tutta colpa tua, non avresti dovuto cambiare il turno, lo insegnano il primo giorno di specializzazione che il cambio turno porta sfiga e disgrazie e questa signora ti avrebbe fatto passare i guai, a qualche anno dalla pensione. Perché una paziente in osservazione clinica, non si può allontanare senza un permesso, senza un foglio di dimissione volontaria o senza che il medico legale, abbia scritto nero su bianco, che lo può fare. Avevi trascorso metà turno a pensare a tutte le sciagure che potevano capitare, se Theresa non fosse stata riportata in tempo in ospedale. Già lo leggevi il tuo nome, sui giornali online del mattino seguente.
La ragazza si sporge dal gommone, da una parte e poi dall’altra, pensi che a breve ricadrà in mare, ti chiedi se ha un compagno, un marito, qualcuno che la consolerà per la perdita del figlio.
Il marito di Theresa, inaspettatamente, quando ogni speranza sembrava persa, aveva risposto al telefono, ore dopo la prima chiamata, dicendo che lei era a casa e che stava bene. Era andata a casa a piedi? Ma questa era una pazza incosciente? Avevi mandato un’ambulanza a prenderla e l’avevi aspettata sulla porta del reparto di ostetricia, con le parole che si agitavano in bocca. Theresa si era avvicinata in silenzio, lentamente, così come era arrivata, ma si vedeva che era stanca. Le avevi chiesto perché si fosse allontanata e lei aveva risposto con una semplicità e naturalezza disarmanti, che il travaglio non era così doloroso e aveva pensato di tornare a casa, che non era troppo lontana, per controllare gli altri bambini, aveva preparato il pranzo e giocato un po’ insieme a loro. Ma si sentiva bene, non c’era motivo di preoccuparsi. Avevi guardato l’ostetrica, il cui viso era tornato di un colore normale, la quale, a sua volta, aveva guardato Theresa e chiesto se ci fosse qualcuno che potesse occuparsi dei bambini, perché lei doveva rimanere in ospedale per almeno due giorni. Theresa aveva sorriso, con quei bellissimi denti eburnei e sussurrato “Sono piccoli”.
Ti eri sentito ignobile. L’avevi giudicata, nelle ore di assenza, perché pur non essendo più giovanissima era incinta per la quarta volta, perché si era dileguata senza avvisare nessuno e ti aveva messo in un pasticcio, perché tu volevi vivere tranquillo e non ne volevi sapere dei pasticci degli altri. Comunque l’importante era che fossero tornati vivi, sia lei che il bambino e non valeva la pena rimproverarla. Doveva riposare, bisognava raccogliere le forze.
Al venticinquesimo secondo del video, ti stai sentendo leggermente meglio, forse inizi ad abituarti amaramente allo strazio e alle urla della ragazza, quando tutto d’un tratto compare sullo schermo un bambino e non capisci da dove sia uscito. Metti pausa, torni indietro di qualche istante. Fai ripartire il video ed è allora che lo senti, il gemito, quel gemito che fanno i bambini quando stanno male e poi lo rivedi, tirato su come un tonno, da un uomo vestito tutto di nero: potrà avere cinque anni, moscio, non si muove, ma è vivo perchè vomita una roba bianca, una due tre quattro volte. Che schifo. Ma quanta acqua ha, nello stomaco? Lui però non è il figlio della ragazza che continua ad andare da una parte all’altra del gommone, cercando di trovare il suo, di bambino. E intanto urla. Fine del video.
Lo rimetti dall’inizio, l’hai guardato, adesso lo vuoi vedere bene, da vicino, anche se è un pugno nello stomaco. La seconda, la terza, la quarta volta. E’ terribile, ma ha un potere magnetico. Il terrore, ha un’attrazione malvagia. Non riesci a smettere. E ogni volta ti accorgi di un dettaglio nuovo. Dolore al dolore. La madre che urla “I lose my baby, where is my baby.” E’ curioso, pensi, non dice ho perso, dice perdo, io perdo il mio bambino, dov’è il mio bambino, io perdo il mio bambino, forse non si rende conto che il bambino non c’è più, che è da qualche parte sul fondo del mare.
Anche Theresa, che aveva partorito qualche ora dopo essere tornata in ospedale, aveva chiesto dove fosse il bambino, quando un secondo dopo averlo sentito piangere, lo cercava con lo sguardo oltre la pancia ancora gonfia e l’impedimento delle gambe. Ti eri trattenuto oltre il tuo turno, con la sorpresa del collega e delle ostetriche, ma volevi solo sincerarti che andasse tutto bene. E poi, avevi pensato che dopo tutto quello scompiglio, ti spettava la consolazione della nascita del bambino, un’immagine serena da portare a casa.
Ed eccola li, l’altera signora africana, appena partorito il quarto figlio.
La sala parto è così. C’è sempre un gran casino, ma, preceduta da un attimo di silenzio assoluto, tutto ad un tratto arriva la vita e le cose iniziano a cambiare. L’emozione che si prova è una provocazione dirompente e quando la metti al centro, tutto trova il suo senso.
Continui a guardare il bambino, quello che sta nell’angolo del gommone, quello moscio, vorresti salirci tu, in barba al mal di mare e alla paura che l’acqua scura ti fa e scuoterlo, urlargli che deve reagire, vomitare l’acqua nera, sputare tutto quel veleno umano che lo ha fatto finire nel mare. Ma che vai pensando, vecchio e sovrappeso, non sei mica un sentimentale, questi non sono discorsi adatti a te.
Eppure quel bambino, nell’angolo, nella sua immobilità ti fa stare male. Talmente male che lo continui a fissare. Eppure tu figli non ne hai. Che ne puoi capire. E pure l’altro, Joseph, il bambino che non c’è, che viene solo nominato, che sta da qualche parte nel mare, pure lui ti fa stare male. Eppure tu i figli non li hai mai voluti. Ti senti il collo dello stomaco più stretto del solito, come quando la sera, mangi la pizza coi peperoni, che non riesci mai a digerire, perché hai il reflusso e pure questo è colpa delle pazienti e delle agitazioni che ti fanno prendere.
E pure il figlio di Theresa, ti aveva fatto venire un groppo in gola, prima di nascere, per il terrore che ci fosse qualche complicazione e un attimo dopo essere nato, con quel pianto disperato dei bambini al primo respiro, che è il suono più bello del mondo, anche se lo senti tutti i giorni da trent’anni e con la pelle sporca e chiara, perché i bambini quando nascono, veramente sono tutti uguali.
Era un groppo in gola strano, misto alla vergogna: l’avevi un po’ odiata Theresa quella mattina, perché aveva minato alla tranquilla ordinarietà della tua vita. E l’avevi odiata, perché la paura che avevi sentito per lei, era più forte di quella che avevi provato per te stesso. E Theresa, per quanto fiera e forte, ti aveva fatto tenerezza, soprattutto a immaginarla a casa, con le garze e i punti freschi, ad allattare e ad accudire i suoi quattro bambini.
Ti eri sentito piccolo, naif e parecchio borghese.
La guardavi stringere il suo bambino, come guardi la ragazza con le braccia vuote.
Guardavi il figlio di Theresa, così bello e sereno, con gli occhi socchiusi, così come guardi gli occhi sgranati del bambino nell’angolo del gommone e immagini gli occhi, ormai chiusi, del figlio della ragazza che urla e non puoi fare a meno di chiederti chi proteggerà te, dalla bellezza, dal dolore e dall’assurda assenza, di tutti questi sguardi.

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3 commenti »

  1. Un bel flusso di coscienza, buttato giù di getto, efficace e di notevole impatto

  2. Potentissimo finale. Brava!

  3. Grazie, gentilissimi!

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