Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2021 “La paziente delle 10” di Gabriella Cirillo

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

Ero finalmente a casa, stanco ma soddisfatto del mio lavoro. Erano ormai anni che avevo iniziato la professione di psicoanalista. Ricevevo i pazienti in una piccola stanza con entrata indipendente attigua alla mia abitazione. Ho sempre pensato che era meglio separare la mia vita privata dalla professione iniziando proprio dallo studio che avrebbe accolto le persone che chiedevano il mio aiuto. Avevo deciso di renderlo accogliente e ordinato, quel tanto da permettere a chi entrava di poter fantasticare tutto ciò che sarebbe emerso durante la seduta. Quindi niente fronzoli, niente colori forti, niente insomma che facesse emergere in maniera significativa qualcosa della mia persona, dei miei gusti, dei miei hobby, delle mie preferenze affinché anch’io fossi un muro bianco su cui proiettare il proprio immaginario. Due comode e ampie poltrone vintage color cuoio, una piccola e discreta scrivania in legno dei primi del ‘900 con le pareti pieni di soli libri sulla psicologia e filosofia, un piccolo mondo che aveva ascoltato milioni di parole, visto milioni di lacrime e accolto tanti momenti di felicità.

La mia casa era completamente diversa. Piena di ninnoli e oggetti acquistati nei numerosi viaggi all’estero che mia moglie ed io avevamo fatto durante i nostri diciotto anni di matrimonio. Non ci interessava l’ordine anzi, a dire il vero, ci metteva tristezza. Ci piacevano le stanze con le pareti dipinte con i colori dell’arcobaleno: arancione, verde, giallo e poi lungo il corridoio delle foto in bianco e nero di bellissimi giovani Masai mentre danzavano seminudi. Avevano assegnato un importante premio a mia moglie per quelle foto che erano state pubblicate anche sulla rivista di viaggi di cui si occupava.

Quel martedì mattina Anna, mia moglie, mi aveva preparato la colazione e mi aveva lasciato ben in vista, attaccato sul frigorifero, un post-it con scritto in rosso con il punto esclamativo ” preservativi!” Era il suo modo di ricordarmi di acquistarli perché l’ultima volta l’avevamo rischiata grossa.

 Erano le 9 e avrei ricevuto il primo paziente alle 10, una donna che aveva mostrato, nell’ultima seduta, forti manifestazioni ansiose in una personalità ossessionata dall’ordine e dalla pulizia con un transfert dichiarato nei miei confronti. Avevo il tempo quindi di prendere con calma un caldo e profumato caffè per andare poi nel mio studio. Lo prendevo sempre rigorosamente in pigiama, sfogliando qualche rivista di gossip a sfondo scandalistico per aiutarmi a liberarmi il cervello dai pensieri e affrontare la giornata di lavoro.

 Quel giorno la copertina si occupava delle mancate erezioni di famosi artisti trans e sul loro mimetismo di identità con un titolone: “Forse anche tu sei così e non te lo dici?”

 Mentre sorseggiavo il mio caffè pensando a quanto fossero cretine quel tipo di domande, mi cadde sui pantaloni del pigiama, proprio all’altezza dell’inguine un po’ di panna di cui era infarcito il cornetto che stavo addentando. Provai a toglierla con una pezzetta bagnata creando una macchia più larga di quella che già c’era. Stavo ormai pensando a mettere tutto in lavatrice quando d’improvviso vedo comparire sulla soglia della porta della cucina la paziente delle 10.

Presa dall’ansia di vedermi, aveva sbagliato orario e la porta a cui bussare.

Il giovane cuoco di colore che avevamo assunto da qualche settimana aveva aperto la porta e vedendo una persona che pronunciò il mio nome, le disse “Vuoi vedere mio amico vero?” e, senza aspettare alcuna risposta, prendendola per mano pensò bene di condurla fino in cucina passando per il corridoio sul quale si aprivano le varie stanze della casa.

Fu un attimo: il mio pensiero corse a quelle innocenti foto che sicuramente aveva visto appese ben in vista lungo il corridoio che tutto ad un tratto diventarono inquietanti indizi che portavano a me, con i pantaloni equivocamente bagnati con dietro una scritta ” preservativi” come fosse un monito e in mano una rivista lontana mille miglia dai titoli impegnati che era abituata a leggere nello studio.

Durante quegli infiniti momenti vedevo i suoi occhi attirati da tutto quello che stava costruendo, come in un puzzle, l’immagine di un pervertito di cui si era innamorata, l’ennesimo uomo sbagliato della sua vita, il suo analista.

“Qualunque cosa stia pensando è sbagliata!”

“La trovo particolarmente incoraggiante stamani, dottore!”

Feci appena in tempo a spostarmi di lato che la paziente si avventò come una indemoniata sulle posate e bicchieri, lasciati a casaccio sul gocciolatoio del lavabo dietro di me.

“Ma lei sta lavando le mie posate!”

“La sua osservazione è esatta ma speravo da parte sua in un’analisi più profonda. Non mi aveva detto che avevo un disturbo ossessivo compulsivo?” replicò secca senza badare a me.

Capii che avevo perso ai suoi occhi tutto il fascino che mi aveva attribuito in quei 6 mesi di sedute di analisi, forse più perché mi scopriva insopportabilmente disordinato che gay. O forse tutte e due le cose.

Con un guizzo felino cominciò a strofinare prima la forchetta poi i coltelli e per ultimo i bicchieri, controllando minuziosamente controluce se il vetro di ciascuno avesse qualche impronta o impurità. Senza dire una sola parola, allineò secondo uno schema stabilito quello che aveva intercettato in disordine e quando tutto le sembrò simmetrico disse a se stessa ad alta voce, scaramanticamente per tre volte ” ora sono a posto! ora sono a posto! ora sono a posto!”

Ero affascinato da quella macchina da guerra in azione.

Anche il mio cuoco, Pecari Awá chiamato da noi più semplicemente Filippo, rimase ipnotizzato nel vedere tanta meticolosa perfezione.

Mentre tutti i rumori si erano fermati ed era calato per un infinito momento un silenzio irreale, fummo attratti dalla voce melodiosa di Anna che stava entrando dentro casa canticchiando, come d’abitudine, una vecchia canzone degli anni 60. A seconda di quale canzone veniva cantata, avvertivamo l’un l’altro di che umore eravamo: un gioco che ci divertiva fare.

Anna era particolarmente contenta, cosa non rara, e aspettava ansiosa la mia canzone di risposta che non arrivò. Incuriosita interruppe la melodia e cercandomi per le varie stanze mi chiamava” Amore, cucciolone, ma dove sei?”

 Poche parole e la mia privacy era definitivamente andata in pezzi sempre se ne fosse rimasto ancora qualcosa.

 La vidi arrivare sulla soglia della cucina nello stesso istante in cui la paziente delle 10 si girò. Stavo già pensando al peggio quando vidi stamparsi sul viso di mia moglie un sorriso splendente più che mai:

” Milena, ma sei tu? Si, sei proprio tu! Fatti abbracciare! Che sorpresa! Oddio che emozione, dopo tutti questi anni! Che meravigliosa invenzione è Facebook: ti abbiamo cercato per mesi io e tutti i nostri compagni della terza D e, finalmente, ti abbiamo trovata!” disse tutto di un fiato, aprendo le braccia e saltando di gioia come una bambina.

Dopo una frazione di secondo anche sul viso della macchina da guerra si andava creando un che di umano che esplose in un’espressione di raggiante felicità.

“Anna, Dio che piacere rivederti!”

“Ma dimmi, è stato facile trovarmi? Ti ho inviato anche una piantina della città con il punto esatto della via: mi ricordo che sei sempre stata precisa!” continuò Anna come un fiume in piena mentre Filippo, come un pugile suonato, continuava a dire ” Hakuna matata” e io assistevo incredulo a questo quadro di surreale complicità.

“A pranzo stai con noi. No, non tentare di dire di no. A proposito, ti presento mio marito.” “Milena questo è Sandro; Sandro questa è Milena, la mia cara compagna di banco e amica del cuore” disse girandosi per la prima volta verso di me.

“Ci siamo già presentati” rispose la macchina da guerra, sollevandomi da una stretta di mano imbarazzante.

“Ma amore, hai ricevuto Milena in cucina e ancora in pigiama? “

Senza aspettare alcuna risposta si avviarono entrambe abbracciate verso il salotto, già ricordandosi dei bei tempi della terza D.

In automatico presi la cornetta del cordless e composi il numero del mio supervisore: mi aspettavano anni di terapia.

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1 commento »

  1. Trovo questo racconto ironico e profondo. La figura del terapeuta che tenta disperatamente di difendere l’immagine che la paziente (forse) si è creata di lui e il finale a sorpresa in cui la paziente e la moglie del terapeuta lo ignorano è di grande impatto. Ottimo il ritmo narrativo e la costruzione delle scene.

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