Premio Racconti nella Rete 2021 “Piccoli sprazzi” di Marco Baroncelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021Il tempo oggettivo non ha più significato.
Sin dall’inizio di questa esperienza, i battiti dell’orologio non hanno più avuto importanza, ma l’istinto ti spinge a non mollare, a sperare che la luce ritorni a illuminare la tua solitudine. Buona parte di me non c’è più. All’inizio ho provato a contare il passare dei giorni, ma non avevo nemmeno un gessetto ed un muro dove appuntarlo, potevo solo appiccicare post-it mentali a quella parete scivolosa che si chiama memoria. Più o meno al ventesimo giorno i foglietti hanno cominciato a staccarsi, mescolandosi e perdendosi. In questo niente introspettivo tutto è uguale, pure i pensieri verbali a poco a poco sfumano, nell’oscurità impalpabile del mio mondo.
Ci sono persone che, perdendo l’amore, svolgono i più disparati rituali: alcuni STRINGONO i pugni mentre si disperano sdraiati nel letto, ASCOLTANDO musica consona al proprio animo, per riempire di senso il loro dolore; altri BEVONO, si bagnano le labbra e DEGLUTISCONO alcol, BARCOLLANO per poi GETTARSI su una sedia o un divano; altri ancora CAMMINANO irrequieti avanti e indietro, APRONO la finestra e CONTEMPLANO tristi il silenzio della notte; i più forti, ma anche i più deboli, prendono in mano il loro destino, progettandosi la fine: rivendicano il loro diritto ad AGIRE e dire BASTA alla vita.
Invidio questi fortunati, hanno occhi, bocca, naso e orecchie, scelgono di muoversi o di stare fermi, determinano la loro essenza, anche quando si lasciano morire. Le loro perdite sono banali contraccolpi dell’essere vivi. Anche io sono vivo, se così si può dire, ma, per me, la lotta per la sopravvivenza è finita, posso solo aspettare la conclusione di questa incalcolabile attesa.
Non chiedo di avere niente indietro, è stato un mio errore: non si sorpassa in curva. Me ne sono reso conto in pochi secondi, quando, dopo i fari di un’auto, ho visto il motore sgorgare dalla plastica del cofano, trapassare l’airbag ed affondare nella carne del mio compagno di viaggio, bagnandomi con uno schizzo dal sapore metallico. Poi una forte pressione all’interno del cranio. Infine niente.
Eccomi qua, non sento, non vedo, non mi muovo. Non vedere non significa vedere nero: semplicemente non vedo, né bianco, né nero, né altro. Come per le altre funzioni che ho elencato, è qualcosa di più profondo di non poterle usare, semplicemente non esistono più. Sono un corpo inerte che letteralmente non possiede queste capacità, descriverlo è impossibile, come una persona normale non può descrivere cosa si sente a non percepire i campi magnetici.
L’unico senso rimasto è il tatto, unitamente alla coscienza, anche se quest’ultima si sta avvizzendo, atrofizzandosi nello scaricare gli impulsi neurali in questo universo fatto solo di contatto passivo col resto del mondo.
Ormai non esiste più il giorno e la notte, i miei tempi sono scanditi solamente dalle mie routines. Non accade molto di interessante, ma a Te, che sei probabilmente un’allucinazione mentale del mio desiderio di compagnia, voglio raccontare una giornata particolarmente speciale, molto più ricca del solito, piena di momenti di gioia, piccoli sprazzi di sensazione che squarciano la mia monotona e noiosa vacuità. Non so se le mie routines corrispondano a ore, giorni o settimane, questi concetti non hanno più valore. Mi scuserai l’uso improprio del termine, ma vorrei descriverti la mia “giornata” speciale. Ti prego, ascolta le parole mentali che ho inciso nel diario del mio conscio.
INIZIO DELLA GIORNATA, LAVAGGIO
Mi sveglio, come ogni routine, con mani che mi toccano, mi spogliano e cominciano a strusciarmi addosso una superficie semiruvida ed umida, è la mia ginnastica mattutina: partendo dalla fronte mi sfregano il viso e le guance; conclusa la pulizia del capo, scendono al petto, alle braccia e alla pancia, poi mi sollevano lateralmente, mi puliscono la schiena e le gambe. Infine procedono all’igiene intima.
Lo strusciare delle spugne sulla mia pelle mi rammenta i confini del mio essere, mi permette di assaggiare il limite tra ciò che è il mio corpo e ciò che ne è fuori. Le mani che mi spostano su un fianco mi ricordano cosa sia una pressione sulla carne, differente da quella della mia schiena immobile sul materasso del letto.
Ci sono Mani diverse che mi toccano. Mani Pesanti sono le peggiori: sono poco accurate e, nonostante la piccola dimensione, mi strofinano addosso le spugne con una pressione eccessiva, irritandomi la cute, mentre, quando mi sollevano, sento il loro sforzo nello svolgere il compito, ma mi accorgo pure dell’odio che esse trasmettono, attraverso movimenti bruschi e indelicati.
Invece, senza ombra di dubbio, Mani D’Angelo sono le migliori: sono gigantesche, ma allo stesso tempo leggere. Mi accarezzano, strofinandomi addosso, non dimenticano di pulire accuratamente ogni piccolo pezzo di me, aiutandomi nel mio tentativo di ricordare attraverso il tatto di avere un corpo. Da sole riescono a sollevarmi e, con la loro forza, mi spostano dolcemente, con morbidi movimenti.
Esistono altre Mani, più o meno gentili, ma tutte hanno una cosa in comune. Il loro tocco sa di lattice, è liscio, tuttavia crea contemporaneamente resistenza muovendosi sulla pelle. E’ un tocco sintetico e freddo, niente a che vedere con il raro contatto con un’epidermide calda.
La mia routine solitamente termina qui, fino allo svolgimento di un altro lavaggio.
IMPREVISTO N° 1
Un fischio mi sveglia, poi silenzio. Oscillazioni sonore mi invadono, un brivido attraversa la mia mente persa nel vuoto. Sono voci. Stanno conversando, mi parlano, sento l’ondulazione emotiva del loro tono, ma non afferro i vocaboli. Non riesco ad afferrare i fonemi, la conversazione rimane un flusso di suoni, di timbri vocali che si alternano, a volte accavallandosi.
Un puntino luminoso. Si allarga, diventa una sfera di bianco troppo intenso, troppo vivo. Decade in macchie, poi forme geometriche. C’è una casa circondata da alberi, una figura ovale rossa. Mi ci concentro, è un auto? Dietro questa c’è una distesa di acqua ondosa e viola. Le immagini si allargano, da un fuoco di circa novanta gradi si ampliano a un’ampiezza di centottanta.
Le persone continuano a conversare, dove sono? Perché tutto oscilla e non rimane stabile?
Le immagini si espandono ancora, vedo a trecentosessanta gradi. Poi solo macchie di colore. Mi focalizzo sulle voci e ne scopro il segreto: sono solamente un’infinità di fischi sovrapposti. Le immagini sono miraggi in macchie di luce insensate.
Che sia l’equivalente sensoriale di un arto fantasma?
IMPREVISTO N° 2
Sono nel mio solito stato di veglia inerte, uno di quegli istanti infiniti di noia che si alternano al sonno, quando sento collassarmi il diaframma. Sento che l’ossigeno cala e il petto, nell’unico movimento involontario che mi era concesso, rallenta il suo gonfiarsi e sgonfiarsi. Il mio cervello mi dice di tossire, il mio corpo non risponde.
Inizia quella che sembra un’eterna asfissia.
Succede qualcosa, sento delle vibrazioni, che arrivano da sotto il materasso fino al mio corpo disteso. Forse stanno spostando il mio letto.
Le vibrazioni finiscono, mani di lattice mi allargano le labbra e infilano qualcosa di lungo. Mi struscia sulla lingua, mi attraversa la gola e si allunga fino all’interno del petto. Il dolore è straziante, l’oggetto mi scivola dentro, ma è abbastanza grande e solido da irritarmi. Il cervello più profondo esplode in sinapsi, mi urla: “Muoviti, dimenati, vomita, urla, strappa quel corpo estraneo, quel serpente che ti sta facendo un nido in gola!”. Inutile, nessuna risposta, le sue urla non vanno più lontane della voce in una cornetta del telefono col cavo staccato. Il mio corpo è arreso all’invasione.
Il petto si gonfia di nuovo, ma non da solo. Il diaframma riposa, è il serpente che mi ha violato che mi dona nuova pressione polmonare.
Tutto è uguale a prima, eccetto un insopportabile fastidio doloroso che occupa il mio vuoto. Eppure questo mio nuovo compagno mi consola: è percezione, è qualcosa di vivo!
Chissà se, superata la novità, mi abituerò o finirò per odiarlo.
IMPREVISTO N° 3
Mi sveglio. La gola mi brucia per il tubo, ma qualcosa di più importante sta accadendo.
Una mano sfiora il mio braccio destro, lo accarezza. Sento la lieve pressione di polpastrelli, che dal gomito alla mano salgono e scendono. Salgono e scendono, poi di nuovo. Poi di nuovo. E’ il contatto umano più intenso che possa ricordare.
Improvvisamente la mano non sale più, si ferma, se ne aggiunge una seconda ed insieme avvolgono la mia. Tremano un poco.
Piccole gocce cadono sul mio avambraccio, ma la gravità le reclama verso il basso, formando piccoli rivoli caldi sulla mia pelle.
Qualcosa di più caldo, ancora più morbido. Sono labbra. Mi regalano lenti baci sul mio palmo, cinto dalle sue mani. Calde, soffici, leggermente umide e in qualche modo pure tristi. Troppo intenso in confronto al mio solito nulla.
Il catetere tira un po’, fa un po’ male. Lo sento che cresce.
Non sono io a controllarlo, mi spiace, non volevo rovinare un contatto puro. Spero non fosse mia madre.
Le mani mi stringono ancora per un tempo che non saprei quantificare. Poi si sfilano dalla mia. Dopo una carezza sulla fronte, torno alla mia familiare solitudine.
FINE ROUTINE
Amico mio, questi sono tra i miei più intensi istanti di vita. Spero che Tu esista e mi ascolti, perché questa condivisione mi salva dal mio oblio, da questo limbo inerme che surclassa la disperazione.