Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2021 “Viaggiare” di Francesco Sindaco

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

Quando avevo undici anni mi sono ammalata. Tanto che stavo per andare aldilà, all’altro mondo insomma. Tanto che papà mi ha messa su un aereo e mi ha portata in un ospedale lontano, a nord, dove c’era una cura sperimentale che forse mi poteva salvare. Non avevamo soldi e mamma non è potuta venire. Non ricordo molto della malattia, ma quel viaggio sì che lo ricordo. Il mio sogno era sempre stato viaggiare. Non camminavo più, ma per la prima volta ho volato. Ricordo il sole che strisciava sul materasso di nubi, prima che le attraversassimo per atterrare, e poi ricordo l’acqua grigia del mare, e le strisce bianche delle onde sotto di me. Una costa scura e gelata fu la prima terra straniera che ho visto.

L’ambulanza ci aspettava giù dall’aereo, e mentre mi portavano fuori io mi sentivo molto Emma Watson e facevo ok vittoria e pollice-su a tutti i passeggeri. Attraversavamo campagne coperte di neve, tutte uguali, Papà mi teneva la mano e guardava fuori. All’ospedale avevo una stanza tutta per me, con le pareti arancione e una finestra che dava su un giardino. Un dottore aveva baffi rossi a manubrio all’ingiù che sembrava un tricheco, ma era gentile. Io volevo caramelle al miele e biscotti di pan di zenzero, cose svedesi, ma non mangiavo più con la bocca. C’era però un’infermiera che era bionda e bella come Miley Cyrus, e quando la guardavo mi sentivo leggera e bella anch’io. Mi hanno attaccato fili dappertutto, e papà stava sempre seduto vicino a me. Parlava tanto in inglese con i dottori e ogni tanto si voltava e mi sorrideva.

«Mi hanno detto che tutto andrà bene»

«OK» facevo io. Non riuscivo a dire di più.

«Ti daranno una medicina che fa dormire un botto, quindi preparati»

«OK».

Allora mi ha stretto la mano e mi ha accarezzato e guardato con degli occhi che ricordo benissimo, erano giganti, come se un fuoco nero lo stesse bruciando dentro. Ho capito che aveva davvero paura che morissi, allora ho tirato fuori la lingua per dirgli col cavolo. Glielo avevo promesso che sarei guarita, e non doveva aver paura. E infatti ce l’ho fatta.

«Prima si andrà lenti, poi sarà come, diciamo, prendere velocità in una discesa»

«Cosa vuol dire?»

«Sceglieremo la fase REM adatta, diciamo, la renderemo stabile, infine cominceremo ad accelerarla»

«Quanti giorni, dottore? Intendo, ogni giorno?»

«Cominceremo con trecento quattrocento, poi dipende dal decorso della malattia»

«Se le cose andassero male, qual è il massimo?»

«In una situazione senza ritorno diciamo, in cui non proteggiamo più i neuroni ma li facciamo correre, si può arrivare a milleottocento, forse duemila»

«Duemila giorni in un giorno? Sei anni in un giorno dottore?»

«Un passo per volta, vedrà che tutto andrà bene»

«Cosa vuol dire bene, dottore? Che vuol dire?»

Ho dormito per giorni e settimane mi ha detto papà, e anche che mi hanno dato una sostanza nuova, la prima al mondo. E alla fine mi sono svegliata e già mi sentivo diversa. Il sole era caldo ed ero piena di energia e di felicità. Fuori dai finestroni gli alberi erano pieni di uccelli. Mamma era lì, alla fine era riuscita a venire e non voleva crederci che ero guarita, l’ho abbracciata e le ho detto ve l’ho promesso, ed ecco qui.

Esci da una malattia così e il grande mondo minaccioso diventa un parco giochi per bambini. Ho messo cose stupide in uno zainetto, dato un bacio a mamma e papà, gli ho detto potete tornare a casa al sud, e per favore rimettetevi insieme, io invece parto per farmi un viaggio a vedere tutto quanto. Papà ha strabuzzato gli occhi ma io l’ho guardato come Angelina Jolie e schioccato le dita, nessuno mi toccherà. E poi vi scrivo, ciao. Fuori ho preso un autobus e poi un altro e un altro ancora. Alla fine mi sono trovata in mezzo alla grande pianura coperta dalla foresta e dai mille laghi. Mi ricordo, pioveva forte e un fumo di nebbia saliva da tutto quel verde. Eravamo sotto la pensilina per non bagnarci, io parlavo lenta e chiara e tutti capivano. Erano già un po’ asiatici, così ho spiegato al conducente del bus che avrei raggiunto il mare della Cina, aldilà della pianura gigante, e poi lo avrei attraversato. Lui dice che gli piaceva l’idea, e che avrebbe fatto un pezzo con me. Si chiamava Rufus, che non è un nome asiatico, ma così è. Così è cominciato il mio viaggio nelle terre vuote e sconfinate, sul grosso autobus azzurro che avevamo chiamato ApeRegina perché l’avevamo dipinto a strisce gialle, e pian piano si era riempito di persone di tutto il mondo. Tutti con storie delle loro terre e canzoni per la sera. Io indicavo la direzione, a est dicevo, al mare Pacifico. Quello è stato l’inizio della mia vita da vagabonda.

«Ma come fate a essere sicuri che stia bene?»

«Mr.Appiani, il cervello produce sostanze diverse con diverse emozioni. Noi le misuriamo di continuo» indicò uno dei monitor «Sappiamo con precisione se il sogno sia diciamo felice, eccitante o noioso. E così per le emozioni negative, ansia, paura, rabbia, e possiamo intervenire»

«Cioè vuol dire che…»

«Vuol dire che se il sogno devia verso l’incubo, noi bilanciamo le sostanze che abbassano i sentimenti negativi, rimettiamo il sogno diciamo, sui giusti binari. Ma poi sua figlia dovrà metterci del suo»

«E come può farlo, mentre dorme?»

«La sua indole, il carattere. I test indicano che potrebbe farcela»

«Altrimenti?»

«Se i valori non rientrano dovremo rallentare il sogno, e se non rientrano ancora beh…»

«Beh?»

«Allora dovremo svegliarla. Diciamo. Ma faremo di tutto perché non accada»

Ho avuto una vita lunga e bella. Come dire di no? Quando mi fermavo mi assaliva la nebbia cattiva, la testa si svuotava e il mondo attorno cominciava a cadere in pezzi, le persone a cancellarsi la faccia. Ma io ripartivo, lasciavo gli amici, lasciavo gli amanti e il sangue ricominciava a correre. Sono fatta così. Devo viaggiare per vivere. Ma è sempre stato il mio sogno, quindi che fortuna.

E prova a vedere il mondo come l’ho visto io, non c’è fine alla meraviglia. Ho visto l’aurora boreale seduta al fuoco con i Sami, e arrampicata in cima al vulcano Mauna Loa ho visto atolli azzurri nel mare scuro tutto intorno a me fino all’orizzonte. Ho cavalcato la balena elefante lanciandole manciate di gamberetti, sono scivolata a cento all’ora nelle grotte di ghiaccio dell’Himalaya fra cascate di pipistrelli bianchi. Ho volato su un aquilone in uno stormo di fenicotteri sopra il lago Vittoria, tutto viola per il tramonto. Mi sono persa per anni nelle steppe dell’Asia, lungo fiumi africani, nelle foreste canadesi, fra persone strane e colorate come uccelli rari, senza mai avere un briciolo di paura.

Mandavo foto a papà, e lui mi mandava faccine. Non si è rimesso con mamma, il mondo va così. Tutti viaggiamo sulla nostra strada.

«Sig.Appiani, lei é cosciente dell’enorme gravità dei reati a suo carico?»

«Mi rendo conto»

«Rapimento di minore, omicidio volontario, e non si appella a nessuna circostanza attenuante»

«Non ho molto da dire»

«Non ha rimorso di aver sottratto a sua figlia gli ultimi momenti con la madre?»

«Dentro di sé Arianna ha vissuto con noi, è stata felice, almeno è quello che credo»

«Perché continua a richiedere un colloquio con la sua ex moglie? Non si rende conto delle implicazioni?»

«Non mi importa, lei deve sapere una cosa che è successa, è importante»

Come finisco questo racconto? Settimane fa ho fatto un sogno, così reale che anche oggi a pensarci ho la pelle d’oca. Ho aperto gli occhi e rieccomi in quella stanza di ospedale. Ero ancora ragazzina, con tutti quei fili attaccati alle braccia e le mani così pallide e magre -mamma mia!- che sembravo una morta, una piccola morta. Un ronzio da un macchinario, la luce bassa, le tende alla finestra tirate e davanti a me solo ombre. Poi ho girato un po’ la testa, e c’era lì papà accanto a me. Era ancora giovane, con la barba tutta nera e gli occhi e la bocca spalancati, come se vedesse un fantasma.

«Papi» gli ho detto, con la mia vocetta da ragazzina «Papi, che c’è?»

«Arianna, piccola» mi ha solo detto, poi ha chinato la testa si è coperto gli occhi, come per nascondersi, o per non vedermi.

«Papi, siamo in Svezia?» sussurravo, la voce era un filo «Sono ancora malata?»

«No cara, cioè sì, ma stai guarendo» anche la sua voce faticava.

«Strano essere tornata qui» provavo a girare la testa, ma pesava una tonnellata «Ora sto bene Papi. L’ho fatto davvero il giro del mondo lo sai?»

«Davvero? Brava la mia bimba»

Le spalle gli sobbalzavano, come se tremasse. Io ero sospesa, sapevo che era un sogno ma un po’ sembrava realtà.

«Vi ho scritto tutto, a te e mamma».

Ho sentito un fruscio a destra. Con l’angolo degli occhi ho visto un signore in piedi con la stessa faccia terrorizzata di papà. Ha preso una specie di telecomando, e ha parlato in inglese. Papà si è alzato agitando le mani, gridando. Io non capivo niente, ma poi la testa mi si è fatta pesante, gli occhi si sono chiusi e mi sono risvegliata.

All’inizio la mia tenda mi è sembrata così strana che ci ho messo un po’ a capire dove fossi, poi il vento ha fatto vibrare il telo sopra la mia testa, il sole si è infilato tra le fessure, e ho riconosciuto i miei tappeti, i cuscini e il vaso dell’acqua appeso al bastone di volta che dondolava alla brezza. Ho alzato la stoffa pesante e sono sgusciata fuori nel gelo del mattino del Sahara. L’aria era limpida e tagliava come vetro. Tutt’intorno a me la carovana degli amici Tuareg ancora nel silenzio. Mentre respiravo a fondo ho scoperto di stare piangendo, scema che sono. È che rivedere papà ancora vivo mi ha fatto tanta impressione. Ho capito che quella notte in ospedale è stato il momento in cui ho cominciato davvero a guarire, e per questo la mia memoria me lo ha ridonato.

Qui mi sono fermata. Sono vecchia, e la nebbia cattiva non mi attacca più, non in un posto vuoto come il deserto e con persone senza faccia come i Tuareg. Qui non c’è nulla da cancellare, e posso sentire il vento e ricordare. Presto rivedrò mamma e papà, e potrò raccontare il mio viaggio. Lui me lo ha sempre detto, i sogni possono davvero diventare realtà, basta volerlo davvero e non disperarsi mai.

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3 commenti »

  1. Ho gli occhi lucidi.
    Questo dovrebbe riassumere bene quanto mi sia piaciuto questo racconto.

    Nella parte iniziale ho pensato “carino, ma ‘Lupi’ aveva tutta un’altra intensità”, poi ho capito dove stavamo andando a parare e il livello raggiunto dalla seconda parte del racconto è davvero, davvero alto.

    Un altro pezzo davvero notevole. Complimenti.

  2. Molto bello il registro che hai usato, il viaggio come enorme metafora, la malattia la guarigione e il sogno, tutto mischiato con ottima maestria, complimenti!

  3. Grazie mille Davide!!!
    Non ero affatto certo di aver trovato un equilibrio decente fra allegria e dramma, ma il tuo commento mi fa ben sperare 😉

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