Premio Racconti nella Rete 2021 “Telline” di Diletta Cirilli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021Era d’estate ed ero ancora felice, nonostante mia zia si impegnasse già parecchio nel piantare in me il germe della germofobia e di una serie di altre turbe.
Io e mia cugina aspettavamo il mare, e prima di raggiungerlo, quel mare profumato di tamerici, alghe, petrolio e pizza bianca con la mortadella, dovevamo farci un’ora di strada con due mamme sorelle il cui sangue conteneva la stessa follia di amare l’orribile afa che sprigiona una macchina tenuta in faccia al sole ad agosto per ore. Perciò finestrini chiusi perché «che bel calduccio».
Due soste lungo il percorso: in edicola per la settimana enigmistica, all’alimentari per farci farcire il panino. Se la vita fosse un viaggio verso il mare con queste due sole soste essenziali, io sarei ancora felice.
Mi incantavo a guardare il cambio, le chiacchiere di mamma e zia sottoforma di gesti e le nostre cosce, sedute dietro, che si appiccicavano l’una con l’altra.
Il parcheggio, le ciabatte che attraversano l’asfalto, le troppe borse, un coccodrillo a dimensioni reali in spalla che non valeva mai lo sforzo di averlo gonfiato e finalmente eccolo: il mare che oggi è una tavola, come praticamente sempre. Allora io e mia cugina ci lanciavamo nella Grande Corsa tra le dune verso l’acqua, entusiaste e libere, senza un cazzo di pensiero fino a quando mia zia «Attente alle siringhe che vi prendete l’accaivvuuuuuuuu», capito come. Ricordo che erano i tempi dei primi computer, pomeriggi interi con Prato Fiorito, un giochetto matematico dove andavo fondamentalmente a culo. Quello con le bombe e lo smile che si infilava gli occhiali da sole se riuscivi ad evitarle, per intenderci. Ecco cos’è diventata per me la spiaggia, un campo minato di virulenti aghi nascosti e da allora non ho più smesso di vederla così.
Ad ogni modo.
La giornata al mare era speciale. Riduceva la realtà a due sole dimensioni, tre sfumature di colore e un orizzonte. I bisogni diventavano lineari, le soddisfazioni semplici, la fine delle cose naturale: uscivi dall’acqua quando le dita erano raggrinzite, smettevi di mangiare quando arrivavano le vespe, un nuovo bagno scadute le due ore dal rischio congestione. Non so dire se fossi più contenta di vedere me e mia cugina divertirci o mia madre e mia zia vederci divertire, ci tenevo che lo sapessero perché mi facevano tenerezza. Certo c’era anche una costante apprensione, mia zia non riusciva a non coniugare tutto il verbo annegare, ad esempio, ma non riusciva nemmeno a rovinare l’atmosfera.
Andare via dal mare all’imbrunire e tornare ognuno a casa propria, per un semplice processo metaforico capite bene che equivaleva a morire. I nostri padri ci avrebbero raggiunto nel pomeriggio e io e mia cugina sapevamo che, se avessimo pescato tante telline, quella giornata speciale non sarebbe finita, non prima di una bella mangiata tutti insieme. Era questa la loro promessa e col senno di poi scommetto che lo dicevano perché scommettevano che non ci riuscissimo. Dall’altra parte però trovavano due disperate procrastinatrici, innamorate dei loro papà, mosse dalla pura angoscia di morire, esaltate all’idea primitiva di approvvigionarsi il cibo e consapevoli che, se avessero davvero riempito un secchiello di telline, avrebbero ottenuto una cena tutti insieme condita dal mantenimento di una promessa, altro che telline.
E così la sera, che minacciava luci d’appartamento, aria condizionata e depressione infantile, si sarebbe illuminata di chiacchiere tra adulti e tintinnio di piatti sulla tavola apparecchiata fuori in terrazza, avrebbe odorato di soffritto e zampironi e noi avremmo provato grandissima soddisfazione credendo in una fierezza genitoriale per quella missione compiuta.
La pesca delle telline avviene così: in ginocchio, nell’acqua bassa (o alla renella), ravanando la sabbia con le mani. È un po’ inquietante senza l’apposito retino, infilare le mani nel fondo intendo, senza sapere cosa ne possa venir fuori. Potevi beccare una cosa che ti pungeva, come un pezzetto di conchiglia rotta o una tracina e no, NO, non è una siringa (sapevo che non potevano essercene lì, ma il pensiero ci andava lo stesso, porcaputtanadiunazia). È anche deludente. La maggior parte delle volte non ne cavavi nulla, smuovevi solo altra sabbia che si dissolveva come fumo marroncino tra le dita e questa, che a pensarci è una metafora molto potente, rappresentava pura frustrazione, specie se si erano fatte ormai le sette e vedevi a riva i tuoi genitori sgrullare gli asciugamani e ricomporre le borse, che poi era la peggiore minaccia che potessero farti. Ma quando scavando, i tuoi polpastrelli cominciavano a capire, per averne dopo un istante la certezza, che stavano scovando il guscio liscio, duro, geometrico ed eccitante di una tellina, be’ quella era una cazzo di ecstasy. E crea dipendenza. Annulla ogni senso del fallimento o intento rinunciatario, praticamente ti dopa. E inizia una ricerca smaniosa perché una tellina tira l’altra. Altra perversione, quando ne accumulavi parecchie, era quella di andarle a smucinare nel secchiello. Tipo quando fai roteare le biglie nel sacchetto, perché uno lo fa?
Se mia zia gridava che saremmo morte assiderate se non annegate, mia madre ripiegava la sedia pieghevole e mio padre aspettava impaziente, mio zio lo trovavi fino all’ultimo minuto in acqua, inginocchiato accanto a noi. Un cucciolo di uomo, riccio e africano. Lui, al contrario di sua moglie, piantava in me i germi buoni, quelli che fioriscono nella coscienza e ti rendono un essere umano gentile.
Mi ha insegnato questo: quando l’onda arriva a riva, ritirandosi, forma sul bagnasciuga lucido diverse bollicine che scoppiettano qua e là in pochi istanti prima che la sabbia torni perfettamente liscia e compatta. Osservando bene, quelle bollicine sono in realtà dei granchietti che veloci scavano e si infilano sotto la sabbia. Basta infilare la mano dove vedi una bollicina per pescare un granchietto.
Associo mio zio al mare al tramonto. È anche l’ultima immagine vivida che conservo di lui: la sua faccia accesa d’arancione, sporco di sabbia come solo i padri che giocano davvero coi figli e soddisfatto per aver costruito, impastando granelli, un’automobile, decapottabile, con tanto di sedili per farci entrare me e mia cugina. «Dovremmo farlo di nuovo», ci dicemmo io e lui in quell’occasione. Un mese dopo lo rividi, esposto nella bara al cimitero, con un cerotto in piena faccia al posto del tramonto. Davvero un peccato.
Mia cugina la sogno ancora, non le parlo più e non c’è nient’altro da aggiungere a riguardo, ma proprio per come sono andate le cose con lui, con lei…Proprio per come tutto è andato a finire, a ripensarci adesso, credo facessimo benissimo, ogni benedetta volta, a cercare quelle stramaledette telline.
Questi ultimi racconti pubblicati sono veramente belli, ed il tuo è uno di questi! Strano come a volte, anche la propria infanzia riaffiori nei racconti degli altri, e mi son vista anch’io sulla spiaggia al Lido a raccogliere telline, con mia cugina e mia zia, e lo zio. anche per me è finita..con la morte dei parenti e quella spirituale della stessa cugina ,, non fisica;,il che è ancora peggio.Rivedo lei , mia zia e la sottoscritta aspettare ‘Cocco fresco !’e le telline annaspavano nel secchiello …Sapori indimenticabili.Una vita fa .
Grazie Laura! Curioso come le nostre storie si incrocino al richiamo del famosissimo “Cocco bello, Coccoo”. Grazie per aver commentato la mia storia e per aver condiviso la tua con me!
Molto intenso, nel finale struggente. E quanti ricordi evocati anche dallo spauracchio delle siringhe nella sabbia, che ha accompagnato la giovinezza di tanti. Complimenti!