Premio Racconti nella Rete 2021 “Altro giro, altra corsa” di Diletta Cirilli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021«Detonazioni, le Torri sono implose. Guardate questo frame, si distinguono chiaramente gli sbuffetti di fumo uscire dai piani inferiori insieme a dei piccoli bagliori. Ci sono le testimonianze audio delle comunicazioni tra pompieri, parlano di ordigni piazzati qua e là, su varie altezze, in diversi ambienti. Hanno trovato persino i cavi, metri e metri di bobine. Le hanno avvolte per bene come si fa con l’arrosto di maiale! Le hanno…Sentite, quei palazzi non bruciano fino a carbonizzare, no! Collassano su loro stessi. Polverizzati. Osservate questo modellino, ho riprodotto un Boeing 767, lo stesso che è entrato nella struttura delle Torri. Una zanzariera di metallo che, a detta dell’architetto che l’ha progettata, avrebbe retto un simile impatto. E l’architetto che cosa avrebbe detto dopo a riguardo? Un bel cazzo di niente! Trovato ammazzato nel suo loft dopo l’attentato, un caso di omicidio mai risolto e che meriterebbe tutto un altro approfondimento. Davvero credete ancora alla favoletta dei 19 talebani? Non ci vuole uno stramaledetto ingegnere per capire quello che è successo: l’amministrazione Bush ha creato il pretesto per mettere le mani sul petrolio scatenando una guerra in Afghanistan e in Iraq, proprio come Roosevelt ha lasciato che i giapponesi colpissero Pearl Harbor. È la storia che si ripete! Ok, per questo episodio è tutto, se vi è piaciuto fatemelo sapere nei commenti. Il prossimo si intitola Chernobyl vs Fukushima: disastri nucleari a confronto, spero vi interessi.Alla prossima!»
Eliminare file? File eliminato correttamente.
Bella cagata di idea. Trentacinque anni e ti metti a fare video complottisti su internet, come se non ce ne fossero già a palate, fatti prima e meglio del tuo. Come se ci potessi fare qualche soldo poi, quando ci sono ragazzine tredicenni dall’aspetto di milf che fanno cose a caso mentre dei filtri trasformano la loro faccia in musi di conigli e guadagnano tanto quanto il PIL di un piccolo paese. Che schifo di mondo è questo, poi dici non ci meritiamo la SARS. Che cazz…
Pronto? Papà, ciao. Tutto bene, tutto apposto. Volevi dirmi qualcosa? Ah ok, no, sì tutto bene. Come sta mamma? Bene, meno male. Il lavoro bene papà, un sacco di rogne come sempre. Eh sì, te lo dicevano le suore che fin da piccolo…già, l’avvocato del diavolo, me lo ricordo sì, divertente…papà stai già cenando per caso? No, niente. Ma no papà, niente, non te l’ho detto per l’orario, figurati. Papà cena quando vuoi, è solo che mi sono accorto che mangiavi…dal rumore. Tutto qui. Ma che infastidito, scherzi, è che ho tanto da lavorare e sono un po’ preso. Ok papà, certo, saluta mamma. A presto.
Dio santo, ora mi sento in colpa. E mi è passata la fame.
«Sono come mio padre, alle sei devo mangiare. La medicina cinese dice che le sei sono l’ora della sete, che il languore è un’illusione e che se bevi ti sazi. Apro il frigo, al pensiero di bere e basta, per ripicca, mi è rivenuta fame. Tutto scaduto. In TV c’è questo programma in cui conducono esperimenti sul cibo dei supermercati per dimostrare quanta merda ingeriamo. Dovrei fare una puntata sugli avanzi da non tenere in frigo, un film dell’orrore cazzo. Ah, giusto, idea dei video bocciata. È martedì, se resisto a pizza fino a domenica faccio scorta di cose sane al mercato contadino. Diventerò una pizza, cazzo. Al posto della faccia poi ho un ritratto cubista. Una pallonata da piccolo mi ha rotto un occhio e il naso. Il naso è storto, mentre la vitrectomia subita per riattaccare la retina ha stirato eccessivamente l’occhio sinistro che adesso è parecchio più piccolo del destro. Non ho più tentato con lo sport, vista la tenuta fisica non era il caso. Inoltre ho sempre voluto scrivere e per un po’ l’ho anche fatto, mentre coi soldi della retta per giurisprudenza ci studiavo giornalismo. Non so in preda a quale coraggio o miraggio decisi che avrei confessato la cosa ai miei genitori soltanto il giorno in cui sarebbe uscito il mio pezzo sulla prima pagina di una qualche testata nazionale: le parole sul foglio avrebbero raccontato al posto mio la verità di un figlio così serenamente bugiardo eppure – nonostante tutto – riuscito. E invece un cazzo. Né io ero così brillante, né potevo immaginare che tra i sogni dell’infanzia e la vita adulta sarebbero nati i social network. E il giornalismo vero sarebbe morto. E il mondo vero sarebbe morto. Da allora penso non valga più la pena raccontarlo, che ci pensino le stories, i post e i tweet. Quanto al genere umano spero si estingua presto.»
Eliminare file?
Che sto facendo? Sembro quell’astronauta abbandonato su Marte che invece di ammazzarsi si filma in sessioni di autoerotismo verbale. Seppellirò questo nastro a mo’ di capsula del tempo nel mio giardino, un regolo di terra più sterile di quella del pianeta rosso, dietro la catapecchia di casa in cui vivo. Il tetto a spiovente è l’unica parte dello stabile che ho trovato ristrutturata quando l’ho comprato, perciò visto dall’alto non deve sembrare male. Suppongo somigli ad una specie di matrioska anarchica, con un quadrato giallastro più grande, con sopra un quadrato grigiastro più piccolo, con sopra un quadrato rossastro più grande. Come la tortura della goccia cinese sulla fronte che alla fine frantuma il cranio, il solaio era sfondato al punto che quando pioveva ci diluviava dentro e il pentolame vario non aiutava più. Alla fine il vecchio proprietario ci ha speso due soldi, giusto per riuscire a venderla per due soldi. Davvero sto in una baracca: la porta-finestra è uscita dai binari troppo tempo fa per rimetterla in carreggiata, il legno è tarlato, il pavimento è tutto scagazzato per via del fatto che gli uccelli trovavano nei buchi del soffitto le esatte dimensioni di un water umano, non resistendo alla tentazione di centrarci un ricordino. Eppure, il rosicchiare continuo degli xilofagi mi ricorda il crepitio scoppiettante di un camino acceso e ascoltarlo la notte mi concilia il sonno. Nelle erbacce del cortile trovo quel verde cromoterapeutico che in città viene crudelmente asfaltato. I grilli in estate fanno da metronomo quando strimpello l’ukulele scordato del vecchio proprietario. E il profumo invernale, giallo e vanigliato del calicanto mi invita a resistere almeno fino alla primavera successiva. E cazzo, sono di nuovo in ritardo. Mi raccomando trovati l’unico lavoro dove fare tardi risulta fatale per il punteggio reputazionale. Corri, cretino!
«Pizza King – Il Re Della Pizza, mi dica? Due tonno e cipolla, ok. No signora, tra mezz’ora non riusciamo. No, a fare le pizze sì, è che il ragazzo delle consegne è già impegnato in altri giri…ah, venite voi? Va bene, grazie eh, arrivederci.»
«Eccomi, ci sono, mi scusi boss!»
«Boss non lo devi dire, mi ricorda quel bastardo di mio fratello!»
«Giusto, sire.»
«Sei licenziato.»
«No dai, non scherzi.»
«Fai l’ultimo turno e te ne vai a casuccia!»
«Senta lo so che qualche volta…»
«Sempre!»
«…ho fatto tardi, ma non ricapiterà, davvero bo.. sire.»
«Ho già preso una ragazza, inizia domani. È dentro che ti aspetta da mezz’ora, poverina.»
«Come? Ma perché?»
«Perché non solo ritardi, ti freghi pure una pizza a sera dagli ordini. »
«Ma quello è per…vede, lo so, ma lei all’inizio diceva che la cena per noi rider sarebb…»
«E ti aspetta perché la devi formare al volo. Hai due minuti. Dopodiché prendi i cartoni e corri, corri veloce come il vento o lo stipendio del mese salta, intesi?»
«Ho trentacinque anni Cristo, non può trattarmi così!»
«Io ottantuno e oggi mi gira parecchio il culo. Via! Pedalare!»
Ma tu guarda che cazz…
«Ciao, mi dispiace!»
«Ciao…grazie?»
«No, davvero, ho sentito, urlava come un pazzo. Oddio che situazione, mi sento anche in imbarazzo ora.»
«Ma va. Ti spiego un attimo come funziona, allora?»
«Ok, mi dispiace però. Tu che farai?»
«Basta dispiacerti! Magari mi propongo dal Boss Delle Pizze, se mi vede con la pettorina del fratello ci rimane secco.»
«Quindi quello dall’altra parte della strada…»
«Già, penso fossero una famiglia di mafiosi. »
«Bene!»
«Ora sono due vecchietti innocui tranquilla, si sfidano solo a pizze.»
«Ma guai a chiamarlo boss.»
«Mai. E quando diventa brusco basta nominare sua madreche si intenerisce e piange.»
«Potevi farlo prima, no?»
«Cazzo non ci ho pensato.»
«Come si chiama la madre?»
«Piano, bella. Devo formarti mica svelarti i trucchi del mestiere.»
«Avanti allora.»
«Mettiti sempre il casco.»
«Stai scherzando?»
«Il navigatore tanto ce l’hai, non devo dirti altro.»
«Dove ce l’avrei il navigatore? »
«Sullo smartphone, come tutti i cristiani.»
«Io non ho lo smartphone.»
«Procurati una mappa, magari.»
«Ma non voglio spendere soldi così.»
«Mi stupisco nel dire quello che sto per dire, ma dovrai comprartelo per forza, temo.»
«Vabbè, domani in qualche modo mi organizzo. È tutto quindi?»
«Sì.»
«Grazie dell’aiuto. Magari ci si incrocia per strada, boss.»
«Infatti. Però senti, visto che da domani sarò un uomo libero, che ne so, potrei darti una mano. Giusto per il turno battesimale, dico.»
«Cioè mi faresti tipo da gregario?»
«In incognito, si intende.»
«E come fai senza bici?»
«Senza pettorina intendevo. Oh ce l’ho un’altra bici, che credi!»
«Va bene oh, calmo! Dai, ci sto.»
«A domani allora.»
«Oh, ma il nome della madre?»
«Inizia per A.»
Via J. F. Kennedy, 223b. Avvia percorso.
Ultima consegna, forza. Da domani sono un uomo libero…che deficiente. Domani è tremendo, licenziato dal sire, ma si può?
Tra 500 metri, alla rotonda, prendi la prima uscita sulla destra.
Posso davvero vedere se dal fratello assumono. Sai che salto, dalla padella alla brace. Ciao papà, sono immerso tra i cartoni, cioè, tra le carte del processo, ti richiamo!
Prendi la prima uscita.
Devo pure rimediare una bici. E perché non lavo mai i panni?
Tra 200 metri, all’incrocio, prosegui dritto.
La bici la chiedo al vicino, mi ha messo sotto la gatta. E mi rimetto i jeans di oggi, sono puliti alla fine.
Prosegui dritto.
Aspetta. Fermo. Frena.
Ma tu guarda dove sono. Che strada mi ha fatto fare? Dall’incrocio riesco a vedere la casa dei miei, la seconda dall’angolo. Non è cambiato molto. L’auto è parcheggiata fuori, sul vialetto, tirata a lucido come piace a papà. Noto che mamma ancora sfoggia alla vicina le sue ortensie in una gara acida all’ultimo ph per vedere chi ce l’ha più blu. Staranno in forma. Quella specie di guizzo azzurro deve essere la TV accesa in sala, mamma ama quelle cretinate di talk show. La stanza di sopra sguazza invece in una morbida luce gialla, scommetto che è papà che legge a letto. Che tuffo al cuore cazzo. Ora mi viene da piangere, così, dal nulla.
Ricalcolo percorso. All’incrocio prosegui dritto.
Ho capito! Ora tiro dritto, zitta un po’!
Se avessi obbedito subito al navigatore, avrei consegnato tre pizze in orario. Domani avrei rubato una bici – gran bel vicino di merda – e con i jeans di oggi, che in fondo potevano ancora andare, avrei girato per la città con lei, per fargliela conoscere meglio, per conoscerla meglio. Dal Boss delle pizze non avrebbero assunto, tanto meno uno col mio curriculum. Coi miei avrei finto fino alla morte, che sarebbe arrivata nel giro di due anni per entrambi loro. Le ortensie blu, l’auto lucida, non erano sintomatici di un’altrettanta cura verso sé stessi, a quanto pare.
Invece ho tardato quella consegna e rubato una pizza dall’ordine. Non ci ho cenato. Ho aperto il cartone, sfilato la penna dalla pettorina, e ci ho scritto dentro. Ci ho scritto dentro tutte le parole che volevo dire e non ho detto ai miei genitori. Quelle che aspettavano un giornale fresco di stampa come supporto e invece si sono ritrovate assorbite dalla grana spessa e ondulata del cartoncino, insieme all’unto del pomodoro e ai filamenti di mozzarella.
Ci ho scritto dentro tutta la mortificazione che desertifica il mio cuore, giorno dopo giorno. Ci ho scritto dentro che odio questo mondo di chiacchere polarizzato, i capi di stato, le fake news, le consegne a domicilio e i miei coetanei, che per esistere nella vita resistono sui social. Ci ho scritto dentro che mi sono sopravvalutato, sottovalutato, svalutato. Che mi sento provato. Che ho deluso, che chiedo scusa. Che sono imploso. Che ho perso la gioia per parlare di qualcosa. Che ho bisogno di ricominciare dalla verità. Che quella posso ancora raccontarla e così riappropriarmene e, con lei, anche delle parole. Che lo sto già facendo, proprio adesso, guardate. È un piccolo successo questo, no? Ci ho scritto dentro per spezzare l’incantesimo di una bugia e provare, da domani, ad essere un uomo libero per davvero. Tutto questo io ce l’ho scritto dentro. All’incrocio della mia vita. E ora posso proseguire dritto.
«Oh chiamali però!»
«Li sto chiamando ora.»
«Fai bene, mezz’ora è davvero troppo!»
«Mi dà occupato però. Ah eccoli, sono loro che chiamano. Pronto? Oh…accidenti. Porca miseria! Mi dispiace…certo, ma certo, comprendiamo. Cavoli, che tragedia. Va bene, si figuri. Arrivederci.»
«Ma quindi?»
«Non potete capire, hanno ficcato sotto il ragazzo della pizza.»
«Dai, ma che dici?»
«Quaggiù, all’incrocio! E’ morto poveretto.»
«Ma no! Assurdo!»
«Eh…lo so. Oh, era il titolare che mi ha chiamato, era sconvolto.»
«Ci credo!»
«Si è scusato per le pizze, ovviamente. Cioè, non me la sono sentita di chiedere un rimborso o cosa, va bene per voi, no?»
«No, sì, certo. Hai fatto bene.»
«Tremendo.»
«Eh sì.»
«Ma voi avete fame?»
«Io sì!»
«A chi lo dici, sono quasi le dieci!»
«Facciamo sushi? Il solito?»
«Vai.»
«Chiama.»
«Pronto? È tardi per ordinare? Ottimo! Una barca da quaranta pezzi. Via Kennedy, 223 b.»