Premio Racconti nella Rete 2021 “Polvere” di Alice Cupini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021Emma era l’unica che sopportavo ad una distanza ridotta, più ridotta possibile. Emma e il suo accappatoio, con o senza, più senza possibile.
Me ne stavo sotto al lenzuolo rimboccato fino alle spalle, nella luce di un giovedì di febbraio che si credeva marzo. Non mi era mai piaciuto il mio corpo: fin dalla seconda media i chili in più si erano piazzati sul giro pancia, sedere e coscia, rimanendoci.
“Marcolino mio hai il corpo a fiasco, neanche fossi in menopausa” mi aveva detto mio zio, in uno dei macchinosi pranzi di famiglia, con mamma a cucinare per dieci, senza saper cucinare. Per fortuna zia non aveva sentito, lei sì che era in menopausa da un po’ e che non aveva accettato le nuove rotondità strette nelle gonne, nelle camicette, persino nei mocassini.
Zio era un militare, della marina, molto ufficiale ma non sempre gentiluomo. Non lo fu con me, quel pomeriggio dei miei tredici anni, in cui mi sentii ancora meno uomo, così inadeguato con quei quattro peli là e quel grasso da donna in piena crisi ormonale. Iniziai lì, a tavola, davanti ad un arrosto brutto, a pulire ossessivamente le lenti da miope nei momenti di imbarazzo; ne scoprii il piacere da più grande, infilandomi di proposito in un mondo senza contorni, fatto per chi sente bene gli odori, ma vede male la vita. Così mi piaceva anche guardarmi allo specchio: senza occhiali, con poca luce, con il perimetro ondulato e senza una vera forma a farmi da contenitore.
Emma mi toglieva gli occhiali come se non esistessero momenti da cui fuggire, toccava il mio corpo come se fosse davvero quello di un uomo nel suo giusto stadio ormonale e vitale.
Lei fu la prima a cui dissi Ti amo, credendoci un bel po’. A differenza della prima volta in cui cercai di struggermi di passione per Giulia, per tre mesi nei miei sedici anni. La stessa Giulia che a tre anni di distanza iniziai a chiamare Gaia e così feci per un tempo infinito, finché non ritrovai la foto di classe e la sua dedica: “All’amore della mia vita, Giulia”. Nemmeno il nome, per dire.
Di Emma no, di Emma conosco le lettere: due vocali e una consonante ripetuta; le ricordo come fossero le uniche nel mio alfabeto a tre. Di Emma conosco la voce, il profumo, le unghie, i sorrisi, i nei tutti. La storia, i capelli, la luce, i contorni, con o senza occhiali.
Ci incontrammo in un mercatino dell’usato, nel periodo in cui sentivo che guardare bancarelle avrebbe potuto indicarmi una volta per tutte la strada giusta da prendere. Non funzionò. Vagare tra quei tavoli e tende mi aveva sempre restituito un senso di pace passiva: scorrevo inerte il sentiero di ciottoli bianchi in attesa che il fato mostrasse ai miei occhi la via di casa, o di fuga, o quel che era. La massa di dvd, le anatre appoggiate ovunque, la macchina da scrivere buttata là, le stuole di coltellini di tutte le nazioni: mi credevano forse regista, sceneggiatore, intagliatore o impagliatore. Finiva che uscivo dal mercato con una pannocchia in mano e credendomi scemo.
Ma quel giorno vidi Emma, davanti ad un banco di bottoni. Li guardava, toccava e rimetteva al loro posto; lo faceva con cura, come se ne stesse cercando uno in particolare, perso secoli prima da una trisavola ben vestita. In un attimo un bottone cadde, bianco perla. Sfuggì e si perse tra i ciottoli di terra decolorata.
Non ero quasi mai istintivo, piuttosto controllato e ossessivo, principalmente misantropo e sarcastico, ma quel giovedì, con due passi lunghi mi fiondai e franai col ginocchio sul brecciolino.
Emma era già chinata e si spaventò nel vedermi arrivare con tanta foga, alzando anche una leggera nebbia di polvere bianca. Borotalco a lenire il rosso delle mie guance, goffi fanali di una manovra uscita male.
“Entrata sobria ed elegante” dissi di getto.
Ironia, vecchia bastarda.
“Certamente d’effetto” rispose lei, “Grazie dell’aiuto, ma sai cosa stiamo facendo?”
“Cerchiamo un bottone, quello bianco perla.”
Bella risposta da maniaco.
“E come fai a saperlo?”
“Ti stavo guardando da lontano, mi chiedevo di che segno fossi e in quale universo parallelo avrei potuto conoscerti senza sembrare un depravato mentecatto.”
Ma che cavolo?
Emma rise e per la prima volta mi guardò senza il timore che potessi trascinarla a forza dietro una siepe, o soffocarla con un sacchetto di plastica da un momento all’altro.
Le trasmissioni su omicidi, o cataclismi, avevano sempre suscitato in me un interesse perverso e a tratti preoccupante. Dopo troppi documentari, un certo tipo di pensiero lugubre aveva iniziato a infiltrarsi nel mio senso ironico, diventando inquietante, più per me stesso che per gli altri. Molti infatti ne ridevano, come Emma. Ecco, Emma rise e fu tsunami.
“Trovato!” disse lei, tenendo tra le dita bianche un bottone cammeo, in cui era intagliato un profilo di donna tra i boccoli.
“Come vedi, mi hai spiato male, non è di perla, è un cammeo”.
Lo guardai tra le lenti da miope: percorsi di capelli nella madreperla finivano in minuscoli sbuffi di ciocche fissate per sempre in un disordine perfetto, intorno ad un viso fine, di sorrisi e polvere, appoggiato su un ovale rosa scuro.
“Lo compro” dissi al vecchietto mezzo addormentato dietro il banco, mentre cercavo di alzarmi sui sassi arrotolati.
“Grazie” disse Emma, prendendo il cammeo con delicatezza, non sembrò in imbarazzo e questo mi piacque, “Mi ricorda qualcosa di lontano”.
Le offrii una pannocchia e mi innamorai. L’anatra sulla mensola più in alto del gazebo di fronte, acquattata tra le piume senza colore e abituata a vedermi uscire come un scemo, quel giorno sghignazzò. Ci accompagnò con lo sguardo, mentre lasciavamo il sentiero di ciottoli, per ritrovare l’asfalto del marciapiede, più stabile e prevedibile. Ci vide abbandonare infiniti destini alternativi sui banchi, a prender polvere.
La luce del giovedì era invadente e le lenzuola pesavano come lastre di piombo. Emma se n’era andata e non mi alzavo da giorni, non mettevo gli occhiali da giorni. Presi il cammeo dal comodino e me lo rigirai tra le dita, vedendolo appena, ma conoscendone ogni millimetro.
Sputo madreperla su sangue sbiadito, schifo di saliva e terra. Strada più corta del muro su cui sei andato a sbattere.
Mi misi a sedere sul letto, senza occhiali. Guardai il telefono, morto vicino al posacenere e al bicchiere opaco di latte, di giorni prima. La stanza puzzava di chiuso e sudore.
Sentii i muscoli delle gambe vibrare storti, quando cercai di alzarmi in piedi. Mi toccai la faccia, realizzando solo in quel momento del prurito della barba di settimane; mi grattai a farmi male, camminando verso il bagno. La penombra che trovai lì mi fece piacere, la sentii più adatta al mio buio. Sbattendo alla tazza e strusciando all’accappatoio appeso, arrivai allo specchio e mi guardai, senza occhiali.
Marcolino mio sei senza contorni, torna a prender polvere.