Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2021 “Qui con due sconosciuti” di Francesco Audino

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

È il momento.

Sono sola, al buio. Silente ma attenta. Sento la chiave girare nella toppa. La porta si apre, uno spiraglio di luce, per un attimo, mi acceca. Sento l’aria fresca insinuarsi dall’esterno.

Sono qui da settimane. Perché? Me lo chiedo anch’io. Mi hanno portata qui loro due, un uomo e una donna che conducono una vita normalissima. Eccetto che per me, ovviamente.

Io non posso uscire, neanche quando vanno a lavoro o a cena fuori. Me ne sto in casa loro, dove posso mangiare e bere quanto voglio. Non mi fanno mancare il cibo, anche se non mi è permesso pranzare o cenare alla loro tavola. Forse non vogliono che ascolti di cosa parlano – forse non devo saperlo.

Quando gli rivolgo la parola fanno finta di niente. Non intendo che mi ignorano, anzi, ma si comportano come se io fossi sempre stata qui, come se non mi avessero sottratto a mia madre e ai miei fratelli più grandi. All’inizio ero spaventata, ma poi ho avuto il tempo di pensare, e ho elaborato un piano.

Possono tenere le porte chiuse. Possono ignorare le mie suppliche, e le finestre sono decisamente troppo alte per tentare la follia di saltare giù. Ma c’è un momento, circa una volta alla settimana, in cui la porta resta aperta più del necessario.

È quando la donna va a fare la spesa, e dopo aver aperto con la chiave posa la prima busta dentro e si piega a prendere l’altra. Solitamente l’uomo è al lavoro, il che gioca a mio vantaggio.

Devo solo aspettare quell’occasione.

Nel frattempo, ciò che mi confonde di più è il loro comportamento, il non capire cosa vogliano fare con me. Mi tengono d’occhio, mi sfamano e cercano persino di conoscermi; ma cosa vogliono?

La donna sembra mettercela tutta. A volte si siede sul divano accanto a me. Restiamo vicine senza dirci nulla, a guardare la TV o a riposare.

Un giorno sto male. Viene a stendersi affianco a me e mi mette una coperta. Ci addormentiamo così. Quando mi sveglio e la trovo ancora lì, addormentata con un mezzo sorriso, comincio a credere che forse sotto non ci sia niente; che cercare un senso a questa cosa sia tempo sprecato, e che dovrei semplicemente godermi la vita che mi è toccata.

Così, giorno dopo giorno, mi lascio un po’ andare. Sono più tranquilla. Ma il frigo diventa vuoto, il tubetto del dentifricio sempre più arrotolato su se stesso, il rotolo di carta da cucina ridotto all’osso.

È il momento.

La chiave, la luce, l’aria dall’esterno. La prima busta appoggiata dentro.

Adesso.

Scatto come se avessi fatto le prove per settimane. E in parte, quando i due non c’erano, l’ho fatto. Mentre esco sbatto contro lo stipite; mi faccio male ma non mi fermo, non posso.

Sento la donna che mette giù la busta, poi la sua mano mi afferra tra le costole e frena la corsa. Per un attimo mi manca il fiato. Mi piego in avanti, come se sporgermi un po’ di più potesse garantirmi il diritto di andarmene dove voglio.

Provo persino a gridare, ma è tutto troppo rapido, e sono troppo esile per ribellarmi.

Ho fallito. Sono ancora qui.

Piangere non serve a niente, lo so già, ma questo non mi impedisce di farlo. Per un po’ me ne sto buona e zitta, faccio solo quel che mi dicono loro. Quando tornano con la spesa sono più attenti di prima; forse mi sono giocata la migliore possibilità che avevo, ma non ci voglio pensare.

Cerco ancora una volta di adattarmi e fare finta di niente. Poi però devo mangiare da sola, o accade che l’uomo, quando siamo soli io e lui, mi chiuda in bagno se mi spingo troppo in là con le domande, o anche solo se è di cattivo umore e decide che i suoi problemi esistono per colpa mia.

A volte penso di dirlo a sua moglie, ma non ne ho il coraggio. E perché, poi? Lei è dalla sua parte, me lo dimostra ogni volta che rientra a casa e gli dà un bacio, o le volte che fanno sesso prima di andare a dormire. Se lo fanno in salotto mi capita anche di guardarli – se ne sono accorti, ma non gliene importa niente.

Dopo aver respirato a pieni polmoni l’aria di fuori, la prospettiva di rimanere qui e rassegnarmi a questa vita brucia ancora di più. E mi vergogno di fronte a loro, ora che sanno come li ho studiati solo per cercare di sfuggirgli. Nonostante quello che fanno per tenermi qui in salute. Nonostante le volte che la donna mi è stata vicina quando stavo male.

Il tempo ricomincia a scorrere, accelera, i giorni sempre uguali. La mattina il sole mi sveglia, e ogni tanto ancora mi capita di non riconoscere immediatamente dove sono, di immaginare l’odore di mia madre, quella vera.

Sono passati mesi, e mi accorgo che sta accadendo qualcos’altro: la donna sta più spesso a casa. Sembra anche più affettuosa con me, e il marito se ne prende cura quasi fosse ammalata. Noto che le si sta ingrossando la pancia e capisco: aspetta un bambino. Così in questo periodo, costretta a passarci le ore insieme, mi ritrovo a fantasticare su lui e lei. Mi viene in mente che anche loro, che ora vivono insieme e stanno per mettere al mondo un figlio, sono stati separati dai propri genitori; che forse quella separazione è qualcosa di essenziale per vivere una vita propria, diversa, unica.

Io la mia non l’ho scelta, ma loro? Non posso saperlo. Né posso sapere dove la vita porterà quel bambino che la donna tiene in grembo mentre dorme vicino a me, sul divano.

È una femmina. Quando la portano a casa sento che qualcosa mi si scioglie dentro. Forse è perché ormai sono qui da tempo, ma mi sento parte della famiglia. E lui e lei fanno di tutto per farmi sentire così. In momenti come questo mi chiedo come possa aver pensato che volessero farmi del male. È evidente: mi sono sbagliata. Anche questa bambina appena nata mi vuole bene. Come potrebbero i suoi genitori farmi del male adesso?

Imparo a vivere anche con lei. La vedo crescere.

Un giorno però comincia a tossire, diventa pallida. C’è qualcosa che non va, lo sento anche da come parlano i genitori. In questo momento si dimenticano di me, ma non li biasimo; anche io mi avvicino quanto basta per dimostrare la mia preoccupazione, ma me ne sto zitta.

Le misurano la febbre, poi la portano dal dottore. È una forte polmonite, o qualcosa del genere; la devono portare all’ospedale. Io attendo qui, preoccupata.

Da sola, al buio. In apprensione.

Li sento; eccoli.

La chiave gira nella toppa, la porta si apre. La luce, l’aria fresca.

Riportano dentro la bambina. Vengono dentro entrambi, sorridenti. Va tutto bene, forse ci vorrà dell’antibiotico, forse dovrà stare un po’ in casa al caldo, ma non c’è pericolo; anzi, lo vedo anch’io che sta già meglio.

E la porta è rimasta aperta. L’aria entra e mi sfiora.

Mi avvicino. Sarebbe così facile.

Eppure esito un momento. Le loro voci mi trattengono, mi fanno girare. Incontro gli occhi grandi della bambina, che guardano proprio me. Allora l’uomo e la donna si accorgono che la porta è rimasta aperta, e con calma si avvicinano e me la chiudono davanti agli occhi.

Va bene, mi dico. Per questa volta avete vinto voi. Diciamo che è una tregua, ma prima o poi uscirò.

Per adesso torno dalla bambina e mi faccio accarezzare. Mi rotolo anche un po’ accanto a lei, facendoli mettere tutti a ridere. La bambina, che ancora non sa parlare, mi interpella con dei versi. Io le rispondo, ma ormai ho capito che loro capiscono solo “miao”. Anche a questo mi sono rassegnata. Che posso farci?

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