Premio Racconti nella Rete 2021 “Fantosmia” di Marco Ruggiero
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021Sono con mezzora d’anticipo ma non aspetto per strada. C’è odore di umido in fermentazione, di un passaggio con i finestrini aperti davanti ad una discarica. E poi chissà se è vero!
Citofono, spingo, salgo, suono, apro.
Annuso quel che resta della folata alcoolica che mi ha pedinato dall’asfalto al marmo del pianerottolo.
Entro, chiudo, silenzio.
Sfuma quel fetore nel sandalo e nel fumo che serpeggia da una brace appena spenta di un camino che non c’è.
Respiro.
Mi piace la luce che c’è in questo posto. Guardo il pulviscolo che galleggia su una lama di sole, polvere di fata. Chissà che odore ha? Il resto è rovere antico, libri ingialliti ma ordinati, poltrone di pelle e parquet a doghe larghe. È la mia camera di decompressione, è la sala d’attesa del mio psichiatra.
Fantosmia, mi ha detto, allucinazioni olfattive. Una parola immersa in un odore di medicinale e ammoniaca.
Per me era solo l’odore dei sentimenti.
Siedo tra due librerie. Dovrei leggere qualcosa ma tra due pareti di libri mi sento osservato. Sembra che loro vogliano leggere me.
Sorrido, distendo le gambe, massaggiandomi le cosce. Nemmeno quarant’anni e due piani di scale mi fanno bruciare i muscoli. Nemmeno quarant’anni…
Fantosmia. Il silenzio è la cura, il silenzio e l’immobilità.
Ciò che è immobile non vive, ciò che non vive non fa male e quindi non puzza, ma non fa nemmeno bene se non vive e quindi non odora. Quindi il silenzio e l’immobilità… questa stanza è la cura… ma sa di sandalo, di fumo di brace – respiro – di carta asciugata dal tempo. Quindi odora, quindi è viva, ma non fa male.
Anche se non credo che ciò che adesso non faccia male prima o poi non possa iniziare a farlo e ciò che profuma prima o poi potrebbe smettere di farlo. Emma lo ha fatto.
Emma odorava dell’albero di fico del giardino dei miei nonni. Non uno qualunque, quello! Sapeva della mia pelle bruciata dal sole, della canottiera bianca sporca di terra, dei pantaloni corti, di ginocchia sbucciate, del tempo che sembrava non passare; erba secca, pallone, nonna che mi chiamava per il pranzo e io che mi arrampicavo sul fico in fondo al giardino. Con le mani appiccicose, la testa tra le foglie, il fiatone, respiravo quel fico come poi, con la testa tra i suoi capelli, il cuore in gola, respiravo Emma, che aveva un buon odore, sapeva di un’estate infinita che poi è sfumata impercettibilmente in una casa tutta nostra, in una cena su uno scatolone, a far l’amore su un lenzuolo steso sul pavimento, che sapeva di pulito. Emma iniziò a sapere di quello, di pulito, di panni stesi al sole, di vele bianche e detersivo, spiegate su una terrazza condominiale. Eravamo felici in quel momento al punto da non essere più sufficienti a noi stessi.
Penso ad un raro ricordo delle elementari. La mia classe, l’odore di polvere di gesso e merendine, la maestra che graffia sulla lavagna due grossi cerchi che si toccano in un punto. In uno scrive in stampato maiuscolo IO, nell’altro TU. Nel punto d’intersezione, ci guarda e in coro diciamo “NOI”.
Noi… Io non potevo contenere te, tu non eri in grado di contenere me. Ci siamo uniti e, a quel punto, noi potevamo contenere un qualunque numero da due all’infinito e chili di borotalco su quella pelle morbida, notti insonni, pannolini, passeggini, febbre, baci e risa – tante risa – che, tra quelle quattro mura, sapevano di vita e borotalco.
Fuori c’era l’odore dello scampato pericolo, quello delle gomme bruciate da una frenata. Non era un buon odore – è vero! – ma almeno non era quello delle lamiere contorte, della benzina sversata. Era comunque un odore forte ma una volta chiusa la porta c’era solo il borotalco, oltre alle bollette, al mutuo, alla revisione della macchina, alla babysitter, alla scuola, ai libri, piscina, inglese, pianoforte.
Cambio lavoro, entro in un nuovo ufficio, tappandomi il naso e sorridendo all’odore di latte rancido che emanava il mio capo. Non berrei mai il latte andato a male, già l’odore ti dice che non ti puoi fidare, che ti farà male e che passerai serate intere seduto su quella sedia e rivedere un progetto senza speranza di successo. Ma il borotalco costa più della coca. Ho tappato il naso e mandato giù lunghe sorsate di quel latte avariato, ad ogni ora.
Emma in tutto questo si confondeva in quell’odore. Ogni tanto mi arrampicavo ancora su quel fico e immergevo la testa in quei panni, ma poi calava il sonno e noi – Io e te – abbiamo iniziato a odorare di sonno, di stanza chiusa al mattino. Speravo che aprendo la finestra qualcosa cambiasse, che la luce portasse un profumo di vita in quella stanza mentre invece ha illuminato mesi di bugie, tradimenti.
In quella stanza il sonno aveva lasciato spazio all’odore di ferro di quando perdi sangue dal naso, di rotaie dei treni… nel resto della casa, ancora borotalco. A quel punto di risa non ce ne sono state molte ma ho deciso di restare, di smettere di annusare il mondo pur di sorridere al saggio di danza, di vedere un cartone animato, di studiare le addizioni a tre cifre con il riporto.
Ho smesso di annusare ma non di respirare e, respirando, gli odori entrano; forse meno rispetto a quando annuso, ma entrano. Non più il fico né i panni puliti – quelli erano nostalgia – Emma aveva iniziato a odorare di naftalina e lacca, di immobilità, di capelli di nonna e calze spesse ed io respiravo, a piccoli atti, rapidi e brevi. Ho accumulato senza accorgermene, ogni giorno, poche molecole di odore che si sono depositate in piccole pozze immobili, in piccole metamorfosi, costanti, quotidiane, avvenute nel silenzio e nella disattenzione che mi ero imposti. Poche gocce di naftalina e lacca, poche ma costanti – insistenti – sono scivolate trasformando l’immobilità in movimento, in fuga. Ho aperto la porta e sono andato.
La porta in fondo al corridoio si apre con uno scatto, scuotendo il silenzio della stanza. “Arrivederci signora, proseguiremo mercoledì.” Dei passi ticchettanti si mischiano ad una voce femminile secca che ricambia il saluto. Una donna, spigolosa come la sua voce, sfila rigida nel suo tailleur rosa e scompare lasciandomi nell’odore e nella consistenza di una Bigbabol masticata troppo a lungo; non è spiacevole, è solo sdolcinata e indurita.
“Buonasera, anche oggi in anticipo… bene!” esordisce il dottore guardando l’orologio e invitandomi con il gesto del braccio a seguirlo nello studio in fondo al corridoio. “Sono soddisfatto nel vedere che inizia prenderci gusto.” Penso si riferisca al fatto che sono in anticipo, quasi smaniassi. Evito di deluderlo dicendogli che è stato un caso e che in realtà tutto avrei voluto fare fuorché essere lì, ad annusare il suo dopobarba al rosmarino. Mi giro verso la sala d’attesa, la luce soffusa, i libri, inspiro un’ultima boccata di sandalo e brace appena spenta, e lo seguo.
Sorprendente all’inizio, poi profondo e toccante. Bello!