Premio Racconti nella Rete 2021 “La camera ardente” di Marco Ruggiero
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021Erika entrò con passo sicuro, sottile come una lama e grigia nel suo tailleur. I capelli biondi erano ingabbiati in una crocchia dura di lacca e di rigore. Si fermò un istante sull’uscio, scrutò nella penombra davanti a sé, infine percorse gli ultimi dieci passi imprimendo la giusta forza in appoggio così che, nell’altra stanza, tutti potessero sentire la qualità dei suoi tacchi e la severità del suo incedere. Giunta ai piedi del letto, si fermò poggiando una mano lunga e ossuta sul pomo rotondo della pediera in noce antico. Nell’altra stringeva un fazzoletto di stoffa bianco.
Io rimasi seduto nell’ombra tra l’armadio e il muro, con le braccia incrociate e le gambe distese. Non mi mossi e come me – immobile – si congelò la scena davanti ai miei occhi.
La stanza dei nostri genitori era ampia e con il soffitto alto delle case signorili di una volta. Due finestre dalle cornici di legno si aprivano sul parco, ritagliate nelle pareti di stoffa rossa e compatta. Tra le due, una libreria angolare in noce antico conteneva i libri di nostro padre, ordinati per dimensioni. Sotto la finestra ad est, una scrivania sosteneva una ministeriale d’ottone con il paralume verde. In quel momento era accesa – unico faro nel buio. Un pulviscolo dorato riempiva quel cono di luce. Le ombre erano allungate, quasi distese, al fianco del corpo morto di nostro padre.
Erika rimase rigida a guardarlo, a malapena si percepiva l’espandersi lento del suo torace attraverso la giacca stretta. Era un punto esclamativo, inappellabile e grigio nella sua compostezza. Con i polpacci ossuti, i glutei appena accennati ricordava la fame di sentimenti che l’aveva allontanata da quella casa – e da me – per oltre dieci anni.
Nostro padre era disteso sul letto, elegante come un tempo nel suo doppiopetto grigio con i bottoni in madreperla. Le mani sottili, ossute e quasi trasparenti erano incrociate sul ventre. Nostra madre gli aveva stretto tra le dita un rosario dai grani neri che lui, se non avesse avuto quel bavaglio bianco a sostenergli il mento, non avrebbe mai accettato.
Erika lo guardava inespressiva, poi iniziò a picchiettare con impazienza con l’indice ben smaltato sul pomo di legno. Mi ricordò le zampe di un falcone appollaiato su un guanto di cuoio e, a guardarla bene, anche il naso ricordava un becco affilato. Guardò l’orologio, cercò nella sua borsetta il cellulare e sorrise leggendo un messaggio. Le sue dita picchiettarono sullo schermo una risposta che rilesse mordendosi le labbra con malizia prima di inviarla. Poi tornò a guardare nostro padre, le labbra sottili sbuffarono impazienti. Solo quando sentì la porta socchiudersi trasalì, affrettandosi a indossare una maschera di dolore. Credo abbia pensato che in un’occasione del genere il pianto di una figlia fosse dovuto, quasi auspicato, e che non potesse sottrarsi a questo ruolo senza dover giustificare a lungo la sua indifferenza.
Abbassò quindi la testa tra le mani, coprendosi gli occhi con il fazzoletto e rimanendo ritta ai piedi del letto. La sua fronte si contrasse in rughe sottili che tremavano al ritmo di un improvviso pianto e la bocca si allargò scoprendo i denti stretti in un ghigno.
Alle sue spalle si avvicinò silenzioso il Notaio Renzoni, un tempo giovane assistente di nostro padre, più di un figlio per lui. Le mise una mano sulla spalla stringendola in segno di vicinanza. Erika rimase immobile con il fazzoletto sugli occhi, lui la superò avvicinandosi a nostro padre. Lo guardò, gli carezzò una guancia, scosse la testa come se volesse scacciare il dolore. Quando si sollevò mi intravide seduto nell’ombra. Silenzioso alzò la mano in segno di saluto. Io ricambiai, lui si allontanò.
Quando chiuse la porta, Erika tolse le mani dal viso asciutto. Guardò il fazzoletto sporco di trucco. Si avvicinò allo specchio lisciandosi il tailleur. Io mi mossi per farmi notare. Lei rimase immobile, guardando il mio riflesso, seduto nell’ombra tra la porta e l’armadio. Vidi l’iniziale smarrimento nei suoi occhi evaporare dietro una coltre di irritazione – forse anche vergogna. Aprì la bocca come volesse dirmi qualcosa. Poi, strizzò gli occhi in due fessure taglienti, gettò a terra il fazzoletto, quindi uscì, sbattendo i tacchi e la porta.
Il pulviscolo si contorse in spire mosse dal vento. Lo vidi lambire il fazzoletto incrostato di pezzi spessi di una sofferenza simulata.
In fila fuori dalla porta, rispettando il dolore di una figlia, si era accalcato silenzioso l’intero paese. La notizia della morte del Notaio Vinciguerra doveva aver raggiunto anche gli angoli più solitari della provincia e tutti attendevano contriti il proprio turno per porgere il proprio saluto al morto.
Tutti tranne due anziane signore, ingobbite dagli anni e dal lavoro, nere come il buio che mi avvolgeva. Sfilarono veloci al fianco del capannello di persone che si aprì al loro passaggio, come si farebbe per non intralciare un’ambulanza. Giunsero ai piedi del letto ripetendo più volte, con le mani grigie, il segno della croce. Poi da sotto la tunica nera, partorirono un cuscino che poggiarono a terra e quasi simultaneamente si inginocchiarono. Ad un segnale del capo di quella che sembrava la più anziana iniziarono una litania ritmata, di antico dolore. Bisbigliando cascate di parole si richiusero nel loro mondo di singhiozzi, preghiere e pianti.
La fila di conoscenti iniziò ad entrare nella stanza, ognuno con una maschera differente di dolore.
C’è chi scosse la testa, chi si batté il petto, chi carezzò il morto, chi gli strinse la mano, chi baciò il rosario, chi gli sistemò il nodo della cravatta, chi abbassò il capo, chi recitò un rapido Padre Nostro, chi si toccò gli occhi, chi simulò un sospiro, chi arrivò a singhiozzare, chi sorrise bonariamente come a dire so che ci rivedremo, chi si inginocchiò, chi nascose la repulsione per la morte dietro ad un segno della croce, chi contrasse solo le labbra, chi si asciugò una lacrima che non voleva uscire, chi bisbigliò sembra stia dormendo.
Io rimasi immobile nel mio angolo buio stupendomi del lusso di non venir visto. Pensai alla stranezza di quella situazione. Mio padre in vita non aveva mai avuto tutte queste attenzioni. In piazza gli sguardi passavano su di lui per poi cadere su altri che dopo un po’ diventavano invisibili come lui. Nessuno in vita poteva godere dell’esclusività che gli veniva concessa il giorno della morte.
Poi entrò mia madre, lei mi vide. Si avvicinò a me, mi baciò la fronte, controllò che i termosifoni in ghisa fossero spenti, e uscì.
Io rimasi a guardare quei due sacchi neri ai piedi del letto che si contorcevano mimando un dolore crescente. Le loro voci, i sospiri, le preghiere diventavano sempre più alti all’aumentare del numero di visitatori.
La processione proseguì per un’altra ora, tra bisbigli e rosari.
Quando si chiuse la porta, quasi fosse un segnale, le professioniste del dolore si alzarono, presero da terra il loro cuscino ed uscirono silenziose.
Io mi avvicinai al letto, baciai mio padre sulla fronte e mi avviai verso la scrivania, tagliando quella coltre di pulviscolo dorato. Allungai la mano, raccolsi il fazzoletto. In un angolo le sue iniziali macchiate di matita e fard. Lo gettai nel secchio, quindi, spensi la ministeriale in ottone e rimasi nel buio, illuminato solo dalla luna, alta al di là dei vetri.
Aprii la finestra e mi appoggiai con i gomiti sul davanzale. Alle mie spalle lasciavo il corpo morto di mio padre. Davanti a me il profilo dei monti, più nero del cielo notturno di quella notte d’inverno, sfumava in una vallata addormentata, tagliata da un fiume che al chiarore della luna serpeggiava lento.
Tutto era silenzio. Né il volo di un uccello, né il ronzare di un insetto, solo il latrare di un cane lontano.
Un racconto molto bello, scritto con grande sensibilità.