Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2021 “Noi ragazzi del dopoguerra” di Giovanni Manocchio

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

Gli abitanti di Baranello, una piccola cittadina del centro Molise che mi ha dato i natali, affrontavano l’immane catastrofe bellica, che aveva coinvolto buona parte del globo, e ridotto allo stremo le popolazioni, col disagio delle note privazioni associate all’evento, e l’angoscia spesso insanabile dei i tanti lutti, senza abbassare tanto la guardia, con il tosto carattere che i duri lavori dei campi gli avevano da tempo conferito, cercando di trarne, quando le circostanze lo permettevano, un beneficio, seppure effimero, che non gli avrebbe cambiato la vita, ma annaffiato l’orticello interiore con quell’energia positiva dello spirito, in modo che potessero schioppare fiori e frutti appena tempi migliori lo permettessero.

Già da prima della guerra le condizioni di vita non erano ottimali;

la scuola dell’obbligo qua terminava con la terza elementare ed il doposcuola per gli scolari consisteva nel dare una mano ai genitori nei lavori dei campi o pascolare le pecore. Per i genitori la formazione culturale dei ragazzi, non era prioritaria, e per le menti promettenti mancavano spesso i mezzi e le condizioni per valorizzarle. Nelle classi, l’italiano claudicante associato all’ermetismo ideico, dovuto principalmente alla carenza di stimoli idonei, creavano spesso situazioni al limite tra il preoccupante ed il comico. Raccontavano che una maestra chiedeva ad un alunno “Che hai mangiato a cena” e quello “pizza ricotta signora maestra”; il signora era d’obbligo allora. Il giorno seguente gli chiede la stessa cosa, e Giuseppe, gli risponde di nuovo “pizza ricotta” il terzo giorno alla stessa risposta la maestra gli chiede “ ma quante pecore ha tuo padre”? E lui, anche un po’ divertito, “non abbiamo pecore; la pizza di granone avanzata a pranzo, mamma la rimette sul fuoco per cena”. In un altra classe il maestro assegnava un tema “descrivi una festa in famiglia”, e quando va a leggere l’elaborato di un alunno, non ha tanto da correggere o depennare; compariva solo la frase “ Tata a la casa nen ce vò a nisciun” (Papà a casa non vuole nessuno); Quel ragazzo, nella vita, logorroico penso che non sarà mai diventato.

Non se la passavano meglio i giovani; lo spiazzo davanti casa, era

un punto di aggregazione per loro, ma anche per pecore, galline e altri animali da cortile.

Gli idoli calcistici erano probabilmente Meazza, Piola, e forse Mazzola Valentino; seguivano i campionati nazionali di calcio alla radio che, con i modelli popolari come Radio Balilla e Radiorurale, era ormai alla portata di molte famiglie. Non esisteva ancora il canone RAI, ma si pagava una tassa all’EIAR, (Ente Italiano Radio Audizioni) e l’importo era proporzionale al numero delle valvole del radioricevitore; ed ogni anno sulle valvole termoioniche veniva applicato un bollino con la scritta “tassa pagata”.

Avevano la squadra della contrada, ma come spesso accade, non tutto filava liscio e, si presentavano ogni tanto problemi per l’utilizzo del campo.

Il mio bisnonno Antonio, che ogni giorno, anche di Domenica, soleva sedersi a bordo di quel largo, con la sola preoccupazione che le sue pecore brucassero l’erba più alta, si innervosiva tanto, quando quell’oggetto rotondo volava veloce fischiando davanti al suo naso. Un giorno avendolo finalmente catturato; lo poggia su un tronco, e col “maglio” l’antico bastone nodoso che si batteva a mo’ di clava sui cunei di ferro per spaccare la lega, gli assesta un colpo formidabile, pensando in cuor suo di essere venuto finalmente a capo di quell’insopportabile gioco stupido di ragazzi nullafacenti. Ma non aveva messo in conto l’elasticità del mezzo; il maglio infatti, rimbalzando sul pallone e sfuggendogli dalle mani, gli batte tra naso e fronte, e per contraddizione della sorte, i ragazzi dovettero anche prodigarsi nel prestargli soccorso.

Con la guerra era rimasto tutto fermo. Il ponte ferroviario qua vicino era stato fatto saltare dai tedeschi che occupavano Baranello per rendere meno agile l’avanzata agli alleati; ad ogni lato del ponte erano rimasti fermi, in abbandono, due treni a vapore, uno da e uno per Campobasso. Ma gli abitanti della zona, quando nell’aria non c’era fiuto di bombe, avevano trovato il diversivo; si arrampicavano sui treni e segavano le tubature di rame che poi avrebbero trasformato in serpentine, utilizzate per la distillazione dell’alcool ricavato da quella damigiana, che seppur di buon vino, aveva però preso uno spunto. Era anche questa è una macchina a vapore; mentre nella locomotiva il vapore acqueo è trasformato in energia meccanica, i vapori alcolici della serpentina invece incrementano l’energia mentale; il principio è simile.

Nel dopoguerra la musica non era cambiata; i nostri genitori ci raccomandavano continuamente di non toccare oggetti metallici sparsi nei campi, che potevano rivelarsi ordigni inesplosi. I tedeschi, sfrattato di casa i nonni con la numerosa famiglia, si insediano nello stabile, abbastanza grande per adibirlo a ricovero per parte dei soldati. Giunti gli alleati, avevano trasformato il piano inferiore di quella casa, abbandonata dai tedeschi in ritirata, in mensa con funzione aggiuntiva di sala cinema per sera, e quello superiore in uffici; un vero quartiere di comando operazionale di zona, con tanto di scritte sui muri che risultavano leggibili fino ad inizio anni ottanta. Ma i primi ospiti col fiato sul collo per l’arrivo dei canadesi, in ritirata, avevano interrato dietro casa gran parte del loro arsenale bellico in modo che non finisse in mano nemica. Questo però è ricomparso intatto negli anni cinquanta durante una operazione di scavo. Gli artificieri del distretto di una città vicino vennero a prelevare e caricare su un camion militare varie caramelle da venti trenta kg che emergevano dal terreno, e successivamente disinnescate; ma nonostante la ricerca col metal-detector, ogni paio d’anni comparivano altre confetture seppure di ridotte dimensioni. Ero in età scolare allora, ed in una tiepida giornata di primavera, sempre là, vicino casa, aiutavo mio padre a dissodare il terreno per piantare una siepe, quando il piccone, batteva contro un oggetto metallico. Era il coperchio di una cassetta di ferro porta munizioni, ancora colma di cartucce; arruginita per infiltrazioni di acqua piovana, ma col contenuto intatto e forse efficiente. Papà con calma e pazienza la libera dal terreno, e la poggia temporaneamente all’ombra di un albero.

Io, anzi, noi ragazzi a dire il vero, avevamo buona dimestichezza con quel tipo di cartucce. Uno dei miei amici, quello che per nominata era il più audace, sprezzante del pericolo, forse troppo, aveva estratto il proiettile da una cartuccia, e dentro aveva rinvenuto dei cilindretti sottili che noi chiamavamo “maccaroni”; erano simili a spaghetti ma di lunghezza ridotta. La loro funzione non ci era nota, ma si trattava di un propellente a nitrocellulosa per proiettili in uso allora, in alternativa alla polvere, che a differenza di questa, dopo lo sparo, non emetteva la caratteristica nuvola di fumo che avrebbe creato una certa impedenza al soldato, a visualizzare l’obbiettivo per i successivi colpi. Per l’amico i “maccaroni” era stata la scoperta del secolo, ed ancora più avanti nell’esperimento, aveva provato ad accenderli con un fiammifero, e scopre che emettevano corpose scintille, come i tipici bastoncini o girelle luminose in vendita nelle bancarelle nel periodo delle feste natalizie. Nella combriccola, si fa per dire, inizia una gara per recuperare maggiore quantità di quel prezioso materiale.

Si era presentata anche a me una ghiotta occasione. Quando mio padre non era in casa, prendevo proiettili dalla cassetta, che era rimasta sempre là, poiché i tempi per lo smaltimento non erano proprio celeri, ed uno alla volta li sistemavo in mezzo ad una morsa, senza stringergli troppo la pancia onde evitare rumorose eruttazioni, con una tenaglia poi, torcendo a destra e manca estraevo il proiettile per recuperare i “maccaroni”. Avevo avviato una vera e propria catena di smontaggio. Dopo vari recuperi, soddisfatto, giro intorno al mazzetto un elastico e avvoltolo in un pezzo di giornale lo sistemo nel fondo della tasca destra del pantalone, orgoglioso di tanta abbondanza, pronta da mostrare agli amici vanagloriosi quale mio cospicuo bottino di guerra.

Forse nessuno ragazzo della civiltà occidentale sognerebbe di perder tempo con giochi simili e, diciamolo apertamente, pericolosi e dannosi per una mente che si apre al mondo e che necessita di stimoli creativi idonei alla crescita psicologica. I giochi di allora erano però anche espressione del particolare periodo storico che i nostri padri avevano vissuto in prima persona, e che la nostra generazione sperimentava di rimbalzo. Ma non è necessario allontanarsi tanto indietro nel tempo per osservare scenari somiglianti, ancora più drammatici, devastanti e contorti per la mente umana, dove bambini imbracciano fucili veri e simulano la guerra non proprio solo per gioco.

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