Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2021 “Umanoidi e chitarre elettriche” di Sofia Ricci

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

I sensori disposti a raggiera sul soffitto registrano la mia presenza e le luci fredde si accendono all’istante, proiettando i loro riflessi bluastri sulle superfici smaltate del bagno. Lo scanner del water rileva un riempimento della vescica al 35% e la tavoletta comincia a scaldarsi. Ci appoggio sopra le cosce nude e la sensazione è gradevole. La manomissione del sistema riscaldante ha funzionato, adesso non sembra più di sedersi su un termosifone. Quando mi alzo, ai lati del grosso specchio affisso sopra il lavandino vengono visualizzati i valori delle mie urine. L’emoglobina è tornata sotto a 0,03 mg/l: la cistite è passata. Nella ciotola di ceramica del lavandino una macchietta scura si muove lenta. È un piccolo superstite alla strage di pesciolini d’argento perpetrata dal nuovo sistema di disinfestazione. Con movimenti lenti ma armoniosi, tenta di scalare la superficie curva e smaltata. Quando il sensore del rubinetto attiva il getto dell’acqua, quell’esserino fatto solo di squame a antenne comincia a muoversi in modo forsennato. Sarà istinto di sopravvivenza, ma a me sembra paura della morte imminente.

Mentre mi lavo le mani, dai microaltoparlanti installati ai quattro angoli di ogni stanza giunge la voce grave e monotona dello speaker del notiziario. Le news dell’ultima ora riguardano tutte una fabbrica di composti chimici rasa al suolo da un umanoide che, a quanto pare, ha mescolato per errore due sostanze altamente infiammabili. Un incidente dovuto a un’anomalia nello sviluppo cognitivo. Un caso ogni tre milioni, aggiunge la voce asettica dello speaker. Il fatto si è verificato durante la pausa di rifocillamento, mentre gli altri operai umanoidi si trovavano nell’area mensa. Nonostante questo, per motivi non ben specificati di sicurezza nazionale le autorità hanno ritenuto di procedere alla soppressione di tutti gli esemplari impiegati nello stabilimento.

Esco dal bagno e le applique del corridoio precedono i miei passi con la loro luce tenue fino alla camera da letto. Dopo tre settimane dall’innesto, la mia pancia ha le dimensioni tipiche di una gravidanza di sette mesi. L’essere che hanno inserito al suo interno mi schiaccia la vescica costringendomi a fare pipì ogni mezzora e usa il mio stomaco come un punching ball. Secondo Omar, l’operatore assegnato al mio caso, è normale. E in effetti lo scanner di monitoraggio della crescita installato sotto il mio materasso non segnala anomalie. Ieri è iniziata l’ultima fase di gestazione. Dovrò trascorrerla a riposo forzato perché questi cosi crescono un 60% in più rispetto a un feto normale, perciò i miei tessuti rischiano di cedere se non sto ferma. Sono già stata informata sulla procedura del parto. Mi taglieranno la pancia da parte a parte per farlo uscire e poi rimuoveranno l’utero, che dopo quattro settimane di questo supplizio si sarà così spanciato da essere irrecuperabile. È il servizio che noi donne senza figli rendiamo alla società. Il prezzo da pagare quando il rilevatore di fertilità impiantato nel nostro apparato riproduttore accende la lucina rossa. A molte succede intorno ai 40 anni ma in alcuni casi le allevatrici sono poco più che maggiorenni. L’unico modo per sottrarci al nostro dovere è concepire un figlio in modo naturale, perché gli umanoidi non si sviluppano in un utero usato.

Questa mattina l’essere non smette di muoversi. Mi tira la pelle e sembra disputare un incontro di boxe con le mie budella. Mi stendo sul letto disfatto e uso i comandi vocali per riprodurre una playlist di musica classica. Omar dice che aiuta a tenerli buoni. Dopo tre settimane di gestazione il loro corpo è già perfettamente sviluppato, per questo si agitano. Vorrebbero uscire, sgranchirsi le gambe, ma il loro cervello non è ancora pronto. L’ultima settimana serve a inibire lo sviluppo dell’intelligenza emotiva e a impartire le conoscenze necessarie allo svolgimento delle mansioni a cui sono destinati. La loro è una sorta di intelligenza artificiale sviluppata secondo processi naturali. Al momento della nascita saranno robot dotati di una genetica umana avanzata, incapaci di provare emozioni e dediti soltanto alla missione per cui sono stati progettati.

La musica classica non funziona, perciò interrompo la playlist. Se devo sopportare una settimana di torture fisiche, merito almeno di essere in buona una compagnia. Mi alzo dal letto e provo ad accucciarmi sul pavimento ma la pancia è troppo pesante e perdo l’equilibrio ritrovandomi stesa sul parquet. L’essere mi molla un calcio in pieno stomaco a mo’ di ringraziamento. Allungo un braccio sotto la rete attraversata da grovigli di cavi e tasto il pavimento finché la mia mano raggiunge la superficie liscia della valigetta in legno. Al suo interno, il vecchio giradischi del mio bisnonno ospita un vinile rigato dal tempo e dalle vicissitudini. Sorrido guardando le cinque facce in copertina: all’epoca gli uomini si tagliavano ancora i capelli a vicenda e i risultati erano quantomeno bizzarri. Il braccetto del giradischi compie un movimento esitante e la testina si poggia delicata sulla superficie del vinile. Dopo un breve sfregamento, partono le chitarre elettriche. Poi la voce del cantante comincia a raccontare di quella volta che a Montreux un pazzo sparò un razzo in un casinò, incendiando l’intero edificio. Non so cosa sia un casinò, ma le sue parole mi fanno tornare alla mente la vicenda dello stabilimento chimico di cui parlano i notiziari. A incuriosirmi non è tanto il fatto che un umanoide possa aver commesso un errore, ma che quell’essere abbia risparmiato la vita dei suoi compagni aspettando la pausa di rifocillamento per compiere quello che ha tutta l’aria di un attentato. Un gesto che, se eseguito in modo cosciente, lo renderebbe ben più umano delle autorità che hanno disposto la successiva soppressione dell’intera forza lavoro della fabbrica.

Mentre rifletto sulle implicazioni di quell’evento, passo una mano sulla rotondità della pancia. L’essere sembra essersi calmato. Mi viene da pensare che in questi giorni potrei avergli trasmesso qualcosa di mio. So che Omar direbbe che è impossibile, ma magari anche lui detesta la musica classica e prova un amore sviscerato per l’hard rock. Tutto sua mamma, direi se si trattasse di un bambino normale. Sento la pelle tirare da un lato in corrispondenza di una piccola protuberanza. Ci poggio sopra il palmo della mano e per la prima volta percepisco non solo la sua presenza, ma la sua esistenza dentro il mio corpo. La sua piccola mano e la mia si toccano, separate soltanto da un sottile strato di cellule e tessuti. Le sue dita si muovono delicate, come in una carezza. Penso al destino che lo attende e per la prima volta provo una fitta al cuore. Un altro schiavo della società. Tutto sua mamma.

Il monitor piazzato ai piedi del letto mi distoglie da quel pensiero con una serie di bip acuti e intermittenti. È ora di collegare gli elettrodi. È ora di sottoporre l’esserino alla dose giornaliera di impulsi elettromagnetici che inibiranno l’intelligenza emotiva e plasmeranno lo sviluppo cognitivo. La sua manina continua ad accarezzare delicata il mio utero. La seguo con i polpastrelli e ripenso all’umanoide che ha scelto di risparmiare i suoi compagni. Mi chiedo se ha provato paura mentre mescolava quelle due sostanze altamente infiammabili. Se sapeva che stava per morire. Se i suoi movimenti sono stati forsennati un attimo prima dell’esplosione, come quelli del pesciolino d’argento nel mio lavandino.

La frequenza dei bip si fa più rapida e il suono aumenta di volume. L’ultimo giro armonico della chitarra elettrica mi dà la forza di alzarmi dal pavimento. Svito il pannello posteriore del monitor e armeggio con i circuiti della scheda madre per bypassare il sistema di sicurezza. Il bip continua incessante a martellarmi le tempie ma almeno il messaggio di allarme di non raggiungerà la centrale operativa e Omar non potrà inviare una squadra di paramedici per sottopormi al ricovero forzato. Perché è questa la sorte delle allevatrici che non si attengono alla procedura.

Quando ho finito mi dirigo verso la cucina cingendo la pancia con un braccio per sostenerne meglio il peso. Sento l’esserino accovacciarsi sul lato in cui il mio avambraccio circonda l’utero. Una tenerezza improvvisa mi strazia il cuore. Nella mia testa rimbombano le parole di Omar che dice che è solo un insieme di cellule geneticamente avanzate, che non può provare emozioni né sentimenti.

So come funziona il parto, ho visto decine e decine di video durante il corso di preparazione. Conosco il punto esatto in cui il la lama deve recidere la carne per non rischiare di danneggiare l’esserino. Apro il cassetto della cucina e cerco il coltello che uso per sminuzzare le verdure. È piccolo e molto affilato, quasi come un bisturi. Attraverso di nuovo il corridoio preceduta dalle applique che si accendono al ritmo forsennato dei miei passi e varco la soglia del bagno. Con una mano sostengo la pancia, con l’altra il coltello. La luce si accende proiettando i suoi riflessi bluastri sulla superficie immacolata della vasca. Mi sfilo la camicia da notte e mi ci stendo dentro, con le ginocchia piegate. Un brivido mi scuote la schiena a contatto con la ceramica smaltata.

Accarezzo la pancia un’ultima volta e mi sembra di sentire il cuore dell’esserino battere forte per l’emozione. Faccio un respiro profondo e mi sforzo di placare il tremore della mano. La lama recide la pancia da parte a parte senza dolore. Il sangue caldo scivola lento sulla pelle che si ritira afflosciandosi. L’esserino tira fuori le braccia minute e afferra le mie creste iliache per aiutarsi a emergere. I sensori biometrici della vasca rilevano la fuoriuscita del sangue e inviano un messaggio di allarme. I paramedici saranno qui in questione di minuti. Mi salveranno la vita o mi lasceranno morire dissanguata. Non so quale sia la pena prevista per il mio atto di ribellione. In ogni caso, la condanna a morte non avverrà per soppressione. L’esserino balza fuori dalla vasca con un movimento rapido. Un istante prima di perdere i sensi lo vedo voltarsi verso di me. Rimane lì a fissarmi con i suoi occhi grandi e a me sembra che quegli occhi siano pieni d’amore.

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