Premio Racconti nella Rete 2021 “Una scossa di emozioni” di Grazia Maria Zenzola
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021Cosa pensa la gente quando passa davanti ad una porta chiusa? La maggior parte di essa tira dritto senza neanche farci caso ma non si può escludere che qualcuno si fermi a pensare che potrebbe bussare a quella porta per farsi aprire.
Se non fossi ostacolato dalla mia patologia, mi deciderei forse a leggervi due righe di questo racconto ma, siccome passo dalla sdraio alle persiane tutto il giorno, vi chiedo di riflettere un istante su quanto sto per dire. Preferisco scrivere quello che dico piuttosto che raccontare quello che penso. Non è facile per chi come me vive il disagio della propria condizione.
Proprio oggi mi sono fermato sulla soglia della finestra che dà sulla strada. Ho preso, come faccio di solito, il registratore e ho cominciato a parlare. Di fronte a me una fila di alberelli dal fogliame quasi assente finge di mettersi all’ascolto e si lascia trasportare dal vento in un movimento che si atteggia ad un classico: “sì, sì, no… oddio, mi stai facendo cadere le foglie”.
E’ il mese di novembre, che depressione! Anche se io sono nell’aridità della mia condizione anche in tutti gli altri mesi. Ho provato in passato a cercare un’alternativa o, meglio, una soluzione al triste andamento della mia esistenza ma tutti gli sforzi mi portavano sempre allo stesso punto di partenza, tanto che ho risolto la questione dicendomi che quello era l’unico punto nel quale avrei potuto trovare il mio equilibrio. Ma c’è sempre un’altra verità e spesso è proprio quella che non si vuole ammettere.
E, in parte, io vivo così… senza spostarmi ormai da tanti e troppi anni. “Michele, vieni! Sta per uscire… si vedono le persone.” Così mia madre mi invitava ai funerali, ai matrimoni, a tutti gli avvenimenti che succedevano agli altri nella strada dove abitavamo. Per anni, mi sono aggiustato gli occhi in modo che centrassero la fessura della persiana per distinguere volti, vestiti, emozioni, comportamenti di quelli che vivevano o transitavano vicino al nostro sottano. E, quando la storia di qualcuno non si svolgeva al piano della strada ma a qualche piano superiore, si spostava l’ultima stecca della persiana stessa, in modo che lo sguardo potesse alzarsi in direzione dell’accadimento. Ma mai che uscissimo allo scoperto per partecipare ai fatti narrati dalla gente.
“Che belle scarpe teneva oggi Melina.. da quando si è messa con quello, come cambia la vita…” – mia madre era solita ripetere questo ritornello tutte le volte in cui vedeva il mondo e si rendeva conto dell’arretratezza in cui c’eravamo sistemati e non agiva per superarla, anzi! Era contenta di quello spazio di tempo e di luogo che il destino ci aveva favorito. Ma io non accettavo quella condizione e mi ritrovavo dietro le persiane a catturare i momenti di vita del paese.
Mi sono trovato coinvolto in litigi, tradimenti, storie d’amore… tutto quello che si appoggiava alla nostra porta-persiana chiusa aveva come testimoni volontari le mie orecchie e i miei occhi che, in quel momento, si riposavano sulla sdraio ma… dall’altra parte della porta. In certi momenti, avrei voluto uscire per sedare gli animi ma l’eccezionalità della mia condizione mi rendeva faticoso l’intervento. Altre volte, me ne stavo accucciato vicino al basamento a sentire l’odore dei fiori nei primi momenti della loro fioritura. Così ho scoperto un mondo diverso da quello che conoscevo e mi sono trovato a pensare che forse poteva essere possibile anche per noi un mondo più umano da quello che vivevamo da sempre. L’illusione non è mai una cosa buona, considerato che ci costringe a vedere la realtà in modo forzato e a desiderarne una in tutto e per tutto aderente al nostro pensiero. Però ci potrebbe tornare utile in momenti particolari, quando ci occorre quella spinta ulteriore per fendere le nostre sicurezze e correre verso l’ignoto. E così un giorno, anzi una notte, un suono indistinto finisce nel nostro minilocale a distrarci dal sonno. Io e mia madre eravamo soliti andare a dormire subito dopo la cena, in modo da non consumare troppa luce oppure rimanevamo alzati qualche minuto in più nelle feste di paese quando l’illuminazione comunale era così estesa e accesa da penetrare agevolmente nelle assi della porta ma… quella notte si presentava già diversa dalle altre.
Non abitavamo in un luogo pericoloso, tutt’altro. Nel paese si conoscevano tutti, mia madre era la madre di tutti i bambini del paese. Non ci poteva essere pericolo in quel tratto di strada che delimitava le nostre vite. Il progresso non ci aveva mai raggiunti o, meglio, non c’eravamo fatti travolgere da costui, ritenendolo troppo invadente e distruttivo. Ma non tutti i pericoli potevano essere portati dal progresso. Ve ne sono alcuni che stazionano nelle nostre menti e convincono la nostra coscienza a costruire muri e pareti anche laddove non ve ne sia realmente bisogno e permangono fino a quando questi muri non crollano nel buio e nell’assenza della propria convinzione.
Non mi ero mai mosso da quel locale alla strada dove mia madre mi aveva portato fin da bambino, subito dopo aver saputo della irreversibilità della mia condizione. Lo aveva attrezzato come avevo potuto e saputo, con una bella sdraio e quelle persiane che favorivano l’ingresso della luce e consentivano di sbirciare con discrezione il flusso inevitabile della vita fuori di lì. A causa della continua assistenza che mi portava non le era stato possibile continuare il lavoro in fabbrica e aveva deciso di chiudere anche il lavoro nelle pareti che ormai proteggevano le nostre vite. Così aveva continuato a cucire gli abiti eleganti delle signore di città e a rattoppare gli stracci dei contadini che invece popolavano quel paese lontano dal mondo. Io la guardavo e mi piaceva come muoveva a ritmo le mani mentre scorreva i diversi tessuti sotto la macchina da cucire. E mentre cuciva mi raccontava le storie che sapeva o che si inventava al momento, in alternativa e in aggiunta a quelle che solitamente rubavamo da dietro le persiane. Il paese chiedeva di me, senza però mai andare oltre le risposte che mia madre aveva già programmato da tempo. E mentre passava il tempo, venivano sempre a tirare due calci al pallone davanti alla nostra porta-persiana i ragazzini, figli dei ragazzini che qualche anno prima giocavano a calcio, e vedevo davanti a me la gente del posto ringiovanire…
Un suono indistinto era penetrato nel silenzio della stanza e ci aveva svegliati di soprassalto. Era notte fonda e di lontano cominciavano a sentirsi gli echi della gente che era scesa in strada. Mia madre infilò la prima cosa che le venne in mano e uscì in strada, curandosi di chiudersi dietro le persiane. Mi alzai anch’io e mi posizionai dietro la porta per cercare di capire. Dalle persiane semiaperte non si riusciva a vedere, orientai le stesse in modo da guardare di fronte, ai piani superiori, ma era scuro e s’intravvedevano solo le sagome della gente del paese che correva e gridava spaventata. Cominciai a pensare di uscire per andare a cercare mia madre ma le bende che avevo sistemato la sera prima sulle ferite aperte si erano allentate e avevano lasciato scoperto il viso.“Una scossa, è stata solo una scossa… niente di più…” – i primi commenti arrivavano da quanti passavano velocemente davanti al nostro sottano. La gente era scesa in strada per paura e commentava a caldo quello che era successo e il da farsi. Mia madre non era ancora rientrata e il viso cominciava a bruciarmi. Seguivo le vicende da dietro le persiane, considerando anche la possibilità di un’altra scossa che avrebbe potuto coinvolgermi in casa. Non volevo lasciare quelle notizie viventi, le uniche cui potevo riferirmi, ma il viso scoperto era pericoloso almeno quanto la scossa e così cominciai a fasciarmi nuovamente con le stesse bende della sera precedente. La situazione fuori era ancora concitata ma sotto controllo. Dentro invece lo stesso suono indistinto aveva aperto una crepa nel soffitto e fatto cadere la brocca dell’acqua. Dallo spavento, d’istinto mi portai alle persiane per uscire ma il peso della mia condizione mi paralizzava. Non è facile uscire allo scoperto dopo anni di clausura forzata nel luogo da cui ora tenti di uscire. Ti sembra di tradirlo, sembra di non aver fatto abbastanza per proteggerlo… sembra di non portare abbastanza riconoscenza a quei muri che ti hanno protetto per lunghi anni dallo sguardo curioso della gente, che si interrogava sul perché fossi sempre chiuso in casa.
“Il fiume, il fiume! Scappiamo!” – nuovi commenti dei paesani spaventati.
Se fosse straripato il fiume, non avrei avuto scampo nel sottano. Aprii istintivamente le persiane, con tutte le bende che mi cadevano sul collo, e corsi anch’io dietro la folla. Una signora si ferma a guardarmi ma è solo un attimo e riprende poco dopo la corsa. Anch’io tento di stare al passo.. sono anni che non cammino più di cinque metri di fila, sono anni che non faccio movimento, se non quello che mi porta a girare intorno al tavolo per raggiungere le persiane e il mondo. E’ un momento d’azione, sono disorientato ma anche stupito perchè questo momento l’ho sempre sperato.. magari non me lo sarei aspettato così catastrofico anche se, a ben guardare, il fiume non si vedeva e a governarci era solo la paura che ci avevano messo in corpo quei primi commenti in strada. In realtà fu proprio così.. non accade nulla di quanto si era predetto, il fiume non straripò e le case si mantennero in piedi come lo erano sempre state, da decenni ormai. Io mi trovai su un terrazzino, appena qualche metro sopra il livello della strada, in compagnia di altre persone che non badavano assolutamente alla mia condizione ma alla propria. Si chiedevano vicendevolmente lo stato di salute, i bambini chiamavano i genitori, qualcuno si guardava intorno per recuperare i familiari… ma per me era una musica sentire tanta agitazione che si andava quietando man mano che spuntava l’alba dietro il monte. Le mani portate al volto, ormai sgombro da qualsiasi bendaggio, carezzavano una persona nuova, nata dalle rovine di un terremoto che nel nuovo giorno nessuno commentava più ma che aveva scosso l’abitudine di una comunità che andava conoscendo ogni singolo membro nella sua particolarità.
Sono passati anni da quel giorno e vivo ancora in quel sottano. Alle volte mi chiedo se sia venuto veramente giù il costone della montagna a seppellire il paese accanto o se non sono state le dicerie del popolo a svuotare il paese delle sue risorse migliori. Alle volte non so come la convinzione di una cosa si radichi nella nostra coscienza, rendendo difficile il cambiamento. Per quanto mi riguarda, da quel giorno non porto più le bende e ho aperto le persiane… qualcuno si ferma a parlare, qualcun altro tira dritto, altri si fermano curiosi, gli alberi continuano a partecipare ai miei discorsi col loro scarso fogliame… e poi quel giorno, torno a quel giorno… in alcuni momenti, sento ancora quella musica fatta di agitazione e speranza, di realtà e fantasia che mi ha portato a desiderare di vivere un’altra vita e di averlo fatto, insieme agli altri, seppur per un breve istante… la gioia che possa ricapitarmi una nuova scossa è sempre dietro l’angolo, sono rimasto apposta in questo paese lontano dal mondo.