Premio Racconti nella Rete 2021 “Il male di vivere” di Donatella Rosselli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021Jessica ha quindici anni, quasi sedici e frequenta la seconda superiore. E’ minuta, i capelli mesciati biondo cenere, gli occhi di un bel verde acqua. Fino all’anno scorso ha portato l’apparecchio ai denti, quello fisso, che la faceva sembrare ancor più bambina ogni volta che sorrideva. E sorride molto, specialmente quando è in imbarazzo o non trova la risposta alla domanda che le rivolgi. Viene da un piccolo paese, novecento anime appena, dove si conoscono tutti. Una ragazzina come tante, con una vita apparentemente normale, fatta di sogni, di amici, di foto su Instagram, di corriere strapiene prese la mattina alle sette per andare a scuola, con gli occhi ancora incollati di sonno e le cuffiette con la musica a palla. Apparentemente.
Jessica inizia a fare diverse assenze. Strano, è sempre stata una ragazza puntuale e diligente. Fa sempre i compiti, raramente rischia un impreparato a un’interrogazione. E poi ha una grande passione, la cucina, ha un’ottima abilità manuale. Da grande vorrebbe diventare uno chef, aprire un ristorante tutto suo, me lo ha anche scritto in un tema. Chiedo alle compagne il perché di quelle assenze ripetute. “Sta male. Sviene” mi rispondono lapidarie. Vengo a sapere che è stata ricoverata per accertamenti. Mi auguro che non sia niente di grave, ma i giorni passano.
Una mattina si ripresenta a scuola. E’ pallida, si è anche depilata le sopracciglia e sembra ancora più emaciata, il viso affilato che spunta da sotto i capelli oramai di un colore indefinito. La accompagna la madre. Ma è lei che parla. Un filo di voce ferma.
“Professoressa, devo essere ricoverata un’altra volta. Non posso venire a scuola in questo periodo. Mi boccerete?”
“Ma no, pensa a stare bene”.
“Dicono che sono anoressica, perché appena mangio vomito tutto. Devo andare dallo psichiatra”. La madre, una donna dall’aspetto modesto, col viso allungato come quello della figlia, annuisce e non parla.
“Non ti preoccupare per la scuola Jessica. Vorrà dire che poi recupererai. Pensa a te, alla tua salute, vedrai che starai meglio”, cerco di rassicurarla
“Va bene, grazie professore’ ”, e sfodera uno dei suoi timidi sorrisi. Se ne vanno.
Sono passate due settimane. Un martedì vado in classe, a quarta ora, dopo la ricreazione. Jessica è là, tra le sue compagne, fila di banchi sotto alle finestre.
“Buongiorno, bentornata Jessica. Come stai?”
“Bene!”. Sorriso. Mi chiede di recuperare un compito in classe. Le porgo il foglietto con le tracce dei temi. Si avvia al suo posto. Piega il foglio protocollo nel senso della lunghezza e ci scrive nome, classe e data. Cinque minuti dopo la vedo sbiancare. “Professore’, Jessica non sta bene!”. Ha bisogno di aria. Valentina, la compagna di banco, la sorregge mentre lei si volta verso la finestra. Non c’è tempo. Prendo una sedia e gliela allungo sotto. Si accascia e perde i sensi. Federico, Alberto e Armando mi aiutano a stenderla a terra. Le solleviamo le gambe. Ha gli occhi chiusi, una specie di tremito la percorre tutta. “E’ già successo pure stamattina professore’ – mi dicono – all’ora di inglese”. Le spruzzano dell’acqua sul viso. A fatica Jessica si riprende. Non possiamo spostarla dall’aula, non ce la fa ad alzarsi. Mando qualcuno a chiamare aiuto. La bidella telefona al 118. I portantini entrano in classe, la caricano su una barella e la accompagnano in ambulanza al Pronto Soccorso.
Giorni dopo domando alle amiche notizie di Jessica. “E’ in ospedale, a Roma. L’hanno mandata là perché qui non ci capiscono niente” mi riferisce Valentina, che oltre ad esserne compagna di banco è anche l’amica del cuore di Jessica. Pochi giorni dopo vengo a sapere dai ragazzi che Jessica è ricoverata al Regina Elena. L’ospedale oncologico.
“Ha una ciste, o forse peggio, non so, è in testa…deve essere operata…” Valentina piange silenziosamente per tutta la mattinata, accucciata al banco che divideva con l’amica e che ora occupa da sola. Anche gli altri sono sconvolti. Jessica sta male, ma non capiamo che cosa le stia realmente accadendo. La privacy, la maledetta privacy ci impedisce di chiedere, di sapere, di andare oltre, di comprendere le condizioni reali di quella ragazza fragile e gentile.
“Professore’ , Jessica non deve più essere operata! Sta meglio!” Ascolto incredula e sollevata Valentina e Manuela che mi aggiornano sulle condizioni della compagna. Siamo vicini alle vacanze di Pasqua e lei le trascorrerà in ospedale. Forse è in terapia con qualche farmaco…o forse è inoperabile, ma questo dubbio me lo tengo per me.
Finalmente Jessica torna a scuola. E’ un po’ provata, il viso diafano, il sorriso sempre più timido. Ma sviene. Tutti i giorni. Una, due, tre, a volte quattro volte in un’ora. “Dev’essere epilessia, dopo si irrigidisce, le gambe sembrano due ciocchi…” chiosa una collega che assiste ad una delle crisi. Sarà il cervello, quella ciste, o peggio…
Col suo ritorno, che abbiamo tanto desiderato, cominciano però i guai anche per noi. E se perdendo i sensi dovesse battere la testa? Se la crisi si protrae e non si riprende? Per tutelare lei ma anche noi siamo obbligati a chiamare ogni volta il 118. Ma Jessica no, non vuole. E’ la dottoressa, dice, la psicologa che l’ha in cura, ad insistere perché frequenti la scuola il più regolarmente possibile. Perché faccia una vita normale, come tutte le altre ragazze. Ci prega di non chiamare il 118, lei in ospedale non ci vuole andare più, c’è stata già tante volte. Tanto non le fanno niente, la visitano e poi la rimandano a casa così come ci è arrivata. La sua famiglia sa benissimo delle sue crisi, lei non vuole che stiano in ansia per lei… Già, la sua famiglia… Ripenso alla madre di Jessica, così silenziosa e assorta, mentre la figlia quel giorno parlava al posto suo…
Quando avverte che la crisi si sta avvicinando, Jessica vuole accanto a sé i suoi compagni. Le prime volte si vergognava. Adesso li cerca. In particolare Damiano, un ragazzetto con gli occhiali, magrolino e sveglio. Un giocherellone che però sa anche essere molto serio. Lui ha imparato a sorreggerla, a distenderla sul tappetino che ci siamo procurati in palestra, a risvegliarla spruzzandole in viso l’acqua di una bottiglietta. A rassicurarla quando si “sveglia”. A starle accanto mentre cerca di riprendere le forze e la sicurezza per riprendere a vivere. Già, perché Jessica è come se smettesse di vivere, per un interminabile attimo…
A nome di tutti i colleghi del consiglio di classe, decido di chiedere un colloquio con la psicologa che segue la ragazza. Dobbiamo sapere come comportarci. Abbiamo bisogno anche noi di essere rassicurati sulle sue reali condizioni.
“Jessica sta benissimo, è sana come un pesce” esordisce. Trasecolo. E la ciste? E i guai al cervello? “Niente di tutto questo. E’ sana, si è trattato di una diagnosi frettolosa… Guardi che conosco bene la situazione, sono in contatto con la neurologa che segue la ragazza a Roma. Potete stare tranquilli”. Sollievo. Ma allora le crisi? Questi svenimenti continui, questa vita che non è vita…?
Scopro che nella testa di Jessica c’è effettivamente una ciste. Un grumo infido composto da tante cose. Da un padre alcolizzato che non lavora e che chiede continuamente soldi alla moglie. Dalla separazione drammatica tra i suoi genitori. Da una madre insicura e incapace di gestire la situazione, che è costretta a lavorare di notte e a dormire di giorno, e che la ricatta con le sue ansie e con i problemi che le riversa addosso senza tregua. Dal desiderio di una ragazza di sedici anni di fare una vita normale, vedere i suoi amici, uscire con il suo ragazzo, andare a scuola senza l’incubo della sua quotidianità angosciosa. Soprattutto avere una famiglia normale, che la ascolti, che le dia sostegno nella sua vita di adolescente semplice e riservata.
“Jessica ci sta semplicemente chiedendo aiuto – spiega la dottoressa – e noi dobbiamo sostenerla. Se pensate di non essere in grado di fronteggiare le sue richieste, chiamate pure il 118. Ma per imparare a dominarsi e a vincere le crisi, lei deve venire a scuola”. E Jessica a scuola vuole venirci, sul serio. Anche se sua madre glielo vorrebbe impedire, perché poi si preoccupa, sta in ansia: “Vuoi farmi stare male? Vuoi che stia tutto il giorno preoccupata per te?”. Un ricatto affettivo a cui la figlia non vuole sottostare. Deve dimostrare a se stessa di farcela. Nonostante le crisi, vuole recuperare tutte le materie. Si fa interrogare. Fa i compiti in classe che non ha potuto svolgere mentre era ricoverata.
Un lunedì mattina di maggio è successo di nuovo. Prime due ore di italiano, leggiamo una poesia di Montale, ultimo autore del programma di quest’anno. La ragazza comincia a sbiancare, chiede di andare in bagno. “Ce la fai?” le chiedo, cercando di non mostrarmi troppo invadente. “Certo!” risponde, ma non mi convince. Chiedo a Marika di seguirla. Dopo due minuti la bidella mi viene a chiamare. Trovo Jessica accovacciata a terra in una rientranza della parete. Le manca l’aria. “Damiano, chiami Damiano!”. Damiano arriva, anche se è il bagno delle ragazze, ma per fortuna a quell’ora è deserto. “Voglio rientrare in classe”. Damiano ed io la sorreggiamo per i pochi passi che ci separano dall’aula. La facciamo sedere. Mi confida che a colazione non ha mangiato niente e che ha ripreso a vomitare dopo ogni pasto. Man mano sente che le mancano le forze. Sviene. Damiano ed io la adagiamo sul tappetino che Marika ha preparato. Gli altri fanno spazio. Pochi, interminabili secondi e si riprende. “Rimani sdraiata, finché non ti senti sicura”. Ormai sappiamo come gestire le sue crisi. Lei può sentirsi male e non c’è niente di cui vergognarsi. E’ tra amici, tra persone che le vogliono bene. Questo lei lo sa.
“Professore’ , dai, riprendiamo la lezione. Tanto ormai…”. Damiano e Marika sono accanto a Jessica, le parlano con calma, la rassicurano. Va bene, riprendiamo. Chiedo a Sara di leggere. Montale. “Meriggiare pallido e assorto / presso un rovente muro d’orto…” “Jessica…, Jessica…” è Damiano. Jessica ha un’altra crisi. Non importa. Continuiamo. So di rischiare, rischiare molto: mi sto assumendo tutte le responsabilità di quel che può accadere. E se peggiora? E se non si riprende? E se… Non importa. E’ lei che me lo ha chiesto: la normalità, un’assurda normalità… “ascoltare tra i pruni e gli sterpi / schiocchi di merli, frusci di serpi”… Si è ripresa, fortunatamente è durato pochissimo… “E andando nel sole che abbaglia / sentire con triste meraviglia / com’è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia…” Dovrei spiegare ai miei alunni il significato di quello che abbiamo appena letto, il male di vivere… il correlativo oggettivo… gli oggetti-emblema che il poeta ci pone davanti agli occhi per esprimere il disagio dell’esistenza… i pruni, gli sterpi, i calvi picchi inondati dal frinire monotono delle cicale, la luce che abbaglia… la costa ligure, “così scabra ed essenziale”, come recitano tutti i testi di critica montaliana. Ma mi rendo conto che sarebbero parole inutili. Perché in questo momento loro, il male di vivere, ce l’hanno davanti. E’ Jessica il loro vero, reale correlativo oggettivo… Intanto lei si è seduta sul tappetino, la testa vuota, il viso pallido. Vuole mangiare, le hanno comprato un kinder Delice e Marika le ha preso due bustine di zucchero. Trangugia tutto con avidità, affamata. Aspetta ancora qualche minuto, poi si fa aiutare a rialzarsi e si siede di nuovo al suo posto. La vita, nonostante tutto, può continuare.
Molto toccante. Complimenti
Commovente. Brava.
Grazie…