Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2021 “Luigi Carolis” di Giulia Quinzi

Categoria: In Concorso, Premio Racconti nella Rete 2021

Passeggiavamo lungo via Toledo, quella che dai quartieri Spagnoli, a nord, conduce fino a piazza del Plebiscito, aprendosi imponente tra il palazzo reale ed il colonnato della basilica di san Francesco Paola.

Via Toledo è un corso elegante, è arioso e profumato; l’odore di salsedine che sale dal mare si mischia a quello di fritto proveniente dalle pizzerie, dai ristoranti, dalle varie friggitorie e rosticcerie disseminate sulla strada; crea un’atmosfera incantevole che sa di Mediterraneo.

Dal giornale mi era stato domandato di scendere nel capoluogo campano a intervistare Luigi Carolis, un giovane scrittore partenopeo che di recente aveva pubblicato il suo primo romanzo di successo, per cui il suo nome nell’ambiente letterario e soprattutto tra le nuove leve era sulla bocca di tutti, e da tutti era acclamato come un astro nascente.

Per conto mio, c’era qualcosa del Carolis personaggio-scrittore che non mi convinceva del tutto, qualcosa che non sarei riuscita a comprendere o che forse ancora mi sfuggiva; ero perciò un po’ scettica a realizzare l’intervista, poco persuasa del pezzo che ne sarebbe venuto fuori, ma dal momento che la trasferta era tutta spesata, e io non facevo ritorno a Napoli da ormai molto tempo, decisi comunque di accettare.

Con Luigi, che pur frequentando l’ambiente non mi era ancora mai capitato di conoscere direttamente, ci accordammo per vederci davanti alla chiesa di Santa Maria Francesca delle cinque piaghe per poi cominciare a scendere insieme in direzione del mare.

Arrivata in orario all’appuntamento, Luigi sembrava che mi stesse attendendo già da un po’. Aveva lo sguardo rivolto verso l’alto, perso tra i piani superiori delle facciate che si affacciano per i vicoli stretti e sgangherati del rione.

Non aveva l’aria di essere spazientito, solo sembrava trovarsi lì già da diverso tempo, perché scrutava immerso quei palazzi con l’aria di averne ormai memorizzato l’assetto estetico, e con gli occhi si vedeva che continuava a percorrerne i contorni in su e in giù, soffermandosi sui dettagli per poi filare via veloce con lo sguardo lungo le linee più essenziali.

«salve» dissi, «sono qui per l’intervista» e Luigi per tutta risposta abbassò solo un secondo gli occhi per permettermi di rientrare, appena un istante, all’interno del suo campo visivo. Poi non mi guardò più.

«andiamo da questa parte» mi disse, e decisi di assecondarlo per predisporlo al meglio a tutto ciò che ci saremmo detti ? mi avevano ben avvisato di cercare di non contraddirlo ? anche se io quelle strade le avevo già da tempo tracciate dentro di me.

Luigi era un ragazzo minuto, non molto alto e piuttosto sottile. Portava degli occhialetti che continuavano a scivolare lungo il naso aquilino. Lui spessissimo attraverso un gesto rapido, quasi fosse un vizio e senz’altro una specie di vezzo, con due dita li rispingeva verso l’alto.

Sembrava avere nei confronti della realtà un approccio fenomenico e del tutto spontaneo. Decisamente impulsivo. Del mondo Luigi non vedeva le cose, vedeva i colori e i suoni delle cose, a volte, forse, persino i sapori.

I suoi occhi, che io continuavo a sbirciare mentre camminavamo l’uno affianco all’altra, vedevo che guizzavano velocissimi da una parte all’altra, praticamente mai soffermandosi, ma sempre saltando qua e là, attratti prima da un dettaglio e poi dall’altro. Erano famelici, e impossibili da saziare.

Per il resto, con le persone, che non sembravano interessargli poi molto, era decisamente scorbutico.

Ascoltava poco ciò che gli veniva detto. Ancora meno ci teneva a rispondere. Poi ogni tanto si lanciava entusiasta in alcune riflessioni decisamente pindariche, come campate per aria, che chissà quale filo logico avevano dipanato all’interno della sua testa prima che lui decidesse di condividerle.

«Napoli è una città morta» mi disse mentre fiancheggiavamo galleria Vittorio Emanuele. «è il simulacro anchilosato e calcareo di se stessa. E il guaio è che forse è stata sempre e solamente questo. Napoli è una città di macchiette, è un teatro di maschere. Lei non trova?»

«no io non trovo, a me sembra tutt’altro che irrigidita».

Un’espressione di insoddisfatto cipiglio si dipinse sul suo volto.

«Voi giovani, guardate solo l’aspetto superficiale e retinico delle cose. Siete per la scienza, volete il sole. Non è così che si conoscono le cose.

La grotta è sempre stata un topos ingiustamente svalutato; eppure la disapprovazione epistemologica con cui è stata stigmatizzata nasconde una paura profonda del buio e dell’inconscio, quell’attrazione fatale che tutti nutriamo per la morte.

Io voglio essere l’accolito di questo terrore che secondo me ha così a che fare con la poesia e con la nebbia; voglio celebrare il mal tempo in un mondo in cui tutti vogliono abbronzarsi e indossare occhiali da sole».

Era chiaro che nella sua testa aveva preparato già da tempo la parte che desiderava impersonare per la mia intervista.

L’aveva studiata nei minimi particolari, con la volontà di costruire un personaggio aspro, borioso, antipatico. Era interessato a dare un’immagine di sé del tutto respingente, come di un letterato pedante, con il quale non si prova il minimo piacere a conversare.

Pronunciava queste frasi in modo monotono e meccanico, senza la minima convinzione, e intanto continuava a viaggiare con gli occhietti dappertutto, riuscendo a portare avanti contemporanee e indipendenti le due occupazioni.

Non ero disposta a lasciargliela vinta.

«Luigi io e lei abbiamo la stessa età…» provai a fargli notare.

Ma naturalmente non stava ascoltando ciò che provavo a dirgli.

Passeggiavamo lungo via Toledo, quella che dai quartieri Spagnoli, a nord, conduce fino a piazza del Plebiscito, e lui mandava avanti un soliloquio a sè stante.

Mi parlò della madre, del suo concetto di comunismo, della sua casa in costiera e dell’orientalismo come corrente culturale.

Ne avevo, al momento, davvero una pessima impressione; confermava tutti i miei sospetti sul fatto che avesse qualcosa da nascondere, per lasciare in pasto al mondo solo un’immagine squisitamente stereotipata, rispondente a ciò che lui credeva che il mondo desiderasse in fondo conoscere.

 Mi chiesi anche se questo non fosse un modo che aveva lui per proteggersi.

Mi chiedi cos’era degli altri a spaventarlo tanto intimamente.

Mi chiesi chi era Luigi, quello che nessuno era riuscito a vedere.

Continuò a torturarmi con il suo snocciolare insopportabile fino a che non arrivammo davanti al bar Gambrinus.

Lì finalmente si interruppe e mi chiese gentile se avessi voglia di prendere un gelato.

«Volentieri, ma solo se mi permette di offrirglielo, è tempo di superare questi retaggi patriarcali. E poi , paga il giornale».

Mentre ordinava una coppetta al cioccolato fondente, e io già leccavo il mio cucchiaino pieno di panna, mi scoprii di nuovo a sbirciare il suo volto e questa volta lo vidi sorridere.

Davanti al palazzo reale, proprio mentre stava per cominciare a sciorinare nuovamente qualche maledetto concetto sulla società di massa, decisi che era arrivato il momento di arginare questa recita.

Il sole tramontava al di là di piazza del Plebiscito, e l’arancione caldo del cielo mi rese sfacciata.

«Basta con questo vaniloquio Luigi, direi che ha già divagato a sufficienza. Perché non inizia a parlarmi un po’ di sé o di Ossa? In fondo è perché mi raccontasse del suo romanzo che sono venuta fino a qui. Dovrò pur scrivere qualcosa di concreto nell’intervista.»

Per un istante lo vidi paralizzarsi. Per qualche momento, essendo arrossito, smise del tutto di parlare.

Poi, sempre evitando accuratamente di guardarmi, come mosso da una reticenza più profonda della sola timidezza, si accostò al muretto che avevamo di fianco, tirò su ancora una volta gli occhiali che erano nuovamente scivolati lungo il suo naso, e mi disse:

«Sa quando ho capito che volevo fare lo scrittore? Quando la prima casa editrice a cui proposi il mio romanzo lo rifiutò. “È tremendo”, mi dissero.

Allora decisi di prendere le cose sul serio».

Era inutile fargli notare che se aveva già scritto un romanzo, di voler essere scrittore lo doveva aver capito ormai da un po’.

«Cosa ha fatto allora? Lo ha proposto a qualcun altro?»

«No» disse. «Ho fatto quello che c’era da fare. L’ho fatto a pezzi e ho ricominciato da capo. Sapevo anche io che quella prima stesura era terribile».

Con il mare che accompagnava la sua voce, quelle sue parole, così dure e severe, suonarono stranamente dolci. Mi guardò di nuovo, dopo tutte quelle ore che avevamo passato insieme, e io finsi di non far caso ai suoi occhi che avevano preso a luccicare.

«Anche lei scrive?»

«Per ora solo articoli. Magari un giorno, quando troverò il coraggio…»

«Come mai pensa che sia questione di coraggio?»

«Perché non voglio concedere troppa importanza alla bravura. Altrimenti sarei fregata».

Sono passati ormai molti anni da quella intervista.

Luigi ha scritto molti altri romanzi di successo e anche io sono riuscita a pubblicare una raccolta di racconti. Parla di Napoli e di tutti noi napoletani.

Sono passati davvero tanti anni.

Luigi è morto.

Si era unito alle Brigate Rosse negli anni Settanta, e per errore è rimasto ucciso durante l’attentato di Padova.

C’è sempre stato un lato di lui che io, che nessuno è mai riuscito a scrutare, un lato oscuro, una vena irrequieta e irrimediabilmente anarchica.

Il suo coinvolgimento con il terrorismo di estrema sinistra ha per un po’ adombrato la sua fama. È stato giustamente al centro di un’ondata di biasimo legata a tutto il dolore che è venuto fuori dagli anni di piombo.

Poi è stato lentamente riabilitato. La memoria pubblica ha poco spessore.

O forse è troppo indulgente. Io di certo lo sono di meno.

Io ho scritto una raccolta di racconti, che è stata pubblicata e ha vinto anche qualche premio. Parla di Napoli. Parla di me e di Luigi.

Non mi sento una scrittrice. Non sono riuscita nemmeno, per tutti gli anni che siamo stati amici, a completare mai la mia intervista.

Quel giorno in cui ci siamo incontrati, dopo che il sole era tramontato a piazza del Plebiscito, io e Luigi continuammo a passeggiare insieme per le vie di Napoli fino all’alba.

Io rinunciai a fargli le mie domande. Lui smise con la sua recita.

Camminavamo vicini e lui diventò d’un tratto spontaneo. Mi parlò dell’infanzia al rione, dividemmo una pizza fritta, mi cantò per scherzo una serenata napoletana.

Provai a farlo ridere parlandogli degli altri scrittori che conoscevo a Roma. Solo a lui fui capace di rivelare quanto mi mancava Napoli.

Con il suo profilo delicato, e quelle labbra sottili e fiere, era affascinante. Non era timido; tantomeno antipatico.

«Dovresti iniziare a scrivere Anna» mi disse prima di salutarci. «Hai tante cose da raccontare».

Poi si avvicinò e mi scoccò un bacio sulla guancia.

«Grazie per questa nottata fantastica. Era molto tempo che non mi sentivo così.»

Ho scritto un libro e parla di Luigi. Di tutto ciò che ci siamo detti in quegli anni. Del suo modo di vedere la realtà.

Di quelle nottate passate a parlare davanti al mare, rivelandogli i miei sogni, condividendo con lui una pizza.

Solo una domanda mi resta che avrei sempre voluto fargli:

Si può essere innamorati se non si ha la consapevolezza di esserlo?

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