Premio Racconti nella Rete 2021 “Io sono lei” di Alexandro Lupis
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021Elena spalancò la vetrata panoramica che affacciava sul prato. Uno sbuffo d’aria fresca le si insinuò nelle narici riempiendole i polmoni.
Uscì percorrendo il vialetto ciottolato fino al capanno. La porta si spalancò lamentandosi. Tastò la parete in mattoni alla ricerca dell’interruttore e lo premette. La luce del neon illuminò pigramente gli attrezzi che il padre utilizzava per il giardinaggio, perfettamente disposti sulle mensole di metallo.
Afferrò rabbiosamente dei rotoli di plastica nera e uscì, lasciandosi alle spalle il ricordo di quando, da piccola, i genitori la rinchiudevano il quel buco con il solo conforto di una bambola di pezza.
Ripercorse il sentiero ciottolato sotto gli occhi vigili dei nani da giardino che sembravano seguirne ogni mossa, imperturbabili, con le guance paffute e l’espressione soddisfatta di chi ha trovato il proprio posto nel mondo.
Li superò decisa, puntando verso l’ingresso della casa. Entrò nello studio: lei era seduta a terra, con la schiena poggiata alla libreria.
Muta, ansimante. Ancora maledettamente viva.
Trovò ristoro nel pensare che sì, forse era meglio che rimanesse cosciente ancora per un altro po’. Avrebbe avuto tutto il tempo di verificare se era vero quanto si diceva in giro, ossia che l’ultimo bagliore di vita risplendeva quanto la vita stessa.
Osservò il sangue scivolare dal collo verso i seni con fare indolente, come se non fosse convinto di dover abbandonare quel corpo con il quale aveva condiviso tutta la sua esistenza. Si strofinò lentamente i polpastrelli per calmare i tremori che le percorrevano la pelle.
“Buffo”, pensò, guardandola negli occhi “me l’hai insegnato proprio tu”.
Si avvicinò leggermente al corpo piegando la testa di lato, come a imitarne la postura. Sembrava una bambola di ceramica, vestita e truccata a festa, con i riccioli biondi che scendevano sulle spalle candide e due cristalli di vetro incastonati in un viso slavato.
«Sei proprio una bambolina», sussurrò, sfiorandole l’orecchio con le labbra.
Si voltò verso la sorella, ancora inginocchiata sul tappeto, quello stesso quadrato di tela su cui giocavano insieme quando ancora odoravano d’innocenza.
«Smettila di frignare», le disse.
Marta strisciò verso di lei, poi scoppiò in lacrime.
«Cosa le abbiamo fatto?» La sua voce sembrava stanca.
«Meno di quello che meritava.»
«È ancora viva?»
«Non per molto.»
«E adesso cosa facciamo?», chiese singhiozzando.
«Quello che avremmo dovuto fare anni fa: ci liberiamo di lei.»
Elena sorrise, poi allungò il braccio afferrando il manico del suo coltellino svizzero ancora piantato nel collo della madre. Lo estrasse. Un fiotto di sangue schizzò sul pavimento di creando delle piccole chiazze dai bordi irregolari che si spandevano come lava incandescente.
«Aiutami», ordinò alla sorella mentre dispiegava i sacchi neri sul parquet.
Marta si asciugò le lacrime e obbedì senza ribattere. Sollevarono il corpo con fatica, poi lo distesero sulla plastica.
«Aspetta», disse Elena.
Allungò il braccio agguantando il ciondolo a forma di tartaruga che pendeva dal collo della madre. Lo strappò via.
«Questo non ti serve più», mormorò.
Prese del nastro isolante, poi si rivolse nuovamente a Marta.
«Cerca stracci e candeggina», indicò le chiazze di sangue «questo schifo deve sparire. Intanto io la impacchetto per bene».
Fece un risolino, pensando che mai nessun termine sarebbe stato più appropriato. Quell’ammasso di carne morta era un regalo. Per lei, per la sorella, per l’umanità.
Marta si avviò verso il bagno. Ritornò poco dopo e si mise a pulire. Un’ora ore dopo avevano terminato e si sedettero entrambe sul divano, esauste.
«Aspetteremo che faccia notte, poi la porteremo alla discarica», disse Elena «Antonio ci aspetta lì, è pronto con tutto il necessario.» Poggiò entrambe le mani sulle ginocchia «Lo vuoi un caffè?».
Marta sgranò gli occhi.
«Che c’è? La caffeina ci serve, se non lo vuoi basta dirlo», ribadì.
Marta scosse la testa.
«Allora inizia a farti la doccia.»
«Questo sangue ci si attaccherà alle ossa.», disse Marta con un filo di voce.
Elena si svegliò di soprassalto, come se fosse risalita da una lunga apnea. Quell’incubo l’aveva svuotata, e adesso si sentiva arida, al pari di un pozzo senz’acqua. Niente di quello che aveva appena sognato aveva senso.
Lei che accoltellava la madre senza alcuna remora, per giunta con la complicità della sorella, incapace di fare del male a chicchessia. E poi l’odore acre del sangue, il suono ovattato delle macchine che sfrecciavano in strada, l’immagine di sé stessa, gelida, insensibile, crudele.
Accese l’abat-jour e si mise a sedere sul letto.
“Non è reale”, e più lo ripeteva, più il cuore le martellava nel petto. Respirò profondamente, recitando la filastrocca che le aveva insegnato la sorella da piccola, quando l’ansia non le permetteva di addormentarsi. Finalmente riprese il controllo del proprio corpo.
L’orologio segnava le 5:45 del mattino.
Scese le scale fino a raggiungere il piano inferiore. Il contatto dei piedi nudi con il pavimento le regalò una piacevole sensazione di libertà.
Si diresse verso la cucina e aprì il frigorifero. Arricciò le labbra, indugiando perplessa davanti alla bottiglia di champagne coricata sulla mensola. Cercò di ricordare in quale occasione l’avesse acquistata senza riuscirsi. Si appuntò mentalmente di ripensarci quando sarebbe stata più lucida, prima di versarsi un bicchiere d’acqua fresca e spostarsi nel salone.
Il divano l’accolse avvolgendola. Chiuse le palpebre, gustandosi il silenzio della notte che, come un manto di neve, aveva soffocato i rumori del giorno.
Le riaprì di scatto, come se un’immagine proveniente da un altro presente le si fosse impressa nella retina. Si voltò di scatto in direzione del tavolino di vetro: adagiato accanto al vaso di fiori, c’era un ciondolo a forma di tartaruga, macchiato di sangue. Restò a guardarlo per un tempo indefinito, chiedendosi se non fosse frutto della sua immaginazione. Allungò il braccio toccandolo con la punta del dito, poi si ritrasse di scatto e si alzò dal divano in preda al panico.
«Deve esserci una spiegazione, deve esserci!», urlò.
Afferrò il cellulare con l’intenzione di chiamare la sorella digitando il codice di sblocco. Il display si illuminò facendo apparire una conversazione di qualche ora prima. Lesse l’ultimo messaggio ricevuto, con le mani tremanti ed il respiro che si faceva sempre più affannoso.
Strizzò gli occhi incredula, poi ricominciò a leggere, stavolta dal principio.
08:29
Elena: Marta, ci sei?
Perché leggi i messaggi e non rispondi???
08:32
Elena: Hey?
08:35
Marta: Sono qui
Elena: Finalmente! Dove diavolo eri finita?
Marta: Stavo dando da mangiare al cane
Elena: Oggi è il gran giorno! Sei pronta?
08:37
Elena: Ma vuoi rispondere???
Mi stai facendo veramente incazzare!
08:43
Marta: Sei Elena?
Elena: Certo che sì!
Marta: Allora dimmi come mi chiamavi da piccola
Elena: Che cazzo significa adesso?
Marta: Rispondi e basta
Elena: Non ho tempo per questi giochetti
Marta: Fammi parlare con Elena!
Elena: Conosci i patti: fino a quando non è finita questa storia il controllo è mio. Avete entrambe bisogno di me, lo sai bene.
08:44
Marta: Ti rendi conto di cosa stiamo per fare?
Elena: Perfettamente
Marta: Non è vendicandoci che staremo meglio
Elena: Invece si! È esattamente così che ci libereremo di tutto il marcio che ci portiamo dentro
Voglio guardare quella stronza mentre piange pentendosi dei suoi peccati, consapevole che non ci sarà alcuna remissione!
Voglio che sia invasa dalla stessa angoscia che provavamo noi quando ci affittava a quegli esseri schifosi per pochi spicci!
La voglio vedere morire davanti ai miei occhi!
Marta: Mia sorella non parlerebbe così
Elena: Io sono lei, che tu lo voglia o meno
Stasera ore 22:30
Lo faremo con o senza il tuo aiuto
Elena lasciò cadere il telefono sul tappeto, come se, improvvisamente, fosse diventato un tizzone ardente.
Una miriade di domande le si accalcarono in testa spingendo contro le pareti del cranio nel tentativo di uscire, con il risultato di creare ancora più confusione.
Guardò nuovamente in direzione del ciondolo: era ancora lì, illuminato dalla luce fioca della lampada, inerte, inconsapevole di essere appartenuto a una donna uccisa dalle proprie figlie.
Si lasciò andare sul divano sperando che la notte la inghiottisse, seppur conscia che niente avrebbe potuto far sparire quell’angoscia che sentiva azzannarla dall’interno.
Voltò la testa verso la tv spenta, incontrando il riflesso del suo viso.
Si sorprese a sorridere.
Poi il buio.
Mi è piaciuta la scrittura, mi piaciuta la trama, ma ci ho trovato qualche svista (“un’ora ore dopo”), qualche incomprensione (“avete entrambe bisogno di me”) e qualche incongruenza temporale (“facendo apparire una conversazione di qualche ora prima”, “poi il buio”).
Disturbante, cattivo, violento. Mi piace!
Racconto diverso dal solito, o almeno con un tema diverso da quelli più spesso presentati nella rassegna. Ben scritto, ci starebbe un approfondimento, nel senso di fare un racconto più lungo. Questo sembra quasi un incipit per qualcosa di più.
L’inizio, non so se voluto, è descritto un po’ in stile “lista della spesa” e personalmente non mi ha convinto appieno, però poi è un crescendo e l’ho divorato.
Grazie sia a entrambi per aver letto e commentato in maniera approfondita e argomentata. Sono veramente felice che vi sia piaciuto, nonostante i piccoli refusi di cui, ahimè, mi sono reso conto solamente dopo aver caricato.
Quando ho iniziato a scrivere la storia, volevo che fosse esattamente come l’ha definita Davide, ossia “disturbante”, una sorta di pugno nello stomaco. Il fatto che sia arrivata esattamente come volevo che arrivasse, è molto importante per me.
Ps. L’inizio è volutamente scritto utilizzando numerose pause, nell’intento di far crescere la tensione successivamente :). Non è propriamente il mio stile, ma amo sperimentare
Ps1. Il finale è volutamente scritto in modo da lasciare spazio a molte interpretazioni, anche se non intendevo il “buio” a livello temporale, bensì a livello più intimo 😉