Premio Racconti nella Rete 2021 “Il Paese dell’Annuncio” di Antonio La Sala
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021…la sottile grazia del corallo
sfiora l’orrore feroce della Gorgone
Italo Calvino
No, non lo avevano avuto. E sì che eran grandi, ormai, i gemelli Tarca. Andavano per i 18, e nessuno aveva mai superato la pubertà senza averlo. In paese si cominciava a parlarne già da qualche anno: nei capannelli in piazza la domenica, dopo la messa, o nei giorni di mercato; prima con vaghi accenni, allusioni velate, poi sempre più liberamente, sfrontatamente. La loro madre si faceva vedere meno in giro, quasi avvertisse questa marea montante di riprovazione: l’Annuncio non poteva mancare, era impensabile, rientrava nel normale corso della vita.
Tutti ricordavano quella settimana di febbre, deliri, sudate sotto le coperte, bagni freddi alternati a grandi bevute d’acqua. E ovviamente, le visioni.
“Io ho visto un enorme camion che mi veniva addosso!”
“Io invece cadevo da una montagna altissima…”
“Malattia…ma ero vecchio, nel mio letto, circondato da nipoti”
D’altronde, così era sempre stato. L’Annuncio si presentava verso i 12 anni, e durante quella interminabile settimana, si strutturava il pilastro su cui l’intera società si era sempre fondata; tutti avevano le informazioni necessarie per organizzarsi nella vita, programmare matrimoni, carriere professionali, viaggi, amicizie, figli…
In quella settimana, tutti avevano saputo la data della loro morte.
“Quando la foto dei gemelli Tarca non mi farà più nessun effetto, allora potrò ben dire di essere morta!” – ripeteva ridendo mia sorella, fregandosene del suo Annuncio. La storia dei Tarca era risaputa da tutti, giù nel quartiere. Soprattutto nella nostra strada. Tutti i ragazzini e le ragazzine che scendevano a giocare in quei pomeriggi infiniti, nelle estati prive di doveri e di compiti, la conoscevano. Ed ognuno aveva un aneddoto da raccontare su di loro.
Prima di tutto, erano belli come solo i sogni possono essere. Fin da piccoli, ogni adulto, maschio o femmina che fosse, che aveva avuto la fortuna di incontrarne la madre, donna dimessa e minuta, in giro col doppio passeggino, era rimasto estasiato nel guardarli. I loro profondi occhi verdi fissavano tutti dalla leggera oscurità data dal piccolo parasole del passeggino, e le loro guance rosee gridavano la loro salute vitale. Ridevano sempre, alternandosi, e nessun vicino li aveva mai sentiti piangere. E tutti si interrogavano su chi mai potesse essere il padre. La madre, già incinta, si era trasferita nel quartiere da sola: una giovane vedova accompagnata dai due anziani genitori (gente del sud, con le facce rugose dei contadini e i modi burberi ma pacati di chi non ha bisogno di nulla da nessuno) e da un cugino lontano che, lavorando come un ossesso da mattina a sera in fabbrica, portava avanti tutta la baracca. Si diceva che fosse stato innamorato di lei in gioventù, e che adesso attendesse il tempo del lutto per potersi fare avanti.
La casa dei Tarca era l’ultima, in fondo alla strada. Io e mia sorella, con i nostri genitori, abitavamo invece all’inizio. Quando i gemelli erano nati, in casa, con l’aiuto della levatrice, la voce si era subito sparsa. Pareva fossero usciti già lisci e pettinati, con gli splendidi occhi spalancati sul mondo, e un sorrisetto che aleggiava sulle loro boccucce di neonati. Non erano ancora verdi smeraldo, quegli occhi magnetici: alla nascita si presentarono sotto un azzurro luminoso. Poi col tempo virarono verso quel colore vegetale, arboreo, scintillante, che incantò chiunque vi ponesse, anche solo momentaneamente, lo sguardo. La levatrice continuava a ripetere che nessuno dei due aveva pianto, al rituale sculaccione…ma si erano limitati a prendere un bel respiro profondo e poi si erano guardati, sorridendosi. Poi, appoggiati sul corpo sudato e stanco della madre, si erano accoccolati simmetricamente e avevano riposato, mentre i nonni accarezzavano la loro figlia e il cugino, nervoso e spaventato, passeggiava su e giù senza fermarsi, in giardino.
Il più grande, quello insomma uscito prima, lo chiamarono Alberto, come il nonno materno. L’altro invece, in onore di un bisnonno morto molti anni prima, Federigo.
I gemelli erano nati in aprile: nei mesi successivi, fecero la loro comparsa nelle stradine adiacenti, e cominciarono ad essere notati nel piccolo parco nel quale tutti noi venivamo portati a giocare. Io ero molto più piccolo di loro, e mia sorella invece li superava di due anni. Al parco, quando arrivavano, tutte le mamme si riunivano in cerchio, e ondeggiavano come petali delicati attorno alla corolla formata dai due meravigliosi bimbi e dalla loro madre, spiazzata da tanta attenzione. Il fascino che emanavano tranquillizzava persino mia cugina Adele, vittima di coliche lancinanti fin dalla più tenera età. Al loro arrivo, smetteva singhiozzando di piangere, il suo visino passava dal rosso congestionato ad un rosa più accettabile, e con il dito in bocca si metteva ad osservarli incantata.
Qualcuno avrebbe potuto pensare che noi altri bambini fossimo in preda alla più atroce delle invidie. Ma non era così. Quella loro bellezza straordinaria metteva soggezione a tutti, e allora al massimo si poteva solo tentare di evitarla, di non pensarci. Ma era impossibile odiarli. Per di più, crescendo, rivelarono anche un discreto carattere: allevati da quei nonni severi e tagliati con l’accetta, che sembravano immuni alla loro enigmatica bellezza, non vennero su né viziati né arroganti. E pensare che avrebbero potuto esserlo tranquillamente e nessuno glielo avrebbe contestato.
Quando arrivarono ad avere dieci anni, mia sorella decise che, nonostante la differenza d’età che andava a suo svantaggio, uno dei due sarebbe diventato il suo fidanzato, Annuncio permettendo. Si incaponì talmente tanto da aspettarli al varco ogni volta che uscivano di casa. Ma non aveva fatto i conti con le altre femmine del quartiere. In breve, i gemelli vennero assediati da decine di ragazzine, dai 5 ai 15 anni, (e anche da qualche ragazzino) che cercavano spasmodicamente la loro amicizia. Ma i due gemelli bastavano a loro stessi: non uscivano spesso di casa, giocavano con tutti ma senza farsi troppo coinvolgere, e in alcuni casi bastava si guardassero tra loro per decidere di interrompere una attività e dirigersi, fianco a fianco, verso casa. In quei momenti, sembrava che la luce se ne fosse andata con loro, e ogni gioco perdeva attrattiva. Tornavamo mogi verso le nostre case, immalinconiti, come se ci avessero rubato il sole, in estate. Mia sorella, poi, doveva sempre asciugarsi una lacrimuccia, ogni volta che i gemelli la salutavano per rientrare.
“Sai, ho capito cosa devo fare” mi confidò un giorno, mentre cercavo di agguantare l’ennesima rana per la gara di velocità domenicale “devo sceglierne uno e separarlo dall’altro…così potrà essere il mio fidanzato!”. L’idea in effetti sembrava sensata, anche se, all’epoca, io non capivo molto bene cosa fosse esattamente un fidanzato, e come mai mia sorella, che passava ore in bagno a pettinarsi e a provarsi mille vestiti, ne avesse così bisogno. Mia cugina Adele aveva provato a fidanzarsi con me: eravamo rimasti a sedere su una panchina mano nella mano per un intero pomeriggio, e mi ero annoiato a morte. Ci eravamo lasciati la sera stessa, prima di cena.
“E chi scegli? Sono così uguali…” domandai, incuriosito.
“Credo Alberto…mi sembra più simpatico, inoltre mi parla più di Federigo!”.
Sebbene avessero due caratteri molto simili, Alberto era sicuramente più loquace e aperto. Quando scendevano in strada, il primo era sempre lui, seguito a ruota dal gemello. Federigo sembrava più pensieroso, più serio, un po’ meno sorridente…anche se era spesso lui a prendere alcune decisioni che Alberto tendeva a rimandare.
I gemelli Tarca erano anche abbastanza bravi a scuola, ma senza impegnarsi troppo. La loro stupefacente bellezza rendeva le maestre docili e accomodanti. Non vennero mai puniti per niente, anche se ogni tanto qualche marachella la combinavano anche loro. La loro voce era incantevole: spesso leggevano per tutta l’ora di italiano, e nessuno in classe sembrava annoiarsi mai.
Ripensandoci bene, sarebbe potuto capitare solo a loro, questa faccenda del mancato Annuncio. Erano troppo diversi da noi tutti per poter seguire il nostro destino. Nei loro occhi verdi brillava una luce insolita, nelle loro voci vibrava una nota eterea, dai loro corpi emanava una forza e una compostezza che non appartenevano al nostro mondo di ragazzi incompleti, storti, in crescita, o troppo lunghi o troppo corti, troppo magri o troppo grassi, troppo tutto. I gemelli Tarca, senza il loro Annuncio, ci indicavano forse una strada diversa? Noi ne eravamo attratti e respinti, senza possibilità intermedie. Le madri ne parlavano fitto fitto nelle sere estive, sulle soglie delle case illuminate, e i padri bofonchiavano gravi al loro fianco. Noi, increduli, chiedevamo ripetutamente all’uno e all’altro la conferma: anche oggi niente? Nemmeno un po’ di febbre? Un sogno più vivido di altri? Un sudore insolito? Un inizio di svenimento?
Insomma, la questione dell’Annuncio mancato aveva fatto il giro del paese, poi della regione, e infine arrivò alla Capitale. Vennero personaggi di ogni tipo per cercare di comprendere: medici, psicologi, preti, politici…tutti discutevano animatamente, nessuno riusciva a capire. In effetti, non era mai successo: non esisteva un protocollo per questo. Ipotizzarono che fosse la mancanza del padre, che potesse essere una questione genetica, che ci fosse una nascosta valenza sovversiva, che la madre non avesse frequentato abbastanza la chiesa. Ma nessuno ne venne a capo. Così, fecero ciò che agli umani riesce meglio: ignorarono il fenomeno. Alla partenza di quel corteo di macchinoni giunti da lontano, qualche vecchio scosse la testa rammentando che solo chi ha tanto crede di sapere tutto.
La madre, disperata, arrivò persino a portare i suoi figli da Valpoli, un santone che viveva vicino alle colline che, a nord del paese, si alternavano dolcemente ai campi arati. Al vecchio si rivolgevano le famiglie più disperate, i casi estremi, le persone senza speranza. Era considerato un personaggio in equilibrio tra la santità e la follia, al di fuori dei parametri umani di giudizio, un reietto dotato, però, di poteri taumaturgici. Gli stessi preti lo consigliavano, sottovoce, ai casi insolubili. I vecchi dicevano che era nato dall’unione di una donna del paese vicino con un’ombra, con un pupazzo di neve, con uno spaventapasseri, e chi più aveva fantasia più aggiungeva opzioni improbabili: che insomma non era del tutto umano. Tutti sapevano che aveva ricevuto come Annuncio una morte orribile, e che si era quindi ingegnato per evitarla, commettendo una eresia molto grave. E da allora viveva in una condizione simile a quella che sarebbe toccata ai gemelli. Chi meglio di lui avrebbe potuto aiutarli?
Quando rientrarono la sera dopo la visita, dal racconto che il cugino fece ai vicini capimmo in quale condizione potevamo ridurci senza la certezza dell’Annuncio: Valpoli viveva nudo in una specie di foresta, cibandosi solo di ciò che trovava in natura e conducendo una vita solitaria e anarchica. Certo, il cugino era rimasto perplesso nel constatarne la salute inusuale e la serena cordialità con cui aveva accolto la brigata. E anche sulla faccenda dell’eremitaggio, nutriva i suoi dubbi: aveva notato all’interno della stamberga in cui dormiva il santone tracce evidenti di compagnia, prevalentemente femminile, ma non solo…
Tra i gemelli e Valpoli era poi scattata una strana alchimia: se Alberto si era rifiutato di avvicinarsi, rimanendo in disparte accigliato e rigido, Federigo aveva invece intavolato una frizzante conversazione che, tra battute e citazioni colte, aveva spiazzato tutti, soprattutto la sua povera madre. Valpoli alla fine aveva detto loro di non preoccuparsi, che accade sempre ciò che deve accadere, e che la vita era troppo breve per prenderla sul serio. Insomma, che eran sciocchezze. Ed era saltellato via.
Certo, per i Tasca la questione non era così facile. Non tanto per il loro inserimento sociale: il loro potere non era certo diminuito dopo questo evento…anzi: in un certo senso le persone erano ancora più attratte e affascinate dai due. L’effetto dirompente lo ebbe sulla loro psiche: mentre Alberto, il più loquace e socievole, improvvisamente si adombrò e cominciò ad essere scostante, ad isolarsi progressivamente, Federigo sbocciò. Soprattutto dopo la visita dal Valpoli. La mancanza dell’Annuncio lo rese libero, leggero, sempre sorridente e pieno di progetti. “Appena sarò maggiorenne” diceva in giro “me ne andrò da qui: c’è un mondo da esplorare là fuori! E non so quanto tempo avrò per godermelo…” e qui strizzava l’occhio verdissimo, mentre noi inorriditi da tale ignoranza sfrontata scappavamo via.
Per noi, era più comprensibile la reazione di Alberto: cupo, corrucciato, non sopportava l’idea di dover vivere senza sapere quando sarebbe giunta la sua fine; si sentiva incompreso dall’Universo, ignorato dal misterioso equilibrio che regnava su tutti, escluso. E in fondo era terrorizzato: la morte avrebbe potuto coglierlo da un momento all’altro, senza preavviso, e questo lo lasciava in balia di sensazioni confuse e altalenanti, incapace di dominarle.
Così, l’ultimo inverno che i Tasca passarono insieme vide Alberto chiudersi sempre più in casa, in preda alle sue paure e alla sua ipocondria, mentre Federigo si allontanava sempre di più nei suoi giri misteriosi, e compariva spesso nelle situazioni più inaspettate col suo sorriso beffardo e irriverente.
Mia sorella, naturalmente, aveva rinunciato a fidanzarsi con loro: dopo il suo Annuncio, cercò e trovò chi era compatibile con lei, e si rassegnò all’idea che nessuno dei Tasca sarebbe stato suo. Ogni tanto, sospirando, ricordava con rammarico quelle interminabili estati passate a rincorrerli, e osservava di sfuggita la foto che li ritraeva tutti e tre insieme ad una festa di qualche anno prima.
“Quando la foto dei gemelli Tarca…” eccetera eccetera amava ripetere, sempre con uno strano sorriso mesto.
Quando compii 12 anni, e il tempo del mio Annuncio si andava avvicinando, Federigo scomparve. Se ne andò prima del loro compleanno: qualcuno disse che aveva tentato di convincere il fratello a scappare con lui, inutilmente. Li avevano sentiti gridare nella notte, e poi, il giorno dopo, la madre e il cugino (alla fine si erano sposati, rendendo felici i due vecchi che così erano spirati secondo il loro Annuncio, serenamente, colpiti da un fulmine) erano usciti disperati cercando Federigo, chiedendo in giro, chiamando amici e parenti, ritornando anche dal Valpoli. Ma Federigo sembrava si fosse volatilizzato.
Alberto, invece, si chiuse in casa e non uscì più. Alcuni malignarono anche su questo: chi poteva dire quale dei due se ne fosse davvero andato e quale invece fosse rimasto sepolto in casa? Nessuno era mai riuscito a distinguerli bene, neanche la loro madre…e se Alberto avesse improvvisamente deciso di affrontare a testa alta il suo destino incerto e ambiguo? E se Federigo invece avesse finalmente capito che tutto era vano senza certezze e avesse abdicato al suo ruolo di spavaldo avventuriero?
Io, intanto, aspettavo l’Annuncio. Con gli altri facevamo le ipotesi più disparate: saremmo campati cent’anni, saremmo morti in guerra, saremmo riusciti ad avere una fine veloce e indolore…aspettavo l’Annuncio come ogni ragazzino aveva fatto fin dalla notte dei tempi, con quel misto di fatalità e di curiosità che mi lasciava spesso insonne per notti intere.
Però, mentre fino a qualche tempo fa mai avrei dubitato della sua normalità e della sua efficacia, e mai avrei voluto una vita incerta, senza nessuna sicurezza, cominciavo a pensare che forse, tra l’ombroso Alberto e il solare Federigo, tra il sapere e l’immaginare, tra la certezza e il dubbio…io…ecco…
…proprio non avrei saputo cosa scegliere.
Molto carino questo racconto, con la metafora che si sistema alla fine!
Molto intrigante la storia e perfettamente definiti i personaggi e l’ambiente di piccolo paese. Avrei voluto durasse ancora e che ci avessi portato nel proseguio del racconto. Per caso ci sarà un seguito in un romanzo?
Ops! volevo scrivere “si disvela” (maledetto correttore automatico!).
Molto bello, interessantissima la meccanica dell’Annuncio, che spiana perfettamente il terreno per le tematiche su cui riflette il personaggio alla fine.
Attenzione solo che qualche volta i Tarca sono diventati Tasca! 😉
Fantasioso e ironico, a tratti molto piacevole, induce il lettore a interrogarsi sulle proprie scelte.
Grazie a tutte le persone che hanno letto e lasciato un commento…non so bene come si risponde individualmente (né se si possa fare) quindi:
1 – Petra Nera: in effetti l’idea di allargarlo ad una dimensione da romanzo c’era stata…vedremo!
2 – Francesco Audino: ovviamente era voluto…(magari! E non posso nemmeno dare la colpa al correttore…che non uso!)