Premio Racconti nella Rete 2021 “Fuggire dal Monte Athos” di Roberto Mosi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021Il viaggio al Monte Athos gli apparve subito il modo giusto per superare il distacco da Diana, che era partita, d’improvviso, per Lisbona. Preparò i bagagli e, in una mattina uggiosa di pioggia, prese l’aereo per Atene. All’ufficio di Kiriès, al momento dell’ingresso nella repubblica monastica, c’era davanti ad Omero, nella fila per ottenere il visto, un prete di Firenze. L’aveva incontrato sul battello che ogni mattina lascia Ouranopolis, il piccolo porto greco sulla penisola Calcidica, per portare i passeggeri al minuscolo porto di Dafne, da dove un vecchio autobus raggiunge la capitale, Kiriès.
Più volte il prete disse a Omero: “Mi meraviglio che ti fermi solo per tre giorni, è un’occasione persa. Io ci starò quindici giorni, visiterò i venti monasteri, sarà facile per me.” Sembrava che tutti i monaci del Monte lo stessero aspettando.
Quando fu davanti all’impiegato, Omero assistette però a un duro scontro fra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Ortodossa. Il prete disse in un inglese improbabile, che voleva un visto per quindici giorni. L’impiegato ribatté tre, battendo forte con il timbro sul Diamonitirion, il passaporto per l’ingresso nella repubblica dei monaci. Fu un urlare intercalato dal rimbombo del timbro:
“Quindici giorni”, “Tre”.
“Dieci”, “Tre”.
“Cinque”, “Tre”.
“Tre”, “Tre”.
Il prete prese con rabbia il Diamonitirion e si allontanò in silenzio. A Omero furono accordati i tre giorni richiesti. La prima meta fu il Monastero di Vatopedi all’estremità nord orientale della penisola, fondato nel lontano 972, nel luogo dove il figlio dell’imperatore Teodosio, Arcadio, fu ritrovato salvo sulla spiaggia dopo che era stato strappato dalle onde del mare in tempesta, durante la navigazione fra Roma e Costantinopoli.
La marcia fu di quattro ore sul sentiero che si snodava nella parte interna della penisola, con rare tracce di viandanti, sprofondato nella macchia piena di profumi. In cima alla prima collina gli venne fatto, come d’abitudine, di voltarsi per guardare la fila dei compagni dietro di lui ma questa volta era veramente solo, con i suoi pensieri.
Apparve d’improvviso il complesso monastico di Vatopedi, adagiato al centro di un’ampia insenatura del mare. Rimase fermo al margine della radura, a bocca aperta, a guardare le alte, robuste mura disposte a triangolo, sommerse in alto da terrazze, loggiati, balconi. Superò il portone di bronzo ed entrò nell’ampio cortile delimitato all’intorno dagli edifici dipinti di rosso con al centro la chiesa a croce greca e la cupola sostenuta da quattro colonne di porfido.
Era per Omero l’incontro con un mondo straordinario, dai tratti raffinati e preziosi e, allo stesso tempo, con i segni di un’inarrestabile decadenza: le finestre delle infinite celle erano come occhi neri, sgomenti, abitate una volta da centinaia di monaci, ridotti oggi solo ad una decina di confratelli. Quegli occhi lo seguivano nei suoi passi in punta di piedi, nel silenzio del cortile. Si fermò alla portineria, dovette aspettare e dopo un bel po’ apparve il portàris, il monaco addetto ad accogliere gli ospiti, dai modi sbrigativi, che registrò il suo nome dal Diamonitirion e lo accompagnò ad una cella nella foresteria, dove c’era lo spazio per un rustico letto, una sedia e un tavolino; i bagni erano in comune.
Visitò in piena libertà il convento e poi scese il sentiero verso il piccolo porto dove due monaci scaricavano da una barca fascine di legna e le accatastavano vicino alla scogliera. Superata la tentazione di fare un bagno in quelle acque trasparenti, salì, più tardi, alla chiesa dove era iniziata la funzione religiosa. Fu invitato a cenni, con modi bruschi, a non muoversi per la chiesa, a stare in disparte. Si fermò vicino ad una delle pareti, affrescata nel Trecento da maestri macedoni e dal suo punto d’osservazione entrò, con emozione, nel mondo della liturgia ortodossa.
Nella chiesa non c’è l’elettricità: miriadi di piccoli ceri, fissi o nelle mani dei monaci, il cui accendersi e spegnersi fa parte del rito. Dalla cupola centrale pende, tenuto da lunghe catene, un lampadario immenso a forma di corona, di circonferenza pari alla cupola stessa. La corona è di rame, di bronzo, d’ottone, scintillanti, alterna ceri e icone e scende in basso fino ad altezza d’uomo, sfiora l’iconostasi, splendente d’ori e di pietre preziose, che delimita il sancta sanctorum. Altri fastosi lampadari dorati scendono dalle volte dei transetti.
La luce dava forma a quella sorprendente scenografia ma era il canto che animava la scena: canto a più voci, senza strumenti, che fluiva ininterrotto, ora robusto ora sussurrato come marea che cresce e si ritrae. I cori guida in questa liturgia sono due: un gruppo di monaci raccolto attorno al leggio di uno dei due transetti, con il maestro cantore che intona la strofa e il coro che ne coglie il motivo e lo fa fiorire in melodie e in accordi. Quando il maestro cantore si sposta dal primo al secondo coro, traversa la navata a passi veloci, il mantello si gonfia come a formare due ali e sembra volare, come le note.
La suggestione che provò Omero non fu minore quando visitò la vicina biblioteca, guidato dal monaco bibliotecario, il viviofylax, che conserva seicento manoscritti, gran parte su pergamena, antichi, libri decorati, reliquie conservate in scrigni d’oro e d’argento tempestati di zaffiri e rubini. Davanti a quelle meraviglie perse come il senso del tempo e raggiunse il refettorio degli ospiti che la cena era già iniziata.
Intorno alla tavola vi erano tre greci e due italiani davanti a fumanti scodelle di una profumata zuppa di lenticchie. Fece appena in tempo a servirsi dalla pentola al centro del tavolo, assaporare quattro cucchiate, che suonò la campana in fondo al refettorio: la cena era terminata e gli ospiti, secondo la regola, si alzarono e si avviarono verso la sala comune della foresteria.
Fra gli ospiti greci vi era un giovane restauratore, Diomedos, che aveva studiato all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e conservava quindi un fresco ricordo della vita della città. Rompendo come l’incanto del luogo prese a parlare dei locali che di solito frequentava, del carattere dei fiorentini e della bellezza delle ragazze che aveva incontrato, dell’ammirazione che aveva per la squadra di calcio della città. Omero rimase come disorientato da questi discorsi, cercò di tagliare corto e conquistò presto la quiete assoluta della sua cella, per avere un momento tutto suo, per rivivere le sensazioni straordinarie di quella giornata.
Si era appena addormentato che fu svegliato da un assordante rumore di motori che arrivava dal mare e dalla finestra, che si apriva sulla scogliera prospiciente il molo, un faro proiettava una luce accecante sul soffitto della cella. Si affacciò alla finestra e vide in basso due grossi motoscafi che si erano avvicinati al molo e un gruppo d’uomini, fra grandi urla, stavano passando delle casse da un mezzo all’altro. Tabacco, droga, armi? Omero rimase sorpreso, sgomento: che cosa pensare? Certamente il Monte Athos non era una fortezza inviolabile e poteva essere profanato da trafficanti, contrabbandieri d’ogni genere, come nel passato da parte di truppe mercenarie, da navi di pirati.
Si svegliò presto al mattino nel momento in cui erano già terminati i riti della notte e i monaci stavano rientrando nelle loro celle. Decise di partire subito, si lavò, rifece lo zaino ma non ebbe il coraggio di entrare nel bagno comune. Attraversò il cortile deserto, passò il portone di bronzo e dietro il primo cespuglio che incontrò fuori dal prato che circondava il convento, si fermò nella fresca brezza del mattino.
La meta era il monastero di Stavronikita a statuto comunitario, cenobitico, sulla costa orientale, fondato nel XIII secolo. Il sentiero era a mezza costa, in continuo saliscendi, aperto sul mare. Arrivò che erano appena le dieci del mattino, il monastero era in alto su una roccia sopra un’insenatura. Prima di arrivare aveva incontrato campi coltivati, frutteti, recinti per gli animali, edifici per gli attrezzi della campagna, senza alcuna presenza umana. Il complesso non aveva la forma nobile, aristocratica di Vatopedi, ma un tono semplice, dimesso come di un luogo dedicato al lavoro e alla preghiera.
Il monaco portinaio portò direttamente Omero nel refettorio dove da qualche tempo era iniziato il pranzo. I monaci, almeno una ventina, erano seduti intorno ad una grande tavola, nella parte alta del refettorio, con vesti che erano chiaramente abiti consunti, da lavoro; in basso vi erano gli ospiti, greci, tedeschi, italiani. Gli fu fatto posto e si sedette davanti ad un piatto d’ottimo polpo al sugo, ad una caraffa di vino rosso, niente male, e a fette abbondanti di cocomero. L’atmosfera appariva cordiale, gli ospiti parlavano del loro viaggio, di quello che avevano visto, delle prossime mete: la lingua naturale per la conversazione era il latino.
Terminato il pranzo, al momento dell’assegnazione delle camere agli ospiti scoppiò improvvisa, una furibonda, interminabile discussione fra il monaco portinaio, il portàris, e l’addetto alla foresteria, l’archondarikon, senza che si riuscisse a capire il motivo di quello scontro.
Omero rimase sorpreso, interdetto, fu questa scena o qualcosa che già coltivava dentro di sé, che lo spinse ad uscire dal monastero e a saltare su un carro trainato da un trattore diretto, su una strada squassata da profonde buche, al porto di Dafne. Doveva aspettare un’ora per la partenza del battello per Ouranopolis. Entrò nella caffetteria per prendere un ouzo: ad un delle pareti troneggiava un antidiluviano apparecchio telefonico. Gli balenò improvvisa l’idea di chiamare Diana, a Lisbona.
Un racconto di viaggio che, a mio modesto avviso, renderebbe meglio, e avrebbe più impatto sul lettore, se fosse scritto in prima persona, invece che in terza persona singolare.