Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2021 “La casa dagli occhi ciechi” di Gianni Antonio Palumbo

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

Quella casa era il bel ritiro della sua anima. Una villa immersa nel silenzio suburbano. Da stanze si aprivano stanze, stretti corridoi sfociavano in ambienti più ampi e luminosi, puntellati da cassapanche d’antan, con vedute paesaggistiche o ritratti a irrorare di colore le pareti. Dappertutto v’erano finestroni, le cui imposte battevano agitate da un vento che non sapeva da dove si originasse. Gli sembrava quasi non provenisse dal mondo esterno, ma dall’interno stesso della casa.

Ne percorreva gli anditi seguito da suo fratello, che se ne stava pressoché incantato a guardare, mentre lui si affannava a serrare le imposte e quelle continuavano a battere battere battere. Prima una poi l’altra, poi tutte all’unisono e il tranquillo incedere per gli ambienti della villa si trasformava in una corsa angosciante per stornare chissà quale calamitosa circostanza avversa. E poteva sentire le voci serpeggiare, sussurrando non capiva cosa, e poi ridere d’un riso strozzato, piuttosto uno squittio di topo. Subito dopo il tonfo.

Il professor Desini sentì quel rumore chiaramente e distintamente, eppure non era reale. Dalle persiane filtrava già la luce del giorno. Sua moglie doveva essere uscita presto, per poter salire sul treno delle 7.20. Sua figlia Giulia, l’unica a vivere ancora con loro (la sorella studiava in Germania), probabilmente era ancora tra le braccia di un dolce sogno.

Si alzò pigramente, facendo attenzione a ridurre i contraccolpi di un fastidioso attacco di cervicale, col rischio di ritrovarsi dolorante per terra. Mancavano ancora tre ore alla sua lezione di filologia in università. Poteva concedersi una mattinata più o meno comoda; il pomeriggio, invece, era ricco di appuntamenti, tra tesisti e colleghi desiderosi di sottoporgli varie e spinose questioni.

Si era sbagliato. Giulia era già in cucina e gustava la torta di mele preparata dalla madre. Era bellissima, leonardesca nei tratti. Desini era sempre vissuto in adorazione delle sue figlie, le accostava alla primavera, alla freschezza, alla solarità; la loro immagine, associata alla grazia di sua moglie, evocava sempre una sequela di concetti e icone degni di un plazer. La ragazza lo baciò e, mentre facevano colazione e chiacchieravano, l’attenzione del professore fu catturata dallo schermo dello smartphone, che segnalava un messaggio dell’amico Giorgio.

Gli apparve strano il tentativo di contatto a quell’ora del mattino. L’amico e collega non era affatto amante della tecnologia; condivideva lo snobismo di tanti intellettuali radicalmente passatisti, anche se poi non mancava di pubblicizzare ampiamente sui social network qualunque evento lo riguardasse, dai seminari alle presentazioni di libri. Il messaggio era laconico. Annunziava la morte di un loro coetaneo. “Ernesto, ricordi Cesare, il belloccio del gruppo?” Lo ricordava, sì. Come non rammentarlo? “Sembra sia morto, stanotte. Suicidio”.

“Tutto bene, papà?”

“Certo, Giulia. Perché me lo domandi?”

“Hai un’espressione strana. Come se avessi visto un fantasma…”

Per un istante, il suo pensiero tornò alla villa in cui si recava in sogno ogni notte. Perché gli sembrava appartenere alla sua famiglia da generazioni, sebbene non l’avesse mai veduta all’infuori delle peregrinazioni notturne?

“No, cara. È morto uno che conoscevo, ma nulla di importante. Non lo vedevo da decenni”.

Già, non lo vedeva da quando Cesare aveva abbandonato l’ambiente parrocchiale per volare verso altri lidi. Potevano avere circa vent’anni o qualcosa in più. Con il suo diploma di perito industriale, non aveva pensato nemmeno per un istante di iscriversi all’università. Non che non ne avesse le capacità, ma di certo gli faceva difetto la costanza un tempo necessaria per portare avanti un percorso di studi serio. Così Ernesto non l’aveva più veduto e tutto sommato la cosa non gli dispiaceva.

Non riusciva a stare in sua compagnia. Cesare lo inquietava profondamente. Architettava sempre scherzi raffinati, a volte vere e proprie torture ai danni del malcapitato di turno. In un caso, durante un campeggio estivo, si era divertito con i suoi ‘scherani’ a tenere immersa nel water la testa di un quattordicenne, facendogli bere acqua sudicia, e rideva mentre i curiosi ciabattavano per assistere all’insolito rito di iniziazione. In realtà, con lui Cesare era stato sempre sgradevole e caustico, ma non si era mai spinto a manifestare con eccessiva aggressività la sua evidente superiorità fisica e sensuale. All’adolescente Ernesto Desini piaceva pensare che ciò accadesse perché il ragazzo temeva le sue qualità intellettuali. Magari era consapevole che su quel terreno sarebbe stato sempre e irrepugnabilmente sconfitto. Per questo – si illudeva – si era instaurato tra i due una sorta di limes che raramente l’adone inquieto avrebbe varcato.

In alcuni casi questo era accaduto durante le incursioni estive nella casa dagli occhi ciechi. Era un edificio incompiuto, uno dei tanti incautamente elevati a mezzo e poi rimasti col triste scheletro all’aria e il buio più desolante in corrispondenza delle finestre, per Ernesto simili a occhi morti spalancati sul nulla. In parrocchia si diceva che bisognasse tenersi lontani da quel posto, perché vi si era impiccato uno spretato. Alcuni ragazzini raccontavano di aver visto il suo spirito correre per quei luoghi privi di vita, con il volto atteggiato a un ghigno maligno. Tutto questo mentre i rumori della vicina ferrovia producevano uno stridio infernale, al punto che ti sembrava già d’essere sulla via dell’Acheronte. Già a dieci anni Ernesto non credeva allo spettro del prete. Si chiedeva come, dall’esterno e non dall’alto o dalle stanze, si potessero cogliere dettagli quali la mimica facciale dell’anima inquieta in presunta erranza per quei luoghi. Non ci credevano – o almeno fingevano di non prestar peso a quelle idiozie – nemmeno i suoi amici e così la casa dagli occhi ciechi diveniva a turno il quartier generale di una delle due bande di adolescenti che si fronteggiavano in guerra perpetua. C’erano lui, Giorgio, altri nerd, tra i quali tale Daniele aveva un po’ più di popolarità scolastica e parrocchiale, e poi la gang di Cesare, con Rabarbaro, Marcantonio e campioni di braverie dai nomignoli che scimmiottavano calciatori vari. Inutile dire che quei bellocci erano più robusti e la lotta era impari. In più di una circostanza, conflitti combattuti a forza di pietre e randelli improvvisati gli avevano fatto rimediare lividi e contusioni. Una volta Rabarbaro lo aveva colpito alla testa con un sasso ed Ernesto era rimasto a lungo intontito per l’inaspettato attacco. Non di rado era stato catturato da quell’associazione a delinquere e si era ritrovato, legato e imbavagliato con mezzi rudimentali, nella casa dalle finestre cieche, con un aguzzino in attesa del ‘riscatto’ pagato dai compagni. Una volta era stato proprio Cesare a sorvegliarlo e, come per gioco, aveva cominciato ad accarezzargli le gambe e i piedi nudi. “Ti piace, eh? Ti sei irrigidito proprio come una femmina”.

Ernesto sentiva di odiarlo e ancor più lo aveva detestato, a diciotto anni, in occasione della visita di leva. La caserma brulicava di voci maschili, di accenti ora irridenti ora apparentemente rispettosi di un’autorità cui tributare un rispetto esclusivamente formale.

Giorgio ed Ernesto si erano ritrovati a essere ‘esaminati’ nello stesso giorno di Cesare e Rabarbaro. Mentre erano seduti a compilare i moduli del famigerato test ‘pissicologgico’ – così l’aveva definito l’addetto alla sorveglianza –, non gli erano sfuggiti uno sguardo beffardo del ragazzo e la successiva occhiata di complicità all’inseparabile compagno di scorribande.

“Ti piacciono i fiori?”, aveva chiesto Cesare, nel momento in cui il militare era in un’altra ala del camerone.

“Fottiti”, aveva replicato infastidito. In realtà, a essere sincero, non sapeva cosa rispondere. I fiori, sì, gli piacevano. Adorava l’immagine dell’Ofelia di Millais con le gonne colme di rose, viole e altri boccioli. Gli sembrava che quella creatura eterea fosse stata creata per essere amata e per morire nell’acqua, incoronata da bellissimi fiori. A volte si soffermava a pensare che avrebbe potuto amare solo una donna con quella grazia talmente leggera da farla apparire sbocciata in un prato o in un giardino.

Se rispondi di sì, penseranno che sei strano. Che hai gusti femminei. ‘No’ è la risposta esatta. Agli uomini i fiori non piacciono.

Eppure come negare che un mandorlo fiorito sia lo spettacolo più commovente che la Natura possa offrire? E che dire delle gravine punteggiate di giallo e azzurro che talora gli si schiudevano allo sguardo nelle passeggiate murgiane? Avrebbe risposto di sì, ma non di certo alla domanda se desiderasse lavorare come fioraio. Ernesto sarebbe diventato uno scrittore. Questo lui lo sapeva bene.

Più rispondeva alle domande, più gli apparivano insulse e prive di costrutto. Desiderava fortemente essere scartato. Già si vedeva, all’università, a tremare all’altezza di ogni rinvio, nel timore di non riuscire a superare un numero di esami sufficiente a procrastinare la partenza per la naja. Poi, però, guardava Cesare con la sua maledetta sicumera e gli passava la voglia di essere riformato. Sicuramente quel bullo gliel’avrebbe rinfacciato per l’eternità.

Fu con sorpresa che, al termine della mattinata, si vide spedire diritto dallo psicologo. Dietro di lui c’era il tiranno della casa dagli occhi ciechi. Lo guardò di sfuggita e vide che sorrideva.

“Così ti ci hanno mandato, Desini?”

“Beh, anche tu ci devi andare, m-mi sembra”, aveva quasi balbettato.

“Sì, ma io mi sono divertito a rispondere a caso. Non sono di certo uno fuori di testa, io”. E lo aveva superato con fare sprezzante. Di fatto, dopo appena cinque minuti era sgusciato fuori con aria sorniona, mentre Ernesto aveva fatto il suo ingresso nello studio della dottoressa. Aveva sempre paura di varcare le porte. Credeva fermamente che avessero il potere magico di captare i pensieri degli uomini e di polverizzare le loro illusioni; per questo, nei momenti di maggiore terrore recitava mentalmente delle formule a mo’ di oscuri scongiuri.

Alle pareti aveva subito notato una riproduzione del Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck.

“Splendido”, aveva commentato. “L’originale si trova alla National Gallery di Londra. Ha notato che aria compassata ha quel mercante lucchese? Per non parlare della sposa dagli occhi spenti. Sembra malata di malinconia”.

“Complimenti”, lo guardò la dottoressa, ma, dall’espressione che aveva assunto, Ernesto capì che doveva averlo classificato come un alieno, affetto da chissà quale disturbo narcisistico.

E non aveva di certo sbagliato a percepire la brillante decodificazione della sua anima compiuta dalla donna, perché dopo due ore si era visto spedire dallo psichiatra. Un cinquantenne dai capelli grigi e gli occhialini, che non faceva altro che annuire e scrivere, scrivere e annuire…

Mezz’ora di colloquio e ne era venuto fuori convinto di aver fatto un’impressione migliore, anche perché non si era lanciato in letture d’opere d’arte o in dotti commenti. Si era finto omologato al raccogliticcio livello culturale medio-basso della maggior parte dei suoi coetanei, a cominciare da Cesare.

Al momento della visita medica, le giovani leve attendevano in corridoio, con indosso la sola canottiera e gli slip. Quella schiera di ormoni sudore afrori arroganze lo atterriva. Avrebbe voluto dileguarsi, rendersi invisibile, anche perché tutti gli apparivano inesorabilmente più belli, più in forma, più virili. Soprattutto lui e inutile dire che l’‘amico’ non si era lasciato sfuggire l’occasione di avvicinarsi e sussurrargli all’orecchio: “Dallo psichiatra, eh, Desini? L’ho sempre saputo che sei completamente pazzo! Vero, Rabarbaro?”. Il compagno aveva riso.

“E ora, Desini, perché non ti sollevi quella canottiera e ci mostri i muscoli? Non vediamo l’ora di ammirare i tuoi addominali”. Ernesto aveva esitato e allora Cesare aveva sibilato, sempre col sorriso sfottente sulle labbra: “Obbedisci, recluta”. Ernesto si era sfilato la canotta e il ragazzo era scoppiato a ridere. “Di’ un po’, l’hai visto? Ha il seno come quello di Mary. Lo dicevo io che sei come una donna, Ernesto. Di sicuro sarai scartato, fidati. Del resto uno come te in caserma non dura. Ti mangerebbero vivo”. Si erano allontanati ridendo.

Desini si era sentito umiliato come non mai, ma, raggiunto da Giulio, aveva deciso di forzarsi a proseguire in quel percorso, tappa dopo tappa, sino a quando si era trovato al cospetto di un giovane dagli occhi verdi, di venticinque anni al massimo.

“L’hanno mandato dallo psichiatra”, aveva osservato il soldato accanto al militare dall’aria gentile.

“Sì, ma l’hanno solo definito ‘ipersensibile’… Piuttosto, guarda: una miopia ai limiti. Riesci a vedere senza occhiali?”, gli aveva domandato con aria cortese. Era la prima persona che in quel luogo gli aveva rivolto la parola con dolcezza.

“Insomma, è tutto piuttosto sfocato”.

“Potresti essere riformato, lo sai?” Aveva annuito. “Ma tu cosa vorresti? Desideri farlo? Vuoi fare il servizio militare?”

Ernesto si era rivolto verso Cesare, che continuava a fissarlo con quel sorrisetto malizioso che aveva il potere di indurlo a sentirsi fuori dalla grazia di Dio.  “Sì”, aveva risposto. “Ci tengo tantissimo”. E il soldato – o quello che era – dai modi cortesi aveva sorriso e impresso con un timbro sulla sua scheda la parola “idoneo”.

Si riebbe dal flusso torrentizio di quei ricordi alla voce della sua Giulia che si esercitava per il concerto in programma in conservatorio. “O della madre mia casa gioconda / La Wally ne andrà da te, da te! / Lontana assai, e forse a te, / E forse a te, non farà mai più ritorno, / Né più la rivedrai! Mai più, mai più!” Il suo brano più amato, dalla Wally. Sentì un’infinita dolcezza nel cuore.

Poi il telefono squillò. Era la moglie, Chiara, che approfittava di un momento di pausa dalle lezioni per chiedergli di tirar fuori dal frigorifero il pentolino del sugo con le olive. “Cos’è, sfotti? Sai che non pranzerò a casa e vuoi farmi venire l’acquolina in bocca?”

La donna aveva riso; poi, dopo un attimo di esitazione, aveva detto: “Caro, ricordi quell’edificio incompiuto vicino alla ferrovia? Quello dove andavate a giocare, da quei matti che eravate? Una volta ho sentito che lo chiamavi ‘la casa dagli occhi ciechi’”.

“Sì, lo ricordo vagamente”.

“Stamattina la stavano demolendo. Peccato: sembra fosse diventata un ricettacolo di cani randagi e drogati”.

“Ah”, aveva commentato con tono incolore, ma, mentre la salutava per lasciarsi cullare dalla voce di Giulia al pianoforte, non poté fare a meno di sciogliere il dolore, prima inconsapevole poi lacerante, in un pianto liberatorio.

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16 commenti »

  1. Il professor Ernesto Disini probabilmente avverte in sogno il suicidio dell’amico – nemico di gioventù Cesare all’interno di una villa che costituisce un suo sogno ricorrente. la notizia della morte per suicidio di Cesare, infatti, gliela dà l’amico e collega Giorgio con un messaggio sullo smartphone poco dopo il risveglio. Passa poco tempo ancora e sua moglie Chiara, uscita di casa presto per lavoro, gli telefona per dirgli di tirare fuori dal frigo il pentolino del sugo con le olive, e poi aggiunge che quel mattino stavano demolendo l’edificio incompiuto dove in gioventù lui e i suoi amici tra cui Giorgio si fronteggiavano con la banda capeggiata da Cesare. L’edificio aveva una fama sinistra perché sembra vi si era impiccato un sacerdote spretato, e per il suo aspetto desolato con le finestre incompiute simili a occhi spalancati sul nulla Ernesto l’aveva soprannominato “la casa dagli occhi ciechi”. Ad ogni modo, stiano come stiano le cose, a questo punto il professore scioglie il suo dolore in un pianto liberatorio. Racconto ai confini del paranormale, mi sembra rimandare ai legami profondi che si instaurano con le persone frequentate in gioventù, anche se il rapporto era in massima parte conflittuale. Scrittura efficace, intonata al genere trattato.

  2. Grazie di cuore, Andrea Polini, per l’accoglienza e per questa raffinata e bella lettura. Un benvenuto che mi rincuora e mi rende felice. Grazie ancora.

  3. Grande capacità descrittiva, arricchita da riferimenti dotti. Ti suggerirei di cimentarti con un romanzo.

  4. Grazie di cuore, Leonardo Schiavone, per questo commento che ho apprezzato tantissimo.

  5. Molto bello, la vicenda del gruppo di amici, così realistica, l’approfondimento psicologico, la terribile svolta finale. Una breve grande storia.

  6. Grazie infinite, Andrea Masotti. Felicissimo per questo commento!

  7. Racconto coinvolgente, con elementi perturbanti, immagini che mi hanno ricordato i racconti di E.A. Poe. Nello stesso tempo ricco di sensibilità e ben descritto. Complimenti

  8. Grazie di cuore, Maria Nives Pasqualini, per queste bellissime parole.

  9. Un racconto pregno di sensazioni, con situazioni che si possono praticamente vedere da quanto ben descritte, bravo!

  10. Grazie infinite, Davide Desantis, per l’attenzione e per questo graditissimo commento!

  11. Una scrittura matura ed elegante per un racconto che fonde introspezione e ricordi di gioventù. Una lettura ricca con un pizzico di mistero che ne amplifica il fascino.
    Grazie e complimenti per la bravura.

  12. Grazie infinite, Monica Menzogni! Ho apprezzato tantissimo queste parole.

  13. Un racconto che non lascia indifferenti. Credo che più di qualche persona possa immedesimarsi nelle dinamiche dell’adolescenza o in quelle della visita di leva qui descritte. A me è sicuramente capitato (tanto più che dallo psichiatra ci ero finito per due anni di fila – e senza passare dallo psicologo – pur in assenza di franche turbe !).
    Misurato al punto giusto l’uso di certe suggestioni “morbose”.

  14. Grazie mille per questo interessante commento, Antonio Marco Miotti. Grazie di cuore.

  15. Incredibile come per capire l’idoneità al servizio di leva ci si affidasse a domande così banali. Una vera violenza per la costruzione dell’identità maschile che fortunatamente non esiste più. Questo racconto ha tra i suoi pregi quello di ricordare pratiche come queste, oltre che l’atmosfera delle comunità del sud, dove la parrocchia era in effetti un luogo di tirocinio nei rapporti sociali, forse più della scuola. Per il resto, un racconto raffinato e ben costruito dal quale traspare la cultura classica dell’Autore.

  16. Grazie infinite, Teresa Celestino. Effettivamente le parrocchie per i nati degli anni Settanta e Ottanta hanno avuto anche questa funzione. Oggi, tra i giovanissimi, questo aspetto mi sembra un po’ in declino, ma probabilmente è solo una mia impressione. Grazie ancora per gli apprezzamenti e per questo graditissimo commento.

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