Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2021 “Cammino ancora” di Tullio Bugari

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

È dalle ore dell’ultimo buio della notte che camminiamo. I primi passi erano stati incerti, le mani a cercare spuntoni di roccia a cui aggrapparsi, il piede ad assicurarsi la solidità della terra sul sentiero, prima di fare forza e sollevare un pezzo di corpo alla volta, un passo dopo l’altro, i fiati che sbuffano cercando l’aria. Siamo partiti nel cuore del silenzio, senza seguire l’ordine di nessuno ma ordinati, rispettando la sequenza dei pensieri e dei gesti già immaginati e pronti alla partenza, come già liberati dal nostro peso. Arrancando incerti, ma certi della direzione. Con il giusto umore, un entusiamo contenuto. Avevamo preso tutto, non mancava nulla. A dire il vero, avemmo qualche discussione su come inerpretare la mappa, ma ora stavamo partendo. I chiarori dell’alba potevamo ancora soltanto immaginarli, e già stavamo raggiungendo le prime praterie, dove lo sguardo può galoppare in avanti spavaldo come un puledro ribelle. Le nubi erano basse ma rade, sparse a caso tra qui e l’orizzonte. Il primo sole, a noi ancora nascosto, le faceva già brillare di rosso, le illuminava radente da sotto. Anche noi eravamo rossi e contenti di esserlo, come il fuoco che arde. Appena giunti sul pianoro ci disponemmo in formazione aperta, a ventaglio, come l’ala di uccello, pronti a prendere il volo, il primo che osavamo tentare dopo essere riemersi dal fondo dei nostri anfratti. Volavamo, così ci sembrava, sfiorando veloci il tappeto d’erba dell’altipiano, come gabbiani sospinti dalla brezza, ma non eravamo ancora abbastanza, non riuscivamo a dare la giusta forza per rendere più sicura quella prima scorribanda, dovemmo anche arretrare, planare d’emergenza, raccogliere i nostri primi caduti e fissarli nella memoria, anche se fissarli è una parola che inganna, noi non sapevamo ancora che proprio quando si fissa è più facile perderlo, il ricordo. C’erano ancora nuovi anfrattidove rifugiarsi, dopo quel primo assaggio di pianura, e il sole già si stagliava dritto di fronte a noi, laggiù all’orizzonte. Avemmo appena il tempo di fissarlo, per un istante veloce, e poi volgerci indietro verso le nostre ombre che mai più furono così lunghe, nell’istante in cui perdevanoil legame con l’infinito dal quale eravamo emersi. Lo perdemmo, ci immergemmo in un vallone di nuovo buio, ma non lo conoscevamo. Camminavamo in fila, veloci e serrati uno dietro l’altro, pronti a serrarci di nuovo ogni volta che qualcuno cadeva e lasciava di sé un vuoto duro da colmare. Eravamo come una corda tesa che qualcuno strattonava, ci sentivamo vibrare tutti insieme ad ogni colpo ricevuto, ma ogni volta il nostro giusto umore ricresceva, fresco e generoso come prima. Qualcuno si staccava di sua volontà e fuggiva in avanti, pieno di impazienza. Poi si fermava e lo raggiungevamo, altri però li abbiamo persi, per un po’ ci siamo attardati a cercarli ma poi abbiamo ripreso a camminare, entusiasmandoci ancora, e quando l’entusiasmo ci sembrò pronto, siamo di nuovo riemersi dai nostri anfratti.

Il sole ora è alto e la stanchezza si fa sentire, il cammino è diventato ancora un altro, diverso, siamo su un nuovo altipiano mai visto, largo, che sale, anche se di poco, rispetto a prima sembra quasi una discesa, e i vuoti tra le nostre fila oramai sono colmati da nuovi compagni di viaggio, più freschi e riposati, che oziavano da queste parti, in attesa che noi aprissimo il cammino. Siamo stati noi ad attirarli, così ci hanno detto, e ora vogliono fare la loro parte, noi forse ne siamo anche lieti, il nostro umore sembra sempre quello giusto ma è anche dolce potersi rilassare un po’. Alcuni dei nuovi hanno preso a camminare in testa, ci precedono, sembrano a loro agio su queste strade più piatte e ci indicano come procedere, l’andatura più consona a noi che ancora camminiamo sgraziati, come se dovessimo scalare chissà che, qui non c’è nulla da scalare. Sì, ci sarebbero ancora delle rocce da superare, ma ci dicono che sia meglio aggirarle. Solo in pochi tentiamo di salirle. Mi unisco anch’io, non so se faccio bene, procediamo gomito a gomito ma dobbiamo toglierci ogni tanto dal sentiero perché qualche altro che non conosciamo, partito dopo di noi, sale con il fuoristrada, chissà dove lo ha preso. Prima di superarci si fermano, ci aggiornano, parlano un po’ e poi ripartono, chi di noi vuole può anche aggrapparsi dietro e farsi portare un po’ in avanti, tra il fumo di scarico e la polvere che ci scaricano addosso. Si trova sempre qualcuno che si aggrappa. Noi no. Siamo arrivati su da soli ma degli altri andati avanti non c’è nessuna traccia, dobbiamo attendere un po’ prima di vederli uscire fuori, s’erano fermati in un ristorante nascosto da qualche parte ma noi non lo abbiamo visto lungo il nostro cammino. Riprendiamo tutti insieme ora è davvero una discesa, presto ritroviamo la folla di prima e questa volta facciamo fatica a camminare restando uniti tra noi gomito a gomito, la folla è disordinata e ci spinge qua e là, ci sparpaglia, forse dimentichiamo perfino il nostro umore. Siamo anche noi confusi nella folla, io stesso devo ritrovarm per non perdermi. Per la prima volta non riesco più a vedere bene che cosa accade davanti, ma proseguo lo stesso tra agli altri, il sole è alla sua massima altezza e ci picchia in testa, fa caldo, non c’è nessuna ombra e siamo in tanti, davvero, siamo quasi tutti qui.

Quasi, è il quasi ora che inizia a stuzzicarmi mentre vado ancora avanti, camminiamo tutti verso la direzione giusta, ancora ne siamo convinti, camminiamo cercando tutti di affollare il centro della folla, chi resta sul lato esterno rischia di perdersi, ma chi si perde in questo modo non lascia alcun vuoto da riempire, anzi alleggerisce la folla.  Non m’importa, io preferisco portarmi di lato, e camminare gomito a gomito con i nuovi compagni d’avventura, quelli  che come me preferiscono i lati aperti. Ogni tanto ci allontaniamo, camminiamo discosti qualche metro, continuando a seguire la folla ma da fuori, la guardiamo e la vediamo come la folla non può vedere se stessa. Ma proseguiamo anche noi insieme alla folla, con la stessa andatura, non vogliamo distaccarci troppo, qualche volte cerchiamo di accelerare il passo e precederla di un po’ ma nemmeno così riusciamo a scorgere cosa davvero accada in testa. Se c’è ancora una testa. Il sole sta iniziando a scendere e le nostre ombre riprendono lentamente consistenza, seguendoci allineate. Camminiamo, la prateria ora è davvero in discesa occorre fare attenzione a non prendere troppa velocità. La folla ora è in corsa e dal suo centro vediamo sollevarsi nugoli di polvere e formarsi al suo centro avvallamenti che risucchiano, come i mulinelli di un fiume in corsa che inghiottono ciò che riescono ad afferrare. Decidiamo di entrare dentro e andare  a vedere, vogliamo renderci conto. Ci aggrappiamo tutti a una corda per non perderci tra di noi e iniziamo a incunearci. È da un po’ che stiamo avanzando, lenti, come in una massa di burro che ci contamina, la presa della corda si fa scivolosa, qualcuno già si perde. O forse lo fa volontariamente, per abbandonarci e ridiventare tutt’uno con la folla disordinata. Il terreno non è compatto ma nessuno era stato avvertito, ci sono buche e tanti ci finiscono dentro, non sono questi i vuoti che dovrebbero colmare, chi arriva da dietro può proseguire camminando sopra i corpi di chi c’è caduto dentro, è così che la folla passa oltre. Noi abbiamo già visto troppo e a fatica torniamo verso il lato esterno ma siamo sempre di meno, e così è difficile restare aggrappati a noi stessi. Quando arrivo fuori il sole è già basso e io sono rimasto solo, aggrappato al mio margine, cammino di lato staccato dalla folla una dozzina di metri. Sparpagliati qua e là ce ne sono altri, solitari come me, ma non abbiamo più voglia di riprendere il cammino tra noi gomito a gomito. Alziamo ancora le nostre voci ma a caso senza alcuna armonia, isolate, è evidente che abbiamo perso qualcosa perché non me nesono accorto prima? Forse non era questa la direzione da seguire, inizio a dirmi, mentre continuo comunque a camminare, ma soltanto per inerzia, e la folla continua ad aumentare l’andatura su questo piano sempre più inclinato, c’è chi inciampa ruzzola o si rialza e tutto questo lo scambia per il suo passo naturale. Io ho già preso un’andatura più lenta, all’inizio mi sembrava quasi di restare indietro ma ora mi accorgo che non è così, tento di spiegarlo agli altri, che non è una questione di direzione ma di andatura, ma qualcuno già mi fischia addosso e m’insulta, mi deride e fa gesti da lontano, perché non mi fermo del tutto o addirittura non torno indietro, già che ci sono? Ma lo dicono solo perché così pensano di provocarmi. Io cammino ancora, staccato di lato appena qualche dozzina di metri, e non mollo, intanto il sole è di nuovo sul filo dell’orizzonte e la mia ombra si allunga, ancora una volta, verso l’infinito, come la risacca perenne del mare. Cammino ancora, non so verso dove ma la direzione adesso sono io a darla.

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4 commenti »

  1. Splendido!

  2. Pathos…ansia…mistero…lucida autoanalisi…e quell'”Altipiano” (non “Altopiano”) come amava scrivere Mario Rigoni Stern…

  3. Grazie a entrambe per i commenti. Loredana, troppo buona; mi fa piacere che ti sei trovata bene con la lettura. Gabrfiella, riguardo all’Altipiano, è vero, quelli di Rigoni Stern li ho percorsi tutti. Anche Emilio Lussu usa Altipiano, e quindi, anche se i dizionari consigliano diversamente, mi viene sponaneo, e poi un Altipiano, non so perchè, me lo figuro anche più spazioso, e più poetico

  4. Questo racconto e “Rumore di fondo” sono molto diversi, ma hanno entrambi un che di ipnotico che, anziché scoraggiare la lettura, ne induce una più consapevole e profonda.

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