Premio Racconti nella Rete 2021 “Lessico” di Teresa Celestino
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021“A casa vostra fate come vi pare, ma quando vi sedete nella mia macchina dovete parlare l’italiano” – ce lo diceva Nino “il pittore” non appena udiva un’espressione dialettale dai sedili posteriori; o semplicemente a scopo preventivo, per darsi un po’ di arie. Lui, che l’italiano non lo conosceva poi così bene. La figlia Vittoria, seduta davanti a noi sul lato passeggeri, stava prudentemente zitta. Io e Rita sghignazzavamo: il dialetto goffamente italianizzato sbucava di proposito, mentre interloquivamo con la voce impostata, la stessa che usavamo nel rispondere alle interrogazioni. A 9 anni sapevamo imbastire discorsetti in una lingua artificiale, vagamente libresca; al momento opportuno ecco infilarvi con nonchalance la nota stonata e scambiarci un sorriso d’intesa: vediamo se ci becca. Il gioco si ripeteva di lunedì e mercoledì, quando a Nino toccava accompagnarci a scuola. Le prime volte l’errore era stato spontaneo, poi avevamo preso dimestichezza con l’improvvisazione. Verso la fine dell’anno scolastico cominciammo a preparare il copione in anticipo, con un divertimento perverso e raffinato.
Questa mattina la mamma mi ha preparato un’insolita colazione, c’era persino una craffa squisita. (Ma ccè diciti!? Si dice craffen! Ve lo dice uno che ha lavorato in Germania, guardate che conosco pure il tedesco!)
Questa notte il gatto è balzato sul mio letto e mi sono sbantata. (Ma senti a queste…i vostri genitori vi imparano a parlare così?)
Ieri sono andata dalla nonna, le galline erano libere nell’ortale, mi facevano quasi paura! (Questa non l’avrebbe mai sgamata; ma poi scoprimmo che si trattava di una parola italiana, nonostante le maestre ci correggessero puntualmente: si dice orto!).
Domenica abbiamo pranzato dai nonni, come al solito c’erano le stacchiodde… (Ignoranti, si dice orecchiette!)
Dopo aver giocato a campana mettiamo le stacchie nel nascondiglio, sennò ce le rubano. (Qui non sapeva suggerirci un’alternativa, e a dire il vero non la conoscevamo neanche noi).
Il dottore ha detto che le gingomme possono provocare la carie. (Nessuna reazione, l’inglese era fuori dalla portata di Nino, mica come il tedesco…)
Lo zio dice che i piccoli non possono bere il miero, sennò si arresta la crescita. (Lu vinu, ppi ‘lla matosca, lu vinu!).
Il modo di far imbestialire davvero Nino era quello di ricordargli le sue origini leccesi chiamandolo pòppito (da post-oppidum, oltre la città; niente di offensivo, solo un’indicazione geografica, ma…). Più tardi, da liceale, appresi l’etimologia di mieru, dal latino merum. E anche di ortale, hortus. Stacchia in tutta probabilità derivava da staccare. E infatti le stacchie erano per noi semplici pezzi di mattonella, anche se altrove erano veri e propri frammenti di roccia; le rocce staccanti, appunto.
Nino morì per una banale caduta dalla scala sulla quale stava lavorando. Se solo fosse vissuto qualche altro anno, gli avrei spiegato le origini del nostro dialetto, ma credo non mi avrebbe ascoltata. Erano gli anni ‘80 nell’alto Salento, e il dialetto non era di moda. Non era considerato un patrimonio, ma qualcosa da cui ci si doveva emancipare. Noi bambine ci sentivamo importanti perché parlavamo in italiano, l’italiano della scuola. I nostri genitori ci parlavano in dialetto, ma non volevano che noi facessimo altrettanto. Per cui ci chiedevano in dialetto e noi rispondevamo in italiano; ci sembrava naturale. Meno naturale era la lingua forzata di Nino; percepivamo d’istinto le stonature e ne ridevamo. Non che fossimo accademiche della Crusca in erba; ci volle molto tempo perché venissimo a conoscenza della differenza tra un pittore e un imbianchino. Ancora all’Università, a Trieste, mi capitava di confondermi: oggi viene il pittore a imbiancare casa. E tutti si piegavano dal ridere. Giocavano in casa, i miei amici triestini, così mi correggevano anche per inezie alle quali non avevo il coraggio di ribattere: le comuni buste di plastica non sono buste, sono sacchetti. Le buste sono quelle di carta che si usano per le lettere. Alla scuola di guida ridevano nel sentirmi dire lo pneumatico; si dice il pneumatico. No, no, dicevo, guardate che dico bene; la regola è dire lo pneumatico, lo psicologo, lo psichiatra. Nel caso di pneumatico si può usare anche l’articolo il, ma è un’eccezione alla regola. Non è vero, la regola prevede sempre l’articolo il quando la p è seguita da un’altra consonante: il plotone e …il psicologo. Inutile portare il dizionario con gli esempi. Si rifiutavano di leggerlo.
Però nel frattempo io e le mie compagne di corso, a Chimica, avevamo inventato un linguaggio curiosamente ibrido tra il colloquiale e lo specialistico, che solo noi sapevamo decifrare.
Avevamo studiato le coppie che andavano formandosi in dipartimento, inizialmente sempre sbilanciate sul piano del rendimento nello studio. Poi il lui o la lei con più difficoltà miracolosamente cominciava a macinare esami a grande velocità. La spiegazione era che l’altro/a fungeva da catalizzatore. Noi avremmo fatto scrivere sul certificato di laurea: studi compiuti con le proprie forze, senza catàlisi. Per noi idealiste una relazione non doveva fondarsi su presupposti di convenienza, ma implicare un dare-avere, un po’ come il flusso di elettroni nel legame tra gruppo carbonilico e metallo di transizione nei complessi di coordinazione. Questi erano composti in cui un metallo centrale si legava a più gruppi atomici impiegando fino a sei braccia; se uno di questi per un qualche motivo si staccava, un altro legante poteva inserirsi a causa della vacanza coordinativa che si era creata. E così, le occasioni che occorreva cogliere prima che se ne approfittasse qualcun altro, erano dovute a momentanee vacanze coordinative.
Prima ancora di leggere Primo Levi, il cui mestiere di chimico ci era stato inspiegabilmente occultato negli anni di scuola, avevamo capito che la chimica è una sorgente inesauribile di metafore; qualcosa che si fa sentire anche da assente, come accade scorrendo le righe di Elias Canetti.
I miei compaesani avevano opinioni più concrete. Quando mi chiedevano cosa studiassi, subito dopo aver udito la risposta dicevano “Ah, robba di analisi, no?” e cercavano conferma con un cenno della testa, muovendo appena la mano col palmo rivolto verso l’alto e col braccio piegato. Ma la scena più comica ebbe luogo in auto, diretti a un matrimonio di amici nella Valle d’Itria. Questa volta anche Vittoria era seduta sui sedili posteriori. Mio fratello Massimo ogni tanto si voltava verso di noi e strizzava l’occhio prima di sfruculiare il guidatore per ottenere l’effetto sperato. Un po’ come facevamo io e Rita con Nino ma senza tirare in ballo la lingua, che pure era essenziale per dare forma alle opinioni bizzarre di Vincenzo su questioni di politica, presunte reti di spionaggio, ruolo degli americani nella vicina Base Usaf di Brindisi. Questi, secondo il parere di Vincenzo, avevano sotterrato ogni sorta di materiale radioattivo sotto i campi da golf, e svariate armi chimiche non meglio precisate. Nascondevano spie che si infiltravano nei palazzi del potere condizionando la politica italiana; anche se il più grande destabilizzatore della nazione era stato Di Pietro, ca’ s’era ffari li cazzi sua, perché aveva rotto un equilibrio. Un equilibrio che si basava sulle tangenti, sì, ma pur sempre un equilibrio. I recenti fatti di cronaca giudiziaria lo mandavano in bestia. Pagare è normale, diceva, è normale; è un vizio vecchio quanto il mondo, quello di pagare ciò che non si deve pagare. Perché, i miei genitori non hanno pagato per farmi entrare in aeronautica? Tozzo e miope com’era, non stentavamo a crederlo.
E voi? – chiese d’un tratto – E voi che fate nella vita? Studiate? Massimo mi dice che siete brave a scuola, tutte e tre. Rita rispose che il tempo della scuola era chiuso; aveva iniziato l’Università a Bari, ingegneria elettronica. Vincenzo la fissò dallo specchietto retrovisore con gli occhi sbarrati, evitando di scansare una buca che per un momento catturò i nostri sederi nella strada dissestata percorsa a gran velocità dalla 127 scassata di Vincenzo. Mizzica! Allora tieni ‘na capu tanta! E mentre prendeva un’altra buca, allargò le braccia come a simulare il volume del cervello di quella ragazza carina ma così anonima e discreta.
Vincenzo si rivolse quindi a Vittoria. Rispose Rita al posto suo, Vittoria rideva ancora dopo l’urlo di Massimo. Lei si sta preparando al concorso, vuole fare la maestra alle elementari. Vincenzo guardò ancora dallo specchietto retrovisore cercando il volto delicato di Vittoria; reclinò appena il capo di lato in segno di approvazione, le labbra serrate con le estremità verso il basso. Una manifestazione di ammirazione, sebbene molto meno plateale di quella riservata a Rita. Il caso, ad ogni modo, gli sembrò poco interessante, e passò subito a me. E tu che fai, Antonié? Tuo fratello mi conta miracoli di te. Dice che a scuola eri un cannone. E mo’ che combini? Massimo si intromise, incurvando le labbra in un mezzo sorriso: guarda, in futuro potrebbe scoprire tutte le porcherie seppellite sotto i campi da golf della base americana. Ah… disse Vincenzo: sei una di quelli che scavano? Che ne so, archeologa? No, facevo con la testa. Poi potrebbe pure trovare qualcosa che ti arresta la caduta dei capelli. Qui Massimo carezzò bonariamente i radi peli sulla sommità del capo di Vincenzo, come a sfotterlo per le continue e inutili visite tricologiche cui si sottoponeva. Farmacista? Medico? Ancora no con la testa. Il mistero, anziché svelarsi, si infittiva. Poi ti potrebbe anche consigliare l’olio più adatto da mettere al posto della benzina intra ‘sta scasciunetta – continuò Massimo alludendo alla 127 datata di Vincenzo. Ingegneria anche tu? No, per carità, dissi stavolta. Non potrei mai fare l’ingegnere. Mica sono pazza come Rita. Vincenzo si arrese. Continuava a guidare all’impazzata; trulli, masserie e muretti a secco si susseguivano veloci oscillando ad ogni buca. Convinto che non ci sarebbe mai arrivato, Massimo pronunciò solennemente: chimica. Mia sorella Antonietta studia chimica. AAAhhhh, reagì Vincenzo alzando al cielo una delle braccia mentre teneva l’altra mano sul volante. Era così facile…. Come mai non ci sono arrivato. E poi, col tono di uno che la sa lunga: il chimico, sì, farai il chimico. Il chimico, ripeteva fra sé e sé, curu ca faci l’analisi ti la pisciazza.
Un silenzio innaturale penetrò nell’abitacolo.
Complimenti per la scrittura, molto piacevole. E divertente il racconto, bello il ricordo di Primo Levi, l’ho letto più volte quel libro. Ora invece mi sono azzardato a cercare la traduzione corretta della chiusa finale, e mi sono imbattuto non solo in articoli sui dialetti brindisini e salentini, ma anche in un articolo sui “francesismi” nel dialetto napoletano, e poi ho scoperto che esiste una “Punta della Pisciazza” a Ischia: dev’essere favolosa.
Non sapevo di questo luogo di Ischia! Anche se quelle parole sono state realmente pronunciate, “pisciazza” non esiste nel vocabolario sanvitese – italiano, cui il mio prof di lettere dei liceo aveva contribuito. E’ una parola usata nel Salento, ma non particolarmente a San Vito dei Normanni, il luogo di origine di Vincenzo.
E comunque è chimica anche quella….Ha letto il racconto sulla pollina di Primo Levi? Si trattava di recuperare i prodotti di scarto di volatili (in pratica la “pisciazza” delle galline), a quanto pare molto pregiati per la presenza di un composto chimico ricavabile dall’acido urico in essi contenuto.
Insomma, tutto sommato Vincenzo non aveva tutti i torti… E sempre quel mio prof di lettere usava dire quando esitavamo a rispondere: “Dai, non vi sto mica chiedendo l’analisi chimica dell’urina del gatto!”. Ma forse in quel caso alludeva all’odore pestilenziale…
Ciao Teresa, mi è piaciuto molto il tuo racconto. Forse perché sono un lucano che vive fuorisede e mi sono sentito molto vicino alla protagonista che parlava in terra straniera. Confermo tutto quello che hai detto, le sensazioni, le risposte dei compaesani e la fatica nello spiegare cose che sono lontane dai modi di vivere e di vedere (di gente che non vuole conoscere cosa c’è oltre il proprio naso).
Divertente e apre spunti di discussione
Brava!
Grazie, Fabio. È bello vedere che sono riuscita a trasmettere la frustrazione dei fuori sede continuamente corretti se non presi in giro per il proprio modo di parlare! Secondo un percorso comune a molti, dopo le iniziali difficoltà ho iniziato ad apprezzare i lati positivi del vivere fuori, esperienza impagabile dal punto di vista dell’apertura mentale. Tuttora penso che studiare e lavorare a Trieste sia stata una delle scelte migliori che abbia mai compiuto.
Grazie Teresa per il bellissimo racconto che hai scritto. Un richiamo forte alle tradizioni, alle nostre radici che nel nostro dialetto chiamiamo “taricate”. Mi hai riportato con i piedi per terra….non dimentichiamo mai chi siamo e dove stiamo andando.
Ho avuto il piacere di conoscere personalmente Teresa ai tempi del liceo, che frequentavamo nella ns cara “Santu Vitu”….. quando anche io avevo mille sogni nel cassetto. Come avrebbe detto mio nonno buon anima, già allora si vedeva che Teresa era una ragazza “basata”, ossia “posata”, in una parola una brava e bella persona, che stimo tanto.
Continua a scrivere….mi raccomando, aspettiamo un altro bel racconto.
Un caloroso saluto dal tuo compaesano Michele. Con stima.
Ciao Michele, grazie! Questa immersione nel dialetto diventa sempre più interessante. L’aggettivo “basato” è emblematico, riassume tutta una serie di caratteristiche che, di fatto, echeggiano il corrispondente italiano “posato” di manzoniana memoria. Io lo associo alle nonne, alle zie e alle vicine di casa di una certa età; non a caso tu ricordi tuo nonno. E’ incredibile il potere evocativo delle parole dialettali. Il tuo stesso tono è proprio quello della sincera genuinità paesana. Quel tono cordiale senza finzioni percepito come ingenuo dalle persone costruite e invece così vicino all’essenza delle cose. A presto!
Divertente e direi anche istruttivo in qualche modo. Ha una piacevole leggerezza che lo rende ancora più apprezzabile.
Grazie Francesco. La leggerezza è spesso il modo migliore di comunicare concetti “pesanti”. Calvino non aveva tutti i torti…Dietro quelle righe è in effetti nascosta una sensazione di straniamento a tratti pesante, quel non essere né carne né pesce. Nel mio caso, però, questa sensazione si è poi tradotta in un vantaggio: ero andata fuori per studiare, un grande privilegio che oggi ai più sembra scontato, in paesi come l’Italia. Non altrettanto privilegiati sono stati i nostri connazionali emigrati in Germania per fare i manovali come Nino….
Spiritoso e arguto. Mi ha divertito soprattutto la sezione di Nino il ‘pittore’. Complimenti.
Grazie!
Sono di origini pugliesi e mi sono rivisto bambino sulla Fiat 127 di mio zio. Lui era professore, eppure mi parlava in dialetto perché sosteneva che ogni lingua locale porta avanti una diversa prospettiva di guardare il mondo. Guardare il mondo da più angolazioni diverse rende consapevoli e rispettosi. Un racconto allegro e ironico ci voleva, troppo pessimismo avvelena l’anima.
Grazie, Carlo. L’ironia è la nostra salvezza molto più spesso di quanto si creda.
Molto, molto bello e ben scritto. C’è un sapiente uso delle parole dialettali per creare dinamicità e situazioni ironiche, ma mai banali, anzi. Belli i dialoghi e la caratterizzazione dei personaggi. Un racconto ben strutturato e colto, sicuramente da valutare su “più livelli” visto che sotto la conversazione leggera ci sono molti più concetti su cui riflettere. Complimenti!
Gentile Davide, ti ringrazio per questo tuo commento. Sicuramente strutturare il racconto su più livelli era una delle mie intenzioni; un modo di far passare dei concetti, seppure a livello semi-consapevole, ma sicuramente raggiungendo una platea più vasta rispetto a uno scritto di altra natura sui temi affrontati
Cara Teresa, non avevo ancora commentato il tuo racconto, pur avendolo letto da un po’. e’ sicuramente un testo piacevole da leggere, interessante e ben scritto, ma c’è dell’altro. E’ anche un testo complesso ed a farmi riflettere su questo sono serviti gli ultimi commenti. Il testo è complesso come è complessa la chimica, non “difficile” come molti pensano ma sicuramente complessa, e da svelare un po’ alla volta come in un racconto con suspence. Sarei curiosa di sapere di più sulla genesi del tuo racconto. Da collega a collega.
Cara Collega, ringrazio anche te di questo lusinghiero commento. Davvero non mi aspettavo riscontri così aderenti ai diversi aspetti di ciò che era mia intenzione comunicare. Ho vari racconti scritti nell’arco degli ultimi vent’anni, mai pubblicati in quanto rispondenti semplicemente a un bisogno di fermare il tempo o alla paura di perdere i ricordi infantili. Ritenevo la struttura della maggior parte dei racconti non matura, nel senso che si trattava di scritti molto focalizzati sulla mia individualità. Tuttavia, le rare volte che qualcuno ha letto ciò che ho scritto, vi ha trovato significati che prescindevano dalle mie personali esperienze su temi che mi stanno molto a cuore: il sud, lo studio come mezzo di emancipazione, la ricerca del lavoro, l’importanza di lasciare il nido e di conoscere altri mondi; in alcuni scritti ho indagato quest’ultimo aspetto a partire dall’infanzia, quando mio padre lavorava in una base americana: il mio paese era letteralmente invaso da famiglie di militari che sfruttavano le case locali. Un mix, quello tra USA e Salento, che non è stato ancora descritto e studiato dal punto di vista sociologico-narrativo. Il racconto qui proposto è nato qualche anno fa come omaggio per una amica di infanzia. Poi l’ho visto e rivisto, allungato, accorciato, limato. La struttura finale è simile a quella di altri racconti: il salto tra dimensioni temporali distanti, la simmetria per alcuni aspetti, la combinazione di più registri linguistici (scientifico, dialettale, etc.), l’ etimologia.
Quanto alla chimica, hai centrato il punto: la tua lunga esperienza di studiosa e docente ti rende sicuramente sensibile al modo di comunicare le scienze, ed hai colto la potenza del racconto anche per una materia a torto ritenuta difficile come la chimica. Personalmente uso molto la forma del racconto nell’illustrarne la genesi. Ma è lo stesso linguaggio chimico ad avere di per sé enormi potenzialità nella narrativa, come insegna uno dei più grandi scrittori del Novecento.
PS: ovviamente mi riferivo alla potenza del racconto in senso lato, come metodo didattico per tutte le discipline, anche scientifiche. Inoltre volevo scrivere “affittavano”, non “sfruttavano”
Si il racconto e in generale la dimensione artistica e creativa sono potenti anche nelle discipline scientifiche, ma la scuola non sempre è pronta.