Premio Racconti nella Rete 2021 “Invisibile” di Francesco Montonati
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021Quando si parla di agricoltura biologica tutti pensano a qualcosa di bello, a una cascata di grano dorato sotto un cielo azzurro terso. Solo che quel grano, come lo vediamo adesso, non è sempre stato così. Non era così, per dire, ai tempi dei romani. Era più scuro, meno buono, e infestato da bestioline. C’è stato l’intervento dell’uomo, che nel corso dei secoli ha scelto le piante più pregiate e quelle più resistenti, scartando le altre. C’è l’intervento dell’uomo anche quando mangiando gli spaghetti non ci capita insieme al grano di ingerire anche insetti tritati. C’è tutto un lavoro là dietro, che nessuno vede e nessuno sa. Stessa cosa con il rosmarino, qui al vivaio. Lo disinfetto, prima di esporlo al pubblico, non voglio vendere piantine infestate da parassiti.
Sotto il lavabo c’è la garolina di Reldan. Basterebbero 20 ml di prodotto ogni dieci litri di acqua, ma io ne uso venti per otto litri, così è più concentrata. Ci aggiungo anche del Closer, un altro insetticida potente: voglio farle fuori tutte quante quelle carognette. Con quel coso sulle spalle e spruzzare a destra e manca, mi sembra di essere un’acchiappafantasmi, solo che quando spruzzo si alza sempre un odore fetido e nauseante, come di una carcassa in putrefazione. La prima volta è dura, ma piano piano ci fai l’abitudine, o almeno così dicono. Io metto la mascherina per sentirlo di meno, ma sono due anni che lavoro qui e ancora non mi ci sono abituata del tutto. Oltre al puzzo di marcio, ogni volta che faccio quel lavoro si sollevano anche le lamentele dei colleghi. Sandro, ad esempio, il cicciottello del reparto Piante da Giardino. Mi dà sui nervi con i suoi scherzi idioti perché la mattina non sono ancora del tutto lucida e non ho la prontezza di rispondergli a tono.
Ohé, mi strilla, ’sa set adré a fa’ cun chel rob lì? Che udur!
Crede di essere simpatico, ma il mio sguardo dovrebbe fargli capire il contrario. Lo fisso sempre come se me lo volessi mangiare, lui e il suo culone, ma ogni volta è sempre la stessa storia.
Ero vicina al telefono, quando è suonato, per questo ho risposto io. È dentro lo stanzino, come lo chiamiamo noi, un loculo di un paio di metri quadri, senza finestre, dove uno va lì a mangiare a pranzo, o a fumare, quando non lo vedono. Mino il mingherlino, figlio della proprietaria, fa finta di passarci per caso e se sei dentro a fumare lo va a dire alla vecchia. Io non fumo, non ho questo problema, ma il Sandrone più di una volta s’è sentito le sue. Io mi limito a ridergli in faccia, quando mi passa vicino con i suoi occhietti da talpa, ma il Sandrone ci rimane male. Appoggio la bestia verde a terra, vicino al mobile del telefono e premo l’interruttore diverse volte. Impreco forte e la vecchia mi risponde da chissà dove.
«È fulminata!»
Allora lascio la porta aperta per far passare un filo di luce, anche se oggi è una giornata buia, uggiosa e la foschia si sfilaccia sulle piante spinta da un venticello freddo.
Alzo la cornetta, il telefono è un vecchissimo modello grigio con la raggiera, che fa ancora driiin quando squilla. Dall’altra parte, una voce arrochita, come di una persona che si è appena svegliata. All’inizio non riesco a capire se è uomo o donna. Mi chiede il preventivo per pulire la tomba del marito nel cimitero di Ossago Lodigiano due volte al mese, allora deduco che è una donna. Le dico sessanta, senza nemmeno chiedere alla vecchia. Trenta a botta. Caro? Del resto, ci vuole più tempo per arrivare in quel postaccio che a pulire la tomba.
«Ci fa un bonifico o ce li porta qui?»
«Se iniziate domani, mi faccio trovare alle otto».
«Bene» dico, «perché apre alle otto. Sarà difficile che mi veda lì prima. Signora?» Ha già attaccato.
Riprendo a spruzzare diserbante insetticida, Sandro a bestemmiarmi, Mino il meschino a girovagare per il vivaio senza apparentemente fare nulla. Chi era? mi chiede la vecchia, invisibile dal suo nascondiglio. Io mi giro verso la sua voce che sembra provenire da dietro le camelie e mi accorgo di rispondere una ragazza. Solo adesso mi rendo conto che è quella l’impressione che ho avuto. «Una giovane vedova, vuole che le puliamo la tomba del marito.»
«Quante volte?»
«Due al mese, come al solito.»
Sto per rimettermi a spruzzare che arriva la sua vociaccia sgraziata. «Ottanta! Dovevi fare ottanta!»
Misuro con lo sguardo la serra per stanare Mino il tapino e lo pesco, è lontano, allora alzo il medio in direzione delle camelie.
La sera torno a casa con il Fiorino che ho già caricato con materiale e attrezzi, domani andrò direttamente al cimitero, senza passare dal vivaio.
Esco alle 6.50, c’è ancora buio, un gelo paralizzante, salgo sul furgone e accendo il riscaldamento. Con la nebbia non riesco a vedere la fine del cofano e la vegetazione ai margini della strada è coperta di brina spessa. Vado piano lungo la provinciale, perché è una stradina stretta e tutta curve. Il ghiaccio sull’asfalto è sempre insidioso e, anche se questa strada l’ho fatta un’infinità di volte, la nebbia scura riesce sempre a strapparmi un brivido. Se incroci qualcuno qui te ghè da fermatt, ed è quello che faccio quando quei due fari enormi mi arrivano incontro veloci. Rallento, accosto, ma l’altra macchina non accenna a fare lo stesso, continua a corrermi incontro. Sento il suo motore alzarsi di giri. Mi sposto ancora, ma esco di strada con le ruote di destra. Inchiodo sul ciglio, il Fiorino in bilico, obliquo e traballante. Alla fine mi sfreccia a fianco e l’aria fa sobbalzare il furgone. È un fuoristrada massiccio e nero, torvo, ma non riesco a vedere niente dentro, tra fari e buio. Rimango ferma nella campagna, i fari accesi verso il vuoto e la nebbia buia. Abbasso il finestrino e caccio fuori la testa, ma il fuoristrada si è allontanato e non riesco a vedere la targa. I suoi fanali evaporano in una macchia di nebbia rossastra.
Non avevo mai visto quella macchina da queste parti. È piuttosto vistosa, l’avrei notata. Forse non è di queste parti. Forse passava qui per caso.
Arrivo al cimitero alle otto meno dieci, il cimitero è ancora chiuso e mi tocca aspettare Carmelo. La signora non c’è ancora. Le otto arrivano insieme al custode, che mi osserva con il suo sguardo strabico e mi apre senza dir nulla, nemmeno buongiorno. Aspetto ancora dieci minuti prima di entrare, poi gli chiedo di avvertirmi nel caso vedesse una donna o di avvertire lei che sono dentro. Lui mi fa un cenno con la testa, ma va tutt’altra parte rispetto alla sua guardiola.
Il cielo sta schiarendo ma è una di quelle giornate che non vedrà mai la luce. Un reticolo di nebbia grigiastra copre il sole e affiora dalla terra, velando le lapidi e l’ambiente circostante. Le cime scure e affusolate dei cipressi sembrano avvolte da nugoli di cotone, disfatto e ingrigito dal tempo. Avanzo per il sentiero centrale del cimitero, i miei passi risuonano sordi, masticati dalla sabbia e dalla ghiaia. Le lapidi sono disposte a due a due, e quella che devo pulire, accoppiata a una identica, è di marmo scuro e ha una forma piuttosto semplice, senza decori. C’è solo un fregio, in alto, e l’epitaffio dice:
TOMASO DE CURTIS
(1958-2019)
Un sogno che capiterà anche a te
Spruzzo il mangiapolvere, di polvere ce n’è parecchia. Sembrano passati anni dall’ultima volta che qualcuno è venuto a pulire. Passo lo straccio, rapida, passate fulminee, senza esitazioni. Pulisco la parte frontale, poi passo al retro. Spruzzo, la macchia bianca si contrae come un animale ferito entrando in contatto con il marmo gelido. La raccolgo con lo straccio umido. Spruzzo e frego. La foto, la scritta, il piccolo Gesù Cristo sul fregio. Spruzzo e frego. Ora le piantine. Tiro fuori la forbicina e inizio a sferruzzare quelle troppo lunghe. Devo innaffiare la nandina domestica e due dipladenie bianche, perciò vado a prendere l’innaffiatore del cimitero comunale di Ossago Lodigiano, plastica color carta da zucchero con tanto di logo del comune in rilievo, torno e mi accorgo che sotto il vaso c’è una busta. Il cimitero è deserto. Apro la busta, quaranta euro. Sento di avere vagamente voglia di bere, ma non credo che basti l’acqua gasata che ho sul furgone. Mi ci vuole qualcosa di forte. Un profondo respiro, infilo i soldi in tasca – avevamo detto trenta – e finisco il lavoro. Quando passo dalla guardiola, Carmelo è al davanzale che fissa il vuoto; fa paura con quegli occhi da camaleonte. Faccio un cenno con la mano, lui risponde con la testa.
«L’ha mica vista la signora che le dicevo?»
Lui scuote la testa.
«Perché mi hanno lasciato dei soldi lì, sulla lapide. Però se prima era chiuso, il cimitero, sarà arrivata adesso. Sicuro di non averla vista?»
Carmelo mi guarda, le labbra curvate verso il basso, la barba ispida sul mento appuntito, si stringe nelle spalle.
Carico il furgone senza aggiungere altro e mi preparo per l’oretta di viaggio di ritorno, la nebbia sembra essersi diradata. Sto per accendere il motore ma la mia mano si immobilizza sulla chiave. Mi stanno battendo sul vetro. È Carmelo che mi fa cenno di seguirlo. Non ricordavo che fosse muto. Entra nel cimitero e prende la stradina di ghiaia e sabbia. Lo seguo incuriosita.
Ho lasciato in giro qualcosa? Ho potato per sbaglio le piante di qualcun altro? Se fai una buona azione in un cimitero, rischi grosso. Se tocchi un morto non tuo, se gli cambi l’acqua ai fiori, se gli innaffi le piante nei vasi, poti, o magari gli dai una spolverata alla lapide, capace che ti trovi un vivente a dirti di non impicciarti. Parlo per esperienza, e non è stato carino.
Il custode strabico si ferma davanti alla lastra tombale di De Curtis, lucida che ti ci puoi specchiare –lavoro eccellente, mi congratulo con me stessa. Mi indica qualcosa e se ne va. Il cielo è basso e scuro, e si alza un vento che mi getta foglie accartocciate e aghi di abete in faccia. Ma dove diavolo è un abete, qui? Non c’è nessun abete, io me ne intendo di piante. Qui non c’è nessun abete. Poi, finalmente, capisco cosa stava indicando Carmelo: la lapide di fianco a quella di Tomaso De Curtis. Ci passo una mano per levare la coltre di polvere.
MARIA VERONICA BELANTI IN DE CURTIS
1961-2001
Non piangere, la morte è solo non vedermi più
Tornando, la ghiaia sembra meno pungente sotto le scarpe. Ha iniziato a piovere e ora le gocce picchiettano forte sul parabrezza. Rimango un po’ a guardare nel vuoto, lo sguardo fisso su niente in particolare, come Carmelo poco fa alla finestra della sua guardiola. È solo un’assoluzione consolatoria quella che mi do non vedendo. Come tanti altri fanno, come tante altre cose nella vita. Metto in moto e parto diretta al vivaio. Non so se mi andrà di parlarne, l’invisibile è invisibile fintanto che non lo vuoi vedere.