Premio Racconti nella Rete 2021 “Puoi chiamarlo amore” di Laura Frangini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021Piccola, quasi ritirata come se avessero lavato il cappotto con te dentro. Le spalle curve, la schiena ingobbita, procedi a passi incerti verso l’accoglienza. A vederti sembri un passero caduto dal ramo, la nuca spelacchiata rivela la pelle bianca e un po’ accartocciata. Una volta, lì, c’erano capelli foltissimi, talvolta raccolti un bellissimo chignon, tenuto insieme da minuscole forcine. Tanto tempo fa. L’ infermiera ti chiede il nome con un tono di voce alto, immaginandoti un po’ sorda, vista l’ età. Allora alzi gli occhi e la fissi severa, con quello sguardo che era più di uno schiaffo per me, quand’ ero bambina.
Lei ripete. “Come ti chiami?” Lo so cosa stai pensando: ma perché mi dà del Tu, chi la conosce questa?! Però non lo dici, la fissi male e basta, se vuol capire capisca. Lei aspetta un po’ spazientita con la lista in mano. Alla fine le dici il tuo nome e cognome. “Bene, Anna, sei il numero 47, adesso siediti laggiù e aspetta”. Intanto con la penna ti cancella dalla lista. “Questa è tua figlia?”, aggiunge, accennando a me che ti sto alle spalle. “Anna, fatti accompagnare da lei”. Tu le spari addosso un’ultima occhiataccia. “Ci vado da sola, mica sono rimbambita!” Stavolta la risposta non gliel’ hai fatta aspettare, una risposta secca, dal tono urtato come quelle vecchie signore quando si rivolgono alla servitù un po’ pasticciona per rimproverarla. La conosco bene quella stizza, sarà l’ultima cosa a svanire, quando già il corpo avrà ceduto. È stata sempre un passo avanti a te, uno scudo che ti ha difesa dagli attacchi del mondo. E tu, là dietro, mi parevi invincibile, una vera eroina corazzata contro il Male in ogni sua forma, dalla cattiveria della gente così come dalle placche alla gola. Respingevi qualsiasi cosa.
Ora sei lì, che vai avanti piegata dagli anni e dalle tante battaglie per lo più perse, ma sempre fiera, con quel tuo orgoglio, ferito da un corpo che non risponde più ai tuoi imperativi come un tempo. Dieci passi e hai già il fiatone. Ti guardi intorno cercando una sedia lontana dalle altre. Ti piace quella al centro, mentre gli altri siedono per lo più su quelle ai lati, appoggiate contro al muro. A me indichi col dito un posto più in là, su un altro sedile non troppo distante, ma nemmeno attaccato. Sei ancora tu a disporre ogni cosa, a decidere ruoli e a dare ordini. Sarà così fino all’ultimo giorno.
Mi metto seduta da una parte, ti lascio la scena, il palco è tutto tuo..
Prima di accomodarti appoggi la borsa firmata sulla sedia. Con cura ti togli il foulard dal collo, aggiustandoti con la mano i giri di perle. Ti sfili anche il cappotto e lo ripieghi sull’avambraccio, curandoti però che non copra il bracciale. Ci tieni molto all’eleganza, ci hai sempre tenuto. Non è vanità, o non solo quello, ma è un segno distintivo per te, un modo per dire “portatemi rispetto, non sono una donnetta da poco”. Orgoglio, sempre orgoglio, antico retaggio di famiglia e dell’ educazione di un tempo, fatta di regole severe tra le mura del collegio. Le altre anziane ti guardano, percependo una differenza fra loro e te. Saranno quei dettagli eleganti che sfoggi con un certo esibizionismo, sarà quella faccia da sfida che hai sù, ma avvertono chiaramente che sei diversa. Loro appaiono fragili con gli occhi spauriti, si appoggiano alle figlie per darsi coraggio, si fanno portare. Tu no, sei tu che porti me, come quando da piccola mi permettevi di venire dal parrucchiere, purché stessi buona sulla seggiolina a fianco. Me ne davi licenza. Anche oggi è così. Sono lì perché me lo concedi. “Quarantesette”! Stanno chiamando il tuo numero, mamma.
La dottoressa in piedi davanti alla tenda fruga con gli occhi tra gli anziani seduti nella sala di attesa. Io alzo la mano “Eccoci, siamo noi il quarantesette” dico, ma tu mi zittisci subito. “Sono io, tu che c’entri?!” E ti avvii. Metti ancora una volta una distanza fra noi, se qualcuno ci guarda penserà che sei una vecchia inacidita, non sa che lo fai per proteggermi. Io lo so, tranquilla. La dottoressa però rovina i tuoi piani, mi fa cenno di avvicinarmi, apre la tenda e fa accomodare te sulla sedia di fronte alla sua. Io resto in piedi. Fatti i convenevoli, viene al dunque “Allora signora Anna, adesso le faccio delle domande e le spiego tutto.” Meno male che non ti dà del Tu, penso.. “Guardi dottoressa, non perdiamo tempo, questo è il foglio con le medicine che prendo sempre, anche se da tre giorni le ho sospese per sicurezza, veda se c’è qualcosa che può fare reazione e poi mi dica dove devo firmare”, rispondi d’un fiato con tono perentorio, prendendo in mano le redini del colloquio.
La dottoressa ti guarda perplessa, poi guarda me. “La signora deve rispondere alle MIE domande, non farle”, mi dice, “le dica che adesso mi deve ascoltare perché le spiego come funziona, dopo mi può chiedere quello che vuole.” Beh, se c’è una cosa che ti manda veramente in bestia, è che parlino in terza persona di te, davanti a te! Ti infuri subito. “Guardi, non la faccia tanto lunga dottoressa e lasci stare mia figlia, parli con me, che io non sono mica deficiente! Non mi deve spiegare proprio nulla del vaccino, so già tutto quel che c’è da sapere, non parlano d’altro in tv, quindi si sbrighi, sennò me ne vado!” Non ha nessuna possibilità di spuntarla la dottoressa, comandi tu. Mi sa che ora l’ ha capito anche lei. “Certo che sua mamma è ancora bella in gamba, eh!” , mi fa, per non dire che sei una rompiscatole. E finalmente la tua bocca si apre ad un sorriso. Questo complimento ha solleticato la tua fierezza, non riesci a trattenere la soddisfazione per il riconoscimento della tua forza di carattere. “Figuriamoci, sono una povera vecchietta ormai..” ti sminuisci senza alcuna convinzione, mentre continui a ridacchiare “Lei è una povera vecchietta come io sono la Fata Turchina!”, ribatte la dottoressa e ti fa firmare il foglio, contenta in fondo di liberarsi di noi e di passare oltre.
Ecco, ora possiamo avviarci verso la sala dei vaccini. Ancora una sedia da scegliere, ancora una piccola attesa da fare. Intorno, sempre le facce di prima, le povere signore anziane spaurite. Una in particolare si lamenta. Dice che ha tanta paura che le possa venire la febbre. “Ma su, cosa vuole che sia”, le dici, prendendo naturalmente il tuo ruolo di leader “casomai si prenderà la tachipirina, ma poi alla nostra età che abbiamo più da temere ! Sarà quel che sarà” La signora ti guarda con gli occhi lacrimosi “Sì, lo so, me lo dice pure mia figlia, ma io ho tanta paura” “invece deve essere contenta”, insisti tu, “pensi che bello, fra cinque minuti ha fatto, mentre tanta gente dovrà aspettare chissà quanto! Noi siamo fortunate!” Stavolta fai centro. La signora si calma, fa un mezzo sorriso e sospira più rilassata. Ti guarda riconoscente e ammirata, sei già il suo mito. Arriva l’infermiera a prenderti, adesso devi entrare da sola, noi parenti non siamo ammessi. Vai dritta senza voltarti, senza dirmi nulla, tanto lo sai che non mi allontanerò da qui.
La saletta d’aspetto sembra vuota all’ improvviso. Ci sono ancora diverse persone in attesa, compresa la “lacrimosa”, ma senza di te si è come spenta la luce. È la metafora del mondo, come mi sembrerà il giorno che te ne andrai.
Dopo pochi minuti eccoti già di ritorno, la manica ancora alzata e la faccia soddisfatta, sembri un pugile che esce dal ring, vittorioso. “Bene, ho fatto, ce ne possiamo andare”, e fai per rimetterti il cappotto”. “Ma dove vai Anna, dove vai, statti buona qui dieci minuti, che ti dobbiamo controllare”, dice l’ infermiera alle tue spalle con tono di comando, di nuovo rivolgendosi a te con il Tu. Ma sei troppo contenta adesso, per rimbrottarla con una rispostaccia. Bofonchi sommessamente un “voglioandareacasa”, ma senza livore. La stizza di prima ha lasciato il posto alla fragilità, ora sei anche tu una vecchietta docile. La corazza l’hai tolta per fare il vaccino e ancora non l’ hai rimessa. I dieci minuti volano in fretta, l’ infermiera ti chiede come ti senti. “Bene bene”, le rispondi sicura e già sei in piedi. A questo punto possiamo andare. Stavolta ti lasci prendere sotto braccio, un lusso che ti regala questo nuovo stato di serenità.
Anche se lo sappiamo che è provvisorio. Magari non sarà il Covid a portarti via, ma certo la strada rimasta non è molto lunga. L’età non perdona, nemmeno i tuoi acciacchi, troppi.
Ma non sarà certo oggi, sei troppo elegante per morire, troppo contenta.
Inciampi per un attimo su un sanpietrino sconnesso, ti aggrappi al mio braccio per non cadere, io ti tengo. Ci stringiamo una all’altra. Dai, ce la faremo! Oggi il Male troverà un altro posto dove stare, qualcun’ altro da perseguitare. Intorno a noi c’è un muro impenetrabile che ci protegge, più forte della tua corazza, più forte del vaccino appena fatto. Io lo sento, tu lo senti. Non so esattamente cosa sia, non ha nemmeno un nome. Se vuoi, puoi chiamarlo amore!
Pagine che non possono mancare queste, specchio di una realtà che stiamo vivendo tutti in prima persona. Qualcuno se n’è andato, qualcuno ce l’ha fatta, altri sperano ancora. Alla fine comunque e sempre l’amore a sostenere il mondo intero.
Bello, brava!!!
Grazie Barbara, gentilissima !
Complimenti. Vivissimo il ritratto della signora Anna e l’immagine finale della madre che si aggrappa al braccio della figlia è molto evocativa.
Sig Gianni grazie per aver letto con attenzione questa storia, sono felice di averle trasmesso una qualche intensità .. l’ho scritto intingenfo la penna nel cuore..
Davvero un bel racconto. Si sente l’amore che accompagna ogni singolo gesto, anche il più ruvido. Siamo quello che facciamo, non quello che diciamo…e in questo racconto i gesti descritti coprono tante parole di finto astio.
Complimenti
Storia tenerissima.
Grazie Fabio Volpe .I sentimenti sono complessi e le parole spesso non bastano ad esprimerli..
Racconto dolcissimo, complimenti
Teresa Celestino grazie.
Alexandro Lupi, grazie.