Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2021 “Morsi” di Fabio Volpe

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

Né bambino, né uomo. Avevo solo quindici anni.

A quell’età avrei dovuto essere felice, credere nell’amicizia, urlare alla vita e bussare alla porta dell’amore con il cuore spalancato. E invece passavo le mie giornate chiuso in camera a guardare il soffitto, a proteggermi dall’ironia, dal sarcasmo e a salvare quel cuore che diventava sempre più piccolo. Cercavo aiuto per dimenticare chi fossi e ogni mattina abbassavo la testa davanti allo specchio. Non avevo il coraggio di guardarmi perché sapevo che se l’avessi fatto, il primo giudizio sarebbe stato: fai schifo.

All’inizio il mio peso non era un problema, scherzavo con i compagni di scuola, ridevo delle ossa grosse e di quanto fossi fortunato a vivere in una famiglia di buona forchetta che non perdeva occasione di cucinare, impanare, ungere e friggere qualsiasi cosa. Ignoravo il senso di quelle battute e non le prendevo come offese perché era vero che a casa cucinavano bene e se avessero fritto le sedie, avrei mangiato pure quelle. Una volta dissero con affetto che sarei stato un meraviglioso scaldabagno, se non avessi avuto le orecchie.  Ogni tanto quei colpi facevano male, ma non lo dicevo; sorridevo, me ne fregavo, e mentre quelle parole stratificavano inconsciamente nel mio stomaco, io perdevo i pezzi. Pezzo dopo pezzo ho cominciato a sparire, a nascondermi e ho visto chiaramente che intorno a me c’era il vuoto. O forse c’era sempre stato. Nel gruppo non ero mai il primo, neanche il secondo o l’ultimo. Ero semplicemente anonimo, trasparente. Centodieci chili di trasparenza, per l’esattezza. Ridicolo, quasi comico e la tonnellata di grasso gettata a caso sul mio corpo generava una tale indifferenza che perfino le ragazze non mi vedevano come una minaccia.  Al contrario, si fidavano e mi confessavano le angosce con la stessa naturalezza dei ragazzi che mi chiudevano in bagno per gioco. Col tempo le cose sono peggiorate e da semplice bersaglio da chiudere in un cesso ho vinto etichette come ciccione, zimbello, sfigato, disadattato. Pretendevano, chiedevano, minacciavano e se non passavo i compiti mi aspettavano fuori. Io non mi ribellavo, non reagivo. Anzi, speravo che qualcuno lo facesse per me, ma non succedeva mai. Era impressionante quante parole pesanti sapessero i bambini, quanti proiettili lanciassero quelle lingue. Alcuni traboccavano di rabbia e l’ossessività con cui mi perseguitavano era l’unica via per allontanare i problemi che loro avevano con il mondo. Speravo che la mia apatia li spingesse verso altri bersagli ma non funzionava mai e puntualmente mi trasformava in una calamita ancora più grande. Per questo, ogni volta era peggio della precedente, ogni insulto scavava più di quello che avevo già assorbito. Un branco di cani, ecco cos’erano. Randagi che mostravano i denti con la sicurezza che un giorno avrebbero usato anche quelli. E io rimanevo lì, fragile, porcellana, cristallo. Una lastra di vetro sottile nonostante tutti avessero cominciato a chiamarmi bombolone, palla di ciccia, mongolfiera. Qualcuno più ispirato mi fece recapitare anche la poesia sulla danza del maiale. Una vera chicca o forma d’arte contemporanea, come aveva tristemente ridacchiato un genitore pensando che fossi lontano abbastanza da non sentire. Era come affrontare uno specchio rotto e ogni sguardo era un frammento che rifletteva l’immagine deformata che la vita si era fatta di me.

Di giorno o di notte non c’era tregua e io vivevo sempre incazzato, represso, frustrato. Non dicevo mai niente e la sera mi chiudevo in camera con le cuffie a cento e disegnavo mostri, diavoli e alieni che alla fine morivano sotto i colpi di un supereroe dalla spada di fuoco. Nemmeno nei sogni mi davano pace e quando un incubo finiva, ne iniziava subito un altro nell’ora di ricreazione. Se ero fortunato mi toglievano il panino dalle mani, altrimenti lo distruggevano o lo riempivano di colla senza che me ne accorgessi.

Ragazzate, non ci pensare…  – dicevano alcuni genitori per minimizzare; fatelo ancora e vi caccio! – gridavano i professori quando reagivo; sì, però, pure tu… – e all’improvviso il grande faro dell’indifferenza puntava sul mio faccione sudato: il problema ero io che non sapevo scherzare o non riuscivo a integrarmi. Ero io, che non mi sapevo accettare.

Una mattina decisi che ne avevo abbastanza e feci il nome di chi aveva tagliato la mia cartella nuova. Fu la mossa più stupida che il cervello potesse suggerirmi e lo capii dalle pupille gonfie e nere che mi puntavano dai banchi che avevo dietro; sentivo gli occhi dei miei compagni a pochi centimetri dalla schiena e non osavo girarmi per paura di incrociarli. La guerra che volevo chiudere era appena iniziata.

Nei giorni seguenti ignorai i calci allo zaino, i graffi alla bici e le infinite offese che arrivarono addosso ma il panico che colpiva la pancia era devastante. Mi dava la nausea e tutte le volte mi sentivo come se un palloncino pieno d’acqua si gonfiasse nelle viscere premendo sulla bocca dello stomaco.  Il cappio al collo stringeva l’aria trasformandola in gelatina e il mio tacere insospettì i miei genitori che cominciarono a fare domande. La gabbia di silenzi che avevo intorno stava esaurendo l’ossigeno, avevo smosso qualcosa e alla fine mi punirono. Non pensavo che i bambini della mia età fossero capaci di agguati alle spalle ma quando mi acchiapparono e mi coprirono gli occhi era troppo tardi. Eravamo appena usciti da scuola e l’ultima cosa che ricordo è la linea dell’asfalto che tremolava sotto le frustate di giugno e qualche cicala che suonava timida dietro i cespugli.  Non vidi più nulla e cominciai a tremare. L’odore della plastica che avvolgeva la testa si mischiava al buio impastando la paura con la saliva. Sentivo voci confuse, un fruscio che graffiava le orecchie e il calore del fiato che bruciava dopo ogni schiaffo.  Avvertii le spinte, e le mani che mi colpirono affondavano nella pelle come canini affilati. Mi sollevarono la maglia perché avevo le tette, facevo schifo e dovevano vederlo tutti.  Il silenzio che seguì durò quanto un respiro e senza pietà mi presero a calci. Nessuno venne a salvarmi ma in quel momento usai la rabbia che avevo dentro e la trasformai in forza. Vidi il mio supereroe, pensai alla sua spada di fuoco e cominciai a rispondere agli attacchi, prima alla cieca e poi liberando gli occhi. Lessi lo stupore sulle loro facce rabbiose ma la mia rivolta fu spezzata dallo scatto di una lama. Avevano un taglierino e in un attimo mi squarciarono il dorso della mano prima di scappare via.

Successe tutto così velocemente che passai ore senza dire una parola e ascoltai il mio respiro divampare nei polmoni, crescere fino a scoppiare nel cervello e poi rallentare fino a spegnersi. Qualunque cosa dicessi la cospargevo di rancore, impregnavo di rabbia ogni singolo pensiero e mi graffiavo fino all’ultimo centimetro di pelle. A casa si accorsero del sangue, dissi che ero caduto, poi chiamò la scuola, mio padre restò immobile con il telefono in mano e mia madre crollò sulla sedia piangendo. Smisi di mangiare, dimagrii, cambiai scuola e qualcuno disse pure che ero diventato bello. Ma io mi sentivo bello come una poesia romantica scritta in un cesso dell’autogrill. La mia era una dieta malata, fatta di rancore e veleno, e così conobbi un dietologo, uno psicologo e un altro professorone con tre lauree incastrate in cornici di faggio. Sentivo parlare di mancanze, disturbi, sbalzi di umore e tutti si affannavano a scrivere diagnosi per salvare l’elefante di cristallo che ero diventato. Io ascoltavo tutto e se da una parte avrei voluto ricominciare, dall’altra speravo di morire. Sfioravo la ferita che avevo sulla mano e sentivo le urla di quel pomeriggio nel piazzale della scuola.

Quante volte avrei voluto urlare ma sono rimasto in silenzio. Il mio unico sfogo era rimasto il disegno così versavo tonnellate di inchiostro nero fino a quando vedevo sulla pagina tutto il buio che avevo dentro. C’erano giorni in cui passavo davanti la vecchia scuola e tornavo a casa con un formicolio nello stomaco, qualcosa di simile al vuoto d’aria sulla ruota panoramica. Erano giorni in cui salutavo la mamma, salivo in camera mia e lì piangevo o ridevo nel cuscino finché non mi sembrava che mi stessero per saltare in aria le budella. Vibravo, avevo paura e quando mi trovarono per terra in un lago di sudore tra mia madre che urlava, mio padre che si chiedeva dove avesse sbagliato e le mie gambe che tremavano, capii che stavo uccidendo il mio corpo in nome della tolleranza. Il tempo stava scadendo e mentre il sangue pulsava caldo sulla nuca realizzai che non esiste tolleranza, come non esiste il perdono. Si vive distrutti dai commenti e si arriva al punto in cui è vitale scegliere da che parte stare per sopravvivere. E io dovevo solo decidere se continuare a essere martire o diventare un boia. Sapevo che non sarei morto per quello e dovevo reagire perché ormai ero a un bivio: Vittima o carnefice? Ma io non ero come quei cani nel piazzale della scuola, non ero tanto coraggioso da sopportare la paura negli occhi degli altri, così scelsi di farmi aiutare e ho scoperto che c’è una terza strada: volersi bene. 

Ho impiegato anni per guardare veramente la cicatrice che mi è rimasta sulla mano. Ventisette lunghissimi anni per assorbire i colpi, per affrontare le ansie, le depressioni, le dipendenze che ancora mi porto addosso; ho cercato in tutti i modi di conviverci, a volte ho fallito, altre ci ho fatto pace ma ho capito finalmente che la guerra finisce quando si alza la testa. Oggi guardo la mia cicatrice e penso a come sono riuscito a trasformarla in una sorta di talismano. Per tanti anni, però, ha avuto un senso completamente diverso e ha scavato molto di più di quanto vedessi da fuori; dalla mano è arrivata al cuore irrorandolo di cemento e ho dovuto quasi morire per capire che anche le cicatrici hanno un ruolo essenziale. Da quel momento le uso come filtri per vedere la realtà delle cose. Sono capitoli dell’esistenza che si chiudono, punti che sigillano la vita sulla pelle e ti ricordano dove cercare la forza. I miei poteri sono racchiusi sul dorso della mano, la spada di fuoco mi protegge da lì, e oggi, davanti allo specchio sono il supereroe di me stesso, che al dolore sopravvive col coraggio. Al quindicenne che ero avrei voluto dire che il tempo sprecato a odiare è utile quanto velenoso e che non riuscirà a nascondere del tutto le crepe disegnate sul suo corpo. Bisogna avere il coraggio di mostrare la propria vulnerabilità, accettarsi e prendersi cura delle proprie imperfezioni. Bisogna essere imperfetti per trovare qualcuno o qualcosa che completi le nostre mancanze perché tanto, se uno è perfetto, non si basta comunque. La vita non si ferma mai, i difetti non spariscono e non si è costretti a essere per forza felici ma si può diventare gentili trasformando il dolore in sensibilità; solo così riuscirà a sopravvivere perché non si guarisce dai morsi uccidendo i cani. 

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14 commenti »

  1. Non so se si tratta di un’esperienza personale, poco importa, perché questo racconto arriva comunque nell’anima.
    Quell’anima descritta perfettamente: “rimanevo lì, fragile, porcellana, cristallo. Una lastra di vetro sottile nonostante tutti avessero cominciato a chiamarmi bombolone, palla di ciccia, mongolfiera.” La leggerezza interiore contro una pesantezza esteriore che di pesante ha soltanto lo sguardo cattivo degli altri.

    Hai ragione Fabio: “non si è costretti a essere per forza felici ma si può diventare gentili trasformando il dolore in sensibilità” è questa la vera sfida della vita, sia per un 15enne, sia per un adulto. Perché come ben scrivi: “non si guarisce dai morsi uccidendo i cani”.

    E’ il racconto più significativo letto fino ad ora, almeno per me. Invito caldamente alla lettura. Meriti una vittoria !!!!!!

  2. Ciao Barbara, grazie per aver letto il mio racconto. Sei troppo buona nel giudizio( e questa cosa mi piace parecchio. Ehehe).
    Ho dato voce alla pancia, più che alla testa. Ho cercato di smascherare quell’orribile gioco al massacro che tutti giorni facciamo senza chiedere scusa : nacondiamo la parola cattiveria dietro la parola ironia e fingiamo di non rendercene conto.
    È nata così la mia storia, dalla rabbia. Ho chiesto all’adolescente che ero: come stai? E la risposta è nel racconto. Morsi compresi.
    Grazie di cuore per le tue parole.
    F.

  3. Molto bello, un tema estremamente attuale e purtroppo frequente

  4. Grazie infinite Fabio Volpe per aver letto e accuratamente commentato il mio racconto. Un grande in bocca al lupo per il tuo di cui ho tanto apprezzato lo stile e la capacità di emozionare

  5. Questa è una magnifica auto-analisi, che mostra quanto sia importante accettarsi prima ancora che cambiare.

  6. I bambini a volte sono crudeli…gesti e parole che colpiscono più di una lama lasciando cicatrici nell’anima che a fatica rimarginano…
    Il racconto scritto in prima persona coinvolge ed emoziona il lettore …

  7. Un racconto scritto davvero benissimo. Ti scava dentro e ti trascina emotivamente fino all’ultima parola di un finale più che superlativo. L’ho letto con interesse e lo rileggerò ancora per prendere appunti. In bocca al lupo, purché sia un lupo che preferisca mangiare solo “sedie fritte”!

  8. Che botta, Fabio! Questo è una racconto “vivente” , come dico io. Si sente l’urgenza della scrittura. È un fiume che trascina e ti sbatte tra le rocce, arrivano le rapide e non sai dove potrai atterrare. Poi l’impeto si placa, il fiume torna a scorrere lento e solo voltandosi indietro si percepiscono pericoli e angosce superati. Superati, appunto ma che restano a far parte dello stesso fiume.
    Ci sono immagini di grande impatto emotivo che toccano corde profonde. Crescere è una faccenda indubbiamente faticosa. Bello il tuo ragazzino che ha superato alla grande la prova. Complimenti, molto molto bravo.

  9. Complimenti Fabio.
    Nonostante l’asprezza del contenuto, non mi è stato possibile interrompere la lettura del tuo racconto, che anzi è proseguita con scorrevolezza grazie alla tua prosa evocativa ed emozionante, verso il finale, reso lieto dall’accettazione di sé.

  10. Complimenti. Un’immersione molto generosa nelle cattiverie, da quelle più mediocri ma che fanno purtroppo scuola (“…come aveva tristemente ridacchiato un genitore pensando che fossi lontano abbastanza da non sentire…”; ma forse non se ne era nemmeno preoccupato davvero) a quelle più impietose perché per definizione di età anagrafica considerate innocenti ( “… mi sollevarono la maglia perché avevo le tette, facevo schifo e dovevano vederlo tutti. Il silenzio che seguì durò quanto un respiro e senza pietà mi presero a calci…), di fronte alle quali la capacità, o possibilità di reagire troppo spesso è abbandonata a se stessa – la “colpa” è delle vittime – e quindi che se la sbrighi da sola, e le cicatrici comunque restano.

  11. Questo racconto tocca un tema importante e lo approfondisce dal punto di vista di chi subisce le ingiustizie descritte. Penso che un po’ tutti, chi più chi meno, possano relazionarsi con qualche tipo di ingiustizia, perciò la storia è forte e sarà – purtroppo – sempre molto attuale. Le riflessioni più ottimistiche nel paragrafo finale chiudono la storia nel miglior modo direi, lasciando anche il lettore andar via con più speranza di prima.

  12. Complimenti, un racconto intenso e ben scritto, in certi tratti mette i brividi (per il tema trattato, non per come è scritto!) e purtroppo molto attuale.

    “perché non si guarisce dai morsi uccidendo i cani.” questa penso sia una delle frasi conclusive più belle che abbia mai letto, complimenti.

  13. Bel racconto, un vissuto profondo vero o no che sia ti sei immedesimato nel soggetto. “La guerra finisce quando si alza la testa”, sono d’accordo, un pensiero giustissimo in questo contesto e forse in altri.

  14. Ciao Fabio, avevo letto da diversi giorni il tuo racconto, prima di commentarlo: volevo avere il tempo di rileggermelo con calma, perché mi aveva colpito nel profondo, a cominciare dall’inizio quando dici che “A quell’età avrei dovuto essere felice…” che mi ha proiettato direttamente ai miei 15 anni. Situazioni diverse ma infelicità simile. Io, apparentemente, non avevo niente di diverso dalle altre ragazze, a parte dimostrare una età inferiore, cosa scomoda a quella età in cui, invece, si ha fretta di crescere. Ed ero terribilmente timida. Per carità, niente episodi di bullismo ma non eccellevo in niente, un’aurea mediocritas in tutto, a scuola, con i professori, con gli amici, i ragazzi che non mi rivolgevano neanche uno sguardo, le compagne che se notavano qualcosa nel mio abbigliamento era per avvisarmi che non valeva niente. Avevo la costante sensazione di essere tappezzeria, e questo è durato per tutta la scuola superiore, che ho concluso con fatica e disperazione. Altro che il periodo più bello della vita, è stato il peggiore! Fortunatamente i miei successivi passi sono stati migliori a all’università ho risalito la china, portando, però, i segni di tali insicurezze per molto tempo. Sicuramente rincorrevo miti di perfezione che la società, la famiglia e tutto il resto imponevano. Una delle ultime frasi del tuo racconto: “Bisogna essere imperfetti per trovare qualcuno o qualcosa che completi le nostre mancanze perché tanto, se uno è perfetto, non si basta comunque”, risuona di nuovo con la mia esperienza. Davvero occorre accettare i propri limiti, la propria imperfezione, per fare la pace con sé stessi e trovare una serenità, o calma, che altrimenti ci sfuggirà sempre. Rabbrividisco al pensiero che gli adolescenti di oggi sentano una pressione, da parte dei media e dei social, anche maggiore che in passato e quanto questo possa essere a volte orribile per chi, per temperamento, condizione sociale, aspetto fisico e molto altro ancora, parta anche solo un pochino più svantaggiato. Grazie per questo racconto.

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