Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2021 “Luna” di Paolo Mazzocchini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

No. Non sembrava affatto diversa. Quel suo piglio infantile, un po’ severo dello sguardo. E il naso appena camuso.  E il sorriso fiero, ma innocente. Innocente, come allora. Uguale ad allora. Al netto delle rughe che le incidevano il mento, in quell’immagine di lei di trequarti, col capo appena reclino. Inevitabili, le rughe. Come i capelli bianchi. Erano castani, allora. Lo ricordo. Non ti scordi i tuoi sedici anni.  Castano scuri, come gran parte delle ragazze di qui. A sessant’anni e passa non puoi non avere capelli bianchi, se non ricorri ai trucchi del parrucchiere. E Luna non era mai stata una ragazza da trucchi, di nessun genere. Tutto in lei era spontaneo. Era come un arbusto selvatico che cresce ai bordi di un campo. L’avevo cercata e ritrovata, Luna. Finalmente. Dopo oltre cinquanta anni. Cosa non ritrovi oggi nella rete? Di tutti ci rimane impigliata una traccia. E lei vi ha lasciato quell’immagine. E poche notizie. Pochi segni, ma inequivocabili, di riconoscimento. La passione per i Pink Floyd. Il nome del liceo dove abbiamo studiato due anni insieme. E soprattutto Pavese. I dialoghi, le poesie, i romanzi: Prima che il gallo canti, La casa in collina, La luna e i falò… Già, La luna e i falò. Quel suo amore viscerale e precoce per Pavese sembrava dunque ancora vivo, iscritto come un destino nel suo stesso nome. Quel nome, Luna Guarnieri, – il suo nome e cognome – l’aveva vergato lei, di sua mano, sulla copertina di quel quaderno, cinquanta anni prima, con una grafia tonda, grande, marcata: un po’infantile, come lei. Non ricordavo quasi più di averlo, quel quaderno. È stato il caso a farmelo ritrovare.

Quando vai in pensione e non hai moglie né figli, il tempo d’improvviso si spalanca di fronte a te come una voragine. Lì per lì cerchi di placarne la vertigine. Provi a esorcizzare l’orrore del vuoto. Ridisegni allora i limiti del tuo mondo, ne riduci implacabile i confini. Per dominarlo meglio. Cominci per esempio a rovistare tra gli scaffali e i cassetti. Butti tante cose che non servono più. Selezioni, riordini meticoloso quelle – poche, sempre meno- che ancora credi possano valere. È così che ho ripescato il quaderno di Luna. Dentro c’era anche una vecchia foto in bianco e nero della nostra classe ginnasiale, con me in seconda fila, in piedi, alto, allampanato, i capelli nerissimi, lunghi e disordinati, come andavano allora. Stava, il quaderno con dentro la foto, sotto una montagna di vecchi fogli, scartoffie giudiziarie ed appunti d’ufficio. Si confondeva con loro, con le mille ormai inutili carte processuali del mio studio. È stata quella grafia infantile in copertina a rivelarmelo. E a salvarlo. Quel quaderno era pieno dei suoi amori pavesiani. Luna vi aveva trascritto con pazienza certosina, per una estate intera, poesie su poesie di Lavorare stanca e un certo numero dei Dialoghi con Leucò. Una impresa da antichi amanuensi. E tutto questo lo aveva fatto per me. Solo per me. Voleva, con una caparbietà che solo le grandi passioni riescono ad alimentare, che io mi innamorassi, a tutti i costi, come lei, di Pavese. Voleva, ma io non so di che cosa fossi innamorato in quell’epoca. Vivevo sospeso tra un’infanzia agonizzante che non riuscivo a seppellire e una tempesta di emozioni nuove che adesso non saprei più descrivere. Tutto intorno aveva preso a confondersi, i colori della realtà mi apparivano più vividi, ma anche più accecanti, e miei desideri iniziavano a protendersi, smisurati, verso mete nuove, prima impensabili, ma confuse, tremendamente instabili. In questo marasma navigavo a vista, campavo alla giornata. E in questa deriva quotidiana Luna era diventata presto per me, non lo nego, una stella fissa, un pianeta capace di orientarmi con i netti contorni della sua luce. Luna era sincera, onesta, trasparente, sicura di sé. In lei non c’erano ombre, sfumature, pieghe di ambiguità o angoli segreti. Non esisteva un’altra faccia di Luna. Tutta la ricchezza della sua anima risplendeva in superficie. Si offriva candida – un po’ selvaggia e naif – a tutti. Ma con me si era presa a cuore un compito speciale, che mi pareva vivesse quasi come una missione: trasmettermi intera quella sua passione letteraria, così intensa, viscerale. Un altro meno ingenuo e spaesato di me (di come ero io all’epoca) avrebbe pensato che Luna fosse, almeno un po’, invaghita di me. Che Pavese fosse solo un pretesto, un diversivo. Io, allora, no, non l’ho mai sospettato. Perché ero convinto che se così fosse stato, lei me lo avrebbe apertamente dichiarato. La dissimulazione, il gioco delle parti non le appartenevano. No: lei era perdutamente innamorata di Pavese. Glielo diceva sempre il nostro grande prof di lettere: «Cara Luna, ti sei presa una cotta, una bella cotta letteraria… ti passerà, presto. Qualche ragazzo in carne ed ossa te la farà passare!».

Non riuscii a innamorarmi di Pavese – troppo cupo, umbratile, tragico per un sedicenne. E non riuscii mai a capire allora perché Luna, così vitale, solare, così diversa dall’oggetto della sua adorazione, lo amasse tanto. Ma neppure mi permisi mai di sminuire questa sua passione. Tanto meno di prendermene gioco. Avevo tanta stima di lei che questa si rifletteva, automatica, su Pavese. Così mi lessi tutte le poesie e le prose che lei amorevolmente aveva ricopiato per me in quel quaderno arancione, con un riquadro nella copertina dove compare una scena disneyana del Libro della giungla. Fu, per una estate intera, una gradita penitenza. Ma lessi tutto con grande attenzione – con l’intenzione almeno di capire, se non fossi riuscito a condividerla, le ragioni più profonde di quella sua infatuazione per me tanto inspiegabile. Quella fu la seconda ed ultima estate della nostra amicizia. Finito il ginnasio, tra giugno e luglio Luna mi spedì da M* – per posta raccomandata – diverse altre, religiose trascrizioni dalle poesie e dai Dialoghi con Leucò. Così come vi era entrata due anni prima, Luna uscì dalla mia vita di adolescente in punta di piedi in quel settembre di circa mezzo secolo fa – era una ragazza tanto sanguigna quanto discreta, tanto premurosa quanto rispettosa della libertà altrui. Il suo ultimo saluto prima che ci perdessimo di vista – lei si era trasferita in un altro liceo della provincia, più vicino a M* – fu semplicemente la sua firma scritta e riscritta cinque o sei volte a caratteri sempre diversi – piccoli, grandi, cubitali, fioriti – nella mezza pagina lasciata vuota dalla conclusione di Anche i gatti lo sapranno: Luna, LUNA, Luna

M* è un paesotto in collina della Marca centrale, a una quindicina di chilometri da casa mia. Dalla vetrata del mio studio si intravedono distintamente in lontananza, sul crinale della collina che sale serpeggiando dalla costa, l’increspatura delle sue vecchie case di mattoni e il culmine di un paio di campanili. Dopo aver disseppellito quel quaderno e rintracciato la sua pagina FB, mi sorprendevo ogni tanto – così da lontano – a immaginarmela, lei, Luna, nella sua casa. Fantasticavo come un adolescente di poterla rincontrare adesso, in carne ed ossa, così come era diventata, o rimasta, rispetto a quei tempi. Quella curiosità così coltivata nel segreto ozioso dei miei giorni di pensionato presto si trasformò in un desiderio intenso, struggente: come se ritrovarla di nuovo dopo tanto tempo significasse per me il compimento più naturale di una emozione interrotta, addormentata negli anni, ma capace – se risvegliata – di regalarmi una gratificazione speciale. La senilità non è, come si pensa, una steppa desolata, un deserto di emozioni e di sentimenti. La vecchiaia incipiente può essere un crogiolo di inutili rimpianti, certo, ma anche di fervide riappropriazioni. È come restaurare il giardino quando la tempesta si è placata: recuperare il salvabile, colmare le buche, seminare erba e fiori, ridisegnare aiole, rinfoltire le siepi. Ogni cosa sopravvissuta ritorna al suo posto, secondo l’antico disegno: più sobrio, però, più essenziale. Spogliato del superfluo. Così mi pareva fosse la mia amicizia per Luna: un frutto che avevo troppo precocemente abbandonato, così, ancora troppo acerbo, sul ramo, e che avrei dovuto provare finalmente a raccogliere. E siccome questo desiderio diventò nei giorni una inquieta e disturbante ossessione, decisi di prendere il coraggio a quattro mani. Scrissi un messaggio privato sulla pagina FB di Luna. Temevo un po’ di violare una privacy che più non mi apparteneva. Ma il passato, quel nostro comune e prezioso passato che mi stava riafferrando in maniera così prepotente, non poteva – ne ero convinto – trovarla indifferente. Scrissi un messaggio breve ma intenso e spontaneo, forse appena melodrammatico, dove dicevo pressappoco che su di una vecchia ed autentica amicizia come era stata la nostra il tempo non ha potere; e che quindi anche lei doveva giocoforza, anche a distanza di tanto tempo, ricordarsi di me, Giorgio Pellegrini, il suo vecchio compagno di scuola. E che avrei avuto piacere, un piacere immenso, a rincontrarla. A mostrarle di nuovo, dopo cinquanta anni, quel prezioso quaderno con le sue trascrizioni pavesiane. Non fui sfiorato nemmeno dall’idea di apparire ridicolo, come certi sentimentali che si esibiscono senza decoro in televisione, in quelle trasmissioni strappalacrime dove si ritrovano amici d’infanzia e parenti lontani. No, io ero sicuro: quel quaderno che avevo con me era la garanzia che qualcosa di importante tra noi era accaduto: che avevamo condiviso nella nostra adolescenza una parte profonda di noi stessi, quello scrigno segreto dell’anima nostra che non apriamo se non davanti a persone che sentiamo care.

Scrissi. E lei rispose, dopo pochi giorni. Rispose con un messaggio breve e gentile. Diceva che si ricordava bene di me come di molti ex compagni di ginnasio. Che avrebbe avuto molto piacere di rivedermi. Mi invitava a visitarla a casa sua, quando avessi voluto, purché la avvertissi. Abitava ancora in Via della Ginestra al numero 10, in quella vecchia casa nel piccolo centro storico di M*, dove ci eravamo radunati in parecchi della nostra classe per fare insieme a lei i compiti di latino, un pomeriggio di tanti anni prima…  Fui preso da una commozione e da una trepidazione indescrivibili. Di colpo fu quasi come se il muro di quel mezzo secolo di vita che ci aveva tenuti lontani fosse crollato. E vi si fosse aperto un varco, una breccia inaspettata attraverso cui ricongiungersi, d’un salto, con la nostra adolescenza…

Mi recai a M* nel giorno concordato. Tenevo con me in una mano, avvolto in una busta regalo, il quaderno di Pavese. Nell’altra un mazzetto di fiori di campo che avevo chiesto al fioraio di confezionarmi, ma in maniera sobria, con quello che la stagione offriva: fiordalisi, margherite… tutti quelli insomma che fossero intonati, mi raccomandai, ad una donna sensibile sì, ma semplice, e schietta. In tasca avevo un bigliettino di dedica, amorevolmente personalizzato e firmato, da accompagnare ai miei preziosi presenti. Camminavo su per i viottoli che dal parcheggio conducono in alto, al centro di M*, verso via della Ginestra numero 10. Non sentivo l’affanno della salita, che pure era ardua ormai per me, tra scalinate e vicoli che si arrampicano verso il cucuzzolo arroccato del paesotto. Ero felice e ansioso come un ragazzino innamorato che si reca al primo appuntamento. «Che cosa proverà rivedendomi? – mi domandavo – Faticherà forse per un attimo a riconoscermi, dopo tanto tempo? Oppure intuirà subito, sotto la maschera degli anni, che si tratta di me, del suo amico Giorgio, quello per cui aveva passato tante notti insonni per trascrivere Pavese, e mi abbraccerà, commossa? Basta, basta, adesso sto svoltando in via della Ginestra, tra un attimo suono alla porta. Lei abita proprio qui, questo è il portone, accanto alla vecchia lapide che ricorda la nascita in questo sperduto borgo di provincia di un famoso papa del rinascimento. E quello è il numero civico, con le cifre grandi, impresse sopra una targa di terracotta, con un bordo in rilievo, fregiato con una greca azzurra scolorita… Sì, certo. Tutto come cinquanta anni fa. Ci siamo. Ecco.» Suonai.

Mi aprì subito una giovane donna intorno ai trenta, di aspetto dimesso. Con aria cortese mi chiese chi fossi e mi fece accomodare. Si presentò a sua volta. Era sua figlia, mi disse. La figlia minore di Luna. Era stata lei a ricevere il mio messaggio e a rispondere. Curava lei la pagina FB di Luna. Ormai da circa tre anni. Da quando Luna, poco dopo essere rimasta vedova, non era stata più in grado di farlo da sola. Luna non stava bene, mi disse la figlia. Soffriva di una forma precoce e intermittente di smemoratezza, di debolezza fisica e di confusione mentale. Rimuoveva il passato recente e ricordava quello lontano, sì, ma anche questo in maniera incerta, frammentaria e contraddittoria. Ero costernato, pensando che non eravamo, io e lei, ancora settantenni. Ma soprattutto pensando al fiore selvatico che era stata. E a come adesso fosse precocemente maltrattata da una di quelle malattie senili che non si augurano nemmeno al peggior nemico. Provai a sdrammatizzare. Cominciai a dire che si trattava sicuramente di una crisi passeggera, del trauma del lutto recente. Cincischiai altre belle frasi che riuscii lì per lì a pescare – improvvisando – nel mio repertorio avvocatesco. Ero sgomento, in realtà. Spiazzato da quella rivelazione inaspettata. E la mia prima reazione, che non riuscivo ad ammettere nemmeno con me stesso, era di trovare un pretesto, anche vigliacco, per evitare di vederla. Lasciare a sua figlia il mio presente floreale e tornarmene a casa col quaderno di Pavese e col bigliettino di dedica, scusandomi per aver recato disturbo a una persona malata. Ma la figlia insistette. «Non si preoccupi, avvocato. Luna sarà contenta di vederla, sono sicura. – mi disse – Quando le ho parlato di lei e le ho fatto vedere il suo messaggio mamma ha avuto come di un fremito improvviso. È persino arrossita, come le succede quando prova una emozione intensa.» Arrossita! Per me! Ma sì, ma sì. Luna dunque era ancora lei. A dispetto degli insulti del destino era ancora – questo mi suggerivano le parole della figlia – la ragazza impulsiva e sanguigna che avevo conosciuto. E soprattutto io, il mio nome, il nostro passato, dovevano significare ancora qualcosa per lei. Questo mi importava. Mi rinfrancai.  Entrai nella sua stanza.

Vidi davanti a me, avvolta in una consunta vestaglia a fiori, una vecchia. Seduta all’angolo di un sofà, il capo – una massa disordinata, bianca bianca di capelli appena mossi – appoggiato sul braccio destro che tremava un po’, premendo sul bracciolo, come se faticasse a sostenerne il peso. Mi sforzavo di rintracciare – in quei lineamenti sofferenti del viso, pallido e sfatto – qualcosa della mia Luna. Sì, la curva appena camusa del naso, forse. E gli occhi scuri, la fierezza – limpida – dello sguardo. Sì, un po’, a guardarci bene, quelli, forse, c’erano ancora. Così mi pareva. Ma somigliava poco, quasi niente alla foto postata su FB. Fece un cenno con la sinistra alla figlia come per chiederle di farmi accomodare. «Mamma, è il signore che ti ha scritto, il tuo vecchio compagno di scuola!». « Oh sì, sì… ho capito, mi ricordo…»  rispose finalmente la madre. La voce era flebile, strascicata, appena lamentosa. Come se venisse da lontano, come se fosse attutita e deformata da un filtro che le impedisse di uscire con la dovuta energia. Soprattutto mi pareva una voce sconosciuta. Non quella squillante, perentoria, giovane di Luna. Mi avvicinai, con prudenza, porgendole il mazzetto di fiori di campo. «Sono per te, mamma – disse la figlia – Prendili». Lei allungò la mano destra tentennando un po’ il capo, prese il mazzetto e avvicinò i fiori al viso come se volesse annusarne il profumo. «Sì, mi ricordo di te… ti riconosco. Sei uguale ad allora, solo che non hai più i capelli biondi biondi, che intanto ti sono scappati via, tutti… – disse quasi sussurrando e additando con un sorriso benevolmente canzonatorio la mia testa calva – Sì, lo so, non te l’ho mai detto, mi vergognavo allora, ma tu eri il mio amoruccio segreto, il più carino e il più bravo dei miei compagni… perciò scrivevo per te tante poesie di Pavese. Era un modo per dirtelo… carissimo Giulio, che sorpresa mi hai fatto!». Giulio! Così mi chiamò. La figlia mi guardò imbarazzata per un lungo istante. Mi chiese scusa con gli occhi.  «Il piacere è soprattutto mio – sorrisi, riprendendomi da un attimo di comprensibile smarrimento – cara Luna. Ecco il quaderno di allora, quello su cui hai trascritto Pavese per me, per il tuo Giulio. Credo sia meglio che d’ora in poi sia tu a conservarlo, in ricordo della nostra bellissima amicizia». Lo depositai, così imbustato com’era, sul tavolino del salotto. Aggiunsi poco altro. Qualche altra frase di circostanza. La figlia sfilò il quaderno dalla busta regalo. Lo sfogliò per qualche secondo. Sorrise mesta, gli occhi appena lucidi. Me ne andai subito dopo, salutando con fare ossequioso. Uscendo controllai che mi fosse rimasto in tasca il bigliettino di dedica. Così era. Meno male.

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7 commenti »

  1. Il ritrovamento casuale di un quaderno dove una compagna di liceo di cinquant’anni prima, Luna, aveva trascritto per lui molte poesie di Pavese suscita in un anziano avvocato ormai in pensione il desiderio di riallacciare i rapporti con l’amica di un tempo, impresa resa possibile dai moderni social. C’è senz’altro nell’anziano e celibe avvocato la speranza di poter avviare una relazione amorosa, quella relazione che non si era concretizzata mezzo secolo prima. L’incontro con Luna, purtroppo, mostrerà all’avvocato la spietatezza del tempo ma anche la sua meschinità. Luna, colpita da una forma precoce di smemoratezza e prostrazione fisica, pur confusamente lo riconosce e gli confida di avergli trascritto tutte quelle poesie di Pavese perché era il suo amoruccio segreto. Lui invece, deluso dal suo aspetto e dalle sue condizioni mentali, le restituirà il quaderno dicendo che sarebbe stato meglio che lo avesse conservato lei, e frettolosamente se ne andrà, questa volta forse per sempre, dalla sua casa e dalla sua vita, controllando che il biglietto di dedica che accompagnava i fiori con i quali si era presentato all’incontro gli fosse rimasto in tasca. Racconto dolce e amaro, scrittura efficace, con ottima descrizione degli ambienti, intonata alla storia. Che morale trarre da questo scritto? Forse che il passato è bene custodirlo nel nostro cuore, senza cercare di farlo rivivere. Anche perché potrebbe mostrarci un ritratto poco gradevole di noi stessi.

  2. Vorrei ringraziare il sig. Polini per il suo puntuale commento, ma precisare che nel finale gli è sfuggito un particolare importante per cogliere a pieno il senso della storia: la ex compagna di classe scambia il protagonista per un altro vecchio ex compagno di classe. Lo chiama Giulio, mentre prima l’io parlante si era rivelato come Giorgio… c’è uno scambio di persona nella mente confusa della donna.

  3. Un racconto commovente e molto ben scritto. Complimenti. Mantiene l’interesse vivo sino alla fine e rispecchia l’imprevedibilità della vita, soprattutto quando ci si crea delle aspettative. Ho conosciuto con mia madre la forza devastante della demenza senile e questo racconto me l’ha ricordata.

  4. Questa storia colpisce il lettore con precisione. Punta alla pancia e lo lascia lì, nella malinconia di qualcosa che poteva succedere. In sospeso, proprio come quelle frasi che si spezzano per un imprevisto. Mentre leggevo, proiettavo i miei anni nel futuro e la sensazione di smarrimento funziona. La solitudine ti terrorizza se la lasci accomodare sul tuo divano, ma se la affronti ti racconterà tutta un’altra storia, diversa da quella che ti faceva paura.
    Complimenti per le emozioni che hai scatenato in questo racconto.
    Mi è piaciuto molto.

  5. Dopo aver letto questo bellissimo e struggente racconto, tecnicamente ben architettato e ritmato….senza ritegno ho tirato fuori qualcosa che scrissi qualche anno fa come omeggio ad alcuni amici. Insomma, ti ho spudoratamente copiato.

  6. La malinconia del passato. Un presente che ti sbatte in faccia l’inesorabile trascorrere del tempo in uno stile asciutto e senza fronzoli. Complimenti

  7. Complimenti, racconto intenso e ben scritto. Un viaggio nei ricordi e un epilogo non scontato, dove troviamo un “duro ritorno alla realtà”, o almeno una gran disillusione.
    Bello.

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