Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2021 “Quando canta il cigno” di Emilia Giorgetti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

Pochi giorni fa… o era ieri? Beh, non ricordo ma è irrilevante…Dunque sì, dicevo che durante il pranzo il maggiore dei miei figli, quello con cui vivo – il più scapestrato, indocile e trasgressivo tra i fratelli è vero, ma alla lunga quel ragazzaccio si è manifestato come il più amoroso nei miei confronti- si è prodotto in una delle lunghe, articolate, minuziose disquisizioni con le quali ha sempre catturato e imbambolato tutti noi fin da quando era bambino. Questa volta argomentava sulla valenza simbolica del cigno.

 “Un animale che nuota nell’acqua, si posa sulla terra, vola nell’aria, non ti sembra rappresentare un legame misterioso fra gli elementi?” ha concluso infervorato puntando gli occhi sulla moglie; e son certa, potrei perfino scommetterci, che lei, da quella donna intelligente e intrigante che è, abbia ribattuto con una riflessione stuzzicante…ma di tale risposta non ho memoria, evaporata in un baleno per me che, come spesso mi accade, ero volata – o precipitata? – nei miei spazi e delle loro parole conservavo soltanto il bagliore delle piume del cigno. Candide… trasvolate per incanto su un palco, ormai rilucenti tutù di ballerine eleganti e flessuose nel loro danzare. Questo percepivano i miei occhi, nelle orecchie solo echi di flauti e clarinetti. Poi forse mi sono appisolata.

Però oggi mi è tornato a frullare nella mente, il cigno. Non più il balletto, no, bensì l’antica credenza secondo la quale il cigno selvatico, poco prima di morire, avrebbe un canto armonioso.

Intrigante, mi son detta.

E immediato sopraggiunge il desiderio di poter cantare anch’io come lui, il cigno- ora che il futuro è una tavola cosparsa di briciole; non mi appartiene più, no, anzi in modo innaturale si confonde col ricordo- per lasciare ai miei cari un suono, una voce che mi ricordi.

Ma devo correggermi a ben pensarci, perché son certa che solo i più piccoli dei miei cari, i figli dei figli dei miei figli, proprio loro e soltanto loro riuscirebbero a individuarne le note, a leggerne lo spartito, loro che ancora dispongono di quello strumento straordinario che è il pensiero magico e ancora interpretano la realtà a prescindere dalle categorie che imprigionano gli adulti.

(Quei piccoli che mi afferrano le mani per calcolare il numero delle macchie scure o inseguono col ditino il solco delle rughe sul viso chiedendo: Dove porta questa? perché ho spiegato loro che ogni piega, ogni increspatura rimanda a storie lontane. Ed io racconto ritrovando insieme a loro persone e sentimenti sepolti.)

Lo dedicherò dunque ai più piccoli, proprio così… ma dovrò inventarmi una forma comunicativa capace di raggiungerli nella loro componente emozionale, che sia sfumata e incorporea come quella delle fiabe. Sì. Poi forse quando saranno cresciuti e capiterà loro di ripensarci magari scopriranno qualcosa in più al di là, oltre. Come diceva Dante? Ah, ecco: “Sotto ‘l velame de li versi strani”.

Fa fresco qui sul balcone, il sole si sta accomiatando mentre il giardino si prepara a quel momento di sospensione che tanto mi è caro, quando piante e animali si scrollano di dosso la fatica della giornata e, in un subitaneo silenzio, sembrano annegare nel riposo.

Forse sono stanca anch’io, forse sì, sebbene il mio presente non contempli incombenze o responsabilità; il fatto è che sento il peso degli anni, tanti, densi, corrugati e arruffati dagli eventi, mi vien da dire straripanti per questo corpo divenuto inconsistente, e li sento gravarmi qui sul petto, affaticarmi il respiro.

Sì, una tregua: esser fiore che china il capo al sopraggiungere del crepuscolo, o l’uccellino che nasconde il capo sotto l’ala. Stupidaggini senili, lo riconosco e sorrido di me stessa. Peraltro non son dotata né di ali, né di corolla; soltanto del mio vissuto dispongo, del baluginio dei ricordi, tiepida lucerna a farmi compagnia.

Ed è proprio con loro, i miei ricordi, che intonerò quel canto, intrecciandoli nell’alveo incantato di una fiaba. Una fiaba per i miei nipotini. E accadrà forse che, come quando in una notte carica di stelle colleghi gli astri tra loro con una linea immaginaria e ottieni una costellazione, così i ricordi, o meglio ciò che di loro resta, un friabile ricamo, l’essenza delle emozioni, tracceranno il disegno dei momenti della mia vita.

E canterò guardando il cielo, perché proprio nel cielo, sì, intendo proiettare le mie immagini interiori, legandole alla costellazione del Cigno, alla sua luce e purezza, in questo ultimo canto.

LA FIABA DI ANGELICA

(Ai miei nipotini)

Il mattino o della meraviglia

L’ape vola sul basilico, ondeggia titubante, atterra sulla bocca del fiore e comincia a muoversi con delicatezza. Minuscola ombra impressa sulla foglia sottostante vagante col volo di lei, circolarmente. Breve il tempo su quel pozzo, una decisa virata ed eccola sul fiore della menta. Si immerge e si alza, spandendo impercettibili ondate di polline. Il disco del sole ha appena oltrepassato il filare delle viti e s’incammina verso il fogliame degli ulivi.

Alza il braccio la bambina per misurare l’altezza del sole all’orizzonte: il suo braccio levato è la misura.

E già il gelsomino comincia a olezzare e sarà così fino a tarda sera.

Angelica socchiude gli occhi per seguire attentamente le operazioni dell’ape che svolazzando si è frapposta fra lei e la luce, facendo scudo agli occhi con la mano. La mano è diafana contro il sole, sottilissimi fiumiciattoli rossi la percorrono internamente, brilla il contorno delle dita, le unghie diventate opache mezzelune, la peluria sul dorso è un campo di grano mietuto e le efelidi si disperdono nella luce.

Posa in grembo la mano Angelica e la mano torna quella di sempre mentre la danza dell’ape ha lasciato la menta ed il basilico. Il canestrello è pieno di umore dolciastro, diventa pesante il volo che si perde fra le foglie dell’acacia.

Lungo le righe blu del suo grembiule, la bimba osserva l’andare zigzagante di una coccinella gialla. Un dito allungato su quel percorso ed ecco un trasparente solletico, ma basta l’inconsistente movimento della mano per produrre la fuga della coccinella. Resta sul palmo un formicolio giallo.

Dalle fronde dell’acacia gocciola il canto delle creature dell’aria, dialoghi invisibili tra le foglie.

Angelica guarda in alto, la luce. E’ la sua compagna, la sua guida.

E’ stata la striscia di luce a svegliarla stamani, come ogni giorno d’estate. Striscia occhieggiante dalla fessura nella porta, serpente invitante, si snoda a ritroso dalla camera al corridoio e da lì si allarga sul pavimento del salone, circumnaviga le zampe faccia-di-leone del tavolo e senza esitazioni si avvia alla porta spalancata del balcone diventando effusione giubilante che rotea giù nel giardino e lì si perde, vigorosa e sfrenata, fra rose e gelsomini e oltre, tra le viti e l’uliveto.

Al suo seguito, in quella scia di luce, Angelica è scesa di corsa in giardino a vagolare tra i vasi di gerani e le siepi, accogliendo su di sé la brezza fredda del mattino – la pelle diventa irta di crateri- e il canto degli uccelli. Calpesta la ghiaia del vialetto e sogguarda il fico: lassù, tra quelle fronde, sorgerà la sua casa arborea, ne è certa.

Ancora passi, e la ghiaia accompagna l’andare col luccichio dei sassolini più brillanti e la musica del suo cuore di pietra.

Qui è la sua vita. E’ l’ape che attinge, è la coccinella, è il sole che trapassa la sua mano, la fronda dell’acacia, la voce degli uccelli, il sogno di una casetta tra i rami del fico.

Il pomeriggio o della passione

Angelica correva nei giorni, lunghi di attese, madidi di entusiasmi. Arcobaleno ammiccante, illusorio orizzonte.

Il solstizio d’estate irruppe sui passi di lei come accecante specchio, infinito giorno. Il corpo che anela alla nudità, la goccia stillante da remote, inviolate profondità per farsi stella splendente e colare in minuscoli rivi.

Poi il giorno si fece più breve e più lunga la notte. Erano state scavate caverne laggiù, nei recessi oltraggiati del suo essere, e da lì cominciò a udirsi il latrato della Bestia, che urlava la sua fame.

E Angelica si mise in ascolto: era il pianto della bimba tradita, della moglie tradita, della donna tradita. Erano le attese disattese, chiome di alberi spezzate dal vento.

Era un infinito vuoto che gridava la sua vacuità, accompagnato dal gemito di antichi e novelli bisogni.

(E neppure una fata benevola, né un cavaliere, né un angelo le portarono conforto)

La sera o del riposo

La luna percorre il suo tracciato e nel giardino leggero vento fonde i profumi in un canestro verde, respira il gelsomino e le rose attendono il conforto della rugiada.

Trema l’aria piena di grilli e zanzare e pipistrelli.

Grigie, argentee, soffici, spugnose, rapide o pigre le nubi camminano nel cielo. Si formano e si disfano sotto lo sguardo di Angelica come giardini di sabbie colorate, come infiorati percorsi processionali, come tutto ciò che nella vita ci occorre di fare e ci occorre di veder scomparire.

La mano che apre il palmo a ricevere il colore della luna, ma senza stringere, è diafana, percorsa da vene azzurrine, macchiata dal tempo.

Mano che ha raccolto e sparso e indicato e annuito e punito, mano che ha sfogliato la conoscenza e fermato le emozioni su gracili fogli di carta, che ha accarezzato il corpo dell’uomo e i volti dei bimbi, che ha curato ferite, che ha chiamato a sé, che ha rifiutato, mano che ha stretto altre mani, mano stretta sul cuore, mano levata al cielo, mano che ha negato, mano che ha accettato.

Mano nella notte irrorata di luce.

Il crogiolo del tempo, indefesso ineluttabile generoso e feroce, ha decantato la vita.

Angelica guarda la luna, ascolta il suo parlare e nell’impalpabile spessore che la separa dalla consistenza di lei incontra la diafana avventura della propria esistenza e la stringe a sé, sul proprio grembo. Cordone ombelicale reciso da incolmabili abbandoni e utero che generò, giardino di delizie.

Si china lieve il capo, quasi un inchino, sotto il peso della notte d’argento e dolce il sonno sopraggiunge, sereno.

La notte o…

E cosa accade nel cielo stasera?

E’ turgida la luna, composte nell’eterno ordine le stelle, trasparenti si muovono le nubi ubbidienti al dettato di un tacito vento.

Da molto lontano sopraggiunge la vastità della notte e il suo mantello si china ad avvolgere la luce di Angelica. Esperti gesti giunti dall’eternità inglobano le ancor palpitanti scintille affinché niente vada perduto e premurosamente ripiegano i lembi del nero mantello.

Ecco che quel breve luccichio, protetto e accudito, si invola. Palpitio orchestrato di voci inudibili trema fra terra e cielo. E nel giardino piangono di commozione fiori e foglie. Il fico geme e per un attimo- un istante appena- compare tra i suoi rami una piccola casa.

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2 commenti »

  1. Canto del cigno intonato con voce da autentico soprano, ovvero, per parlar fuori di metafora, racconto scritto in stile molto letterario. Autrice che padroneggia gli strumenti della scrittura alla prova in questa sorta di lascito spirituale indirizzato ai nipotini. Magari ai nipotini quando avranno qualche anno in più e saranno capaci di decifrare i gorgheggi – figure retoriche che avvolgono quest’opera realizzata, oltre che con la tecnica, con il cuore.

  2. «Egli è certo che, nel momento in cui la sua anima si sarà liberata dalle
    catene del corpo, potrà finalmente ritornare alla vera luce.» Sosteneva Platone a proposito del canto del cigno.
    Un racconto nei racconti. Scrittura sensibile. Brava!

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