Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2021 “Galosce” di Massimiliano Zeloni

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

Era di nuovo il periodo dell’anno in cui il prezzo dei fiori recisi raddoppiava senza apparente motivo.

In terrazzo, il contrasto tra la pelle delle guance e del naso, bucata dagli spilli del freddo, ed il vapore che saliva dalla tazza bollente, era la vera sveglia. Ancora in pigiama e con una vestaglia annodata sopra, mi deliziava osservare in silenzio gli alberi ormai quasi spogli, con un paracadute di foglie gialle e marroni ai piedi, che sbucavano dalla foschia del parchetto vicino a casa.

La tazza bianca ricolma di caffè non serviva a molto, se non al fatto di sentirmi totalmente alzata per le sensazioni che il suo odore mi provocava. Il fischio della moka, preceduto dal borbottio del caffè che passava, era il primo suono definito che sentivo ogni mattina, da un po’ di tempo. 

I pensieri che avevo mentre aspettavo che salisse il caffè, racchiusi nelle fiammelle blu del fornello, me li dimenticavo quasi sempre nel tragitto fino al balcone. 

Quella mattina invece, dopo aver visto le tazze nere, mi avevano seguito in terrazza.

Ho una collezione di grosse tazze cilindriche, tutte con un cuore rosso e con la scritta I LOVE seguita dal nome della città dove le ho comprate. Le prendevo sempre nere o bianche e le tengo sulla mensola di ciliegio sopra il forno micro onde, all’estremità sinistra della cucina. Accanto a queste ho un piccolo calendario cartaceo quadrato con i giorni da strappare. Togliere quello precedente, e leggere la frase o citazione per il nuovo giorno che sorge mi direziona l’umore della giornata.

Io ho sempre usato soltanto le tazze bianche. 

Quel giorno mi ero incantata ancora di più a sorseggiare la tazza di caffè, sentendo il crepitio della pioggia che spesso cadeva in quella stagione. Una pioggia sottile, fitta ma non temporalesca. Musicalmente gradevole. Il rumore dolce mi aveva rievocato parole sussurrate all’orecchio. Da ascoltare ad occhi chiusi sorridendo. Poi, riaprendoli, avevo cercato di decifrare le singole gocce d’acqua guardando in direzione della luce che le trapassava, delineandole e bloccandole per un istante alla mia vista. 

Per uscire di casa mi ero messa un trench lungo e nero, in modo da ripararmi dalla pioggia. Mi piace calzare le ballerine perché mi fanno sentire ancora giovane e leggera, ma quel giorno avevo optato per degli stivali bassi, neri e con le borchie, per non bagnarmi i piedi. Ero giunta alla portiera della mia piccola utilitaria, riparandomi con un ombrello, e vi ero entrata tenendolo alto nella fessura dello sportello quasi totalmente accostato.

Guidavo su una piccola strada comunale, tutta dritta, ed avevo davanti un maledetto motorino che andava lentissimo nel mezzo della corsia, occupandola di  fatto tutta, seguito a ruota da un ciclista vestito completamente di nero con delle strisce catarifrangenti, da professionista. 

Ho sempre avuto paura di sorpassare. C’è una situazione particolare che patisco parecchio: quando ci sono i restringimenti di carreggiata in autostrada. Se in questo tratto più stretto mi trovo a dover sorpassare un camion, solitamente rinuncio.

Quando guidavo con lui accanto e ci trovavamo un TIR davanti in autostrada, lui mi incitava a sorpassare, dicendomi che non sarei mai finita schiacciata dal camion sul guardrail. Le sue parole convinte e decise mi riallargavano la vista. Non glielo dicevo mai che mi piaceva vivere nella sua scia, grazie al suo modo rilassante e senza esitazioni di affrontare le cose. Dietro di lui mi sentivo sicura e veloce. 

Non sono mai stata molto aperta ed incline a parlare di me e delle mie cose. Sono più quel tipo di donna matura a cui piace ascoltare e che rifugge le domande personali futili, e anche quelle scomode.

Però con lui era diverso.

Con lui era come essere seduta sulla cresta di una alta duna di sabbia rossa del  deserto. Di giorno con il sole a picco ed il vento che ti soffia addosso ti fai incantare dal suono dell’aria che fischia racconti. Storie fantastiche, narrate con parole rotonde, profonde, armoniose ed eleganti.

La notte, quando il tepore della sabbia ti scalda la pelle e contempli la fredda volta celeste, così luminosa e stipata di stelle, hai la sensazione che vogliano davvero sapere di te.

C’era sempre il momento in cui lui mi domandava di raccontargli di quando ero piccola. 

Non accadeva così spesso, ma abbastanza da farmi pensare che mi amasse ancora.

Alle volte si girava verso di me, di mattina nel letto, e dopo avermi abbracciata, me lo domandava. La prima luce del giorno che arrivava dritta sul letto evidenziava le sue rughe ai lati degli occhi, che spuntavano dal bordo delle lenzuola carta da zucchero. Di quel tipo di cotone spesso ed un po’ ruvido al tatto. 

Occhi dolci e curiosi. Me lo sussurrava tra i capelli. Raccontami qualcosa di quando eri piccola. 

Diceva di respirare l’odore dei miei capelli. Non il profumo ma il mio odore.

Non si stancava mai di stupirsi quando gli dicevo che, per andare alle scuole elementari, a circa 400 metri dalla mia casa di allora, ci andavo a piedi. Da sola. 

Uscivo dal gigante portone di legno scuro del palazzo dove viveva la mia famiglia, arrivavo all’angolo della strada e da lì iniziavo a seguire delle piccole orme, dipinte sul marciapiede, che portavano all’ingresso della scuola. 

Mi inteneriva parlare di quando ero piccola. Mi faceva appena increspare la fronte e rilassare le sopracciglia nere. 

Una mattina lui mi aveva detto che si immaginava perfettamente la scena: indossavo delle galosce rosse e pioveva. Non sapeva perché, ma visualizzava la scena di me da bimba che camminavo con le galosce per non bagnarmi i piedi, calpestando delle foglie marroni, cadute sul marciapiede della via in cui seguivo quella successione di coppie di impronte verdi, rosse, gialle. Un po’ sfalsate tra loro per dare l’idea del susseguirsi dei piedini che camminano verso la scuola. Pioveva e c’erano alcune irresistibili pozze d’acqua sul marciapiede. 

Mi aveva conquistata la scuola elementare. Andare a lezione indossando il grembiulino vichy, a quadrettini rosa e bianchi, con i bottoni in madre perla ed il bavero ondulato e ricamato con la mia iniziale in corsivo rosa. 

Su mia domanda, lui mi aveva confessato che il mio nome non gli piaceva molto. Però ne aveva sottolineato almeno il pregio di iniziare con la prima lettera dell’alfabeto.

Poi, quando il mio racconto gli sembrava sufficiente si alzava dal letto ed andava a preparare la moka in cucina, in boxer e fruit bianca. Non metteva mai il pigiama la notte. Una moka grande, in modo da riempirci quasi completamente due tazze da caffè latte. Una bianca e una nera. Ci piaceva berlo in silenzio, guardando il panorama dal terrazzo.

Finalmente il motorino ed il ciclista avevano deviato e mi ero trovata la strada libera. Dopo aver guidato ancora per cinque chilometri ad una velocità accettabile ero arrivata a destinazione. 

Cadeva ancora una fioca nebbiolina d’acqua ed un odore umido di fiori bagnati si percepiva nel parcheggio in cui avevo lasciato la mia auto. Non avevo preso l’ombrello con me. 

Dal muro di cinta un po’ sbiadito e con aloni di muffa facevano capolino le punte di alcuni alti cipressi che contornavano il lungo vialetto centrale di ghiaia e sassolini del campo santo. Lo stile del cimitero era classico, con alcuni sepolcri più antichi e monumentali raffiguranti statue o angeli. 

Non sono mai stata una persona a cui piace recarsi al cimitero per andare a trovare i morti. Mia nonna ci andava tutti i giorni. Negli ultimi suoi anni di vita si faceva accompagnare da me o dagli altri nipoti piccoli per aiutarla con i fiori. Io non andavo mai volentieri con lei perché a metà di quel viale, vicino ad un cipresso quasi piegato in due, sapevo che c’era la statua di una madre sconsolata in ginocchio, con la testa reclinata e lunghi capelli che le cadevano come lacrime verso la terra. Verso la tomba in miniatura del suo piccolo angioletto sepolto nel fango. Mi faceva paura avanzarle incontro, la ghiaia scricchiolando sotto i miei piedi mi portava a pensare che da un momento all’altro quella donna potesse afferrarmi in un abbraccio ghiaccio e compensativo.

Mia nonna aveva tentato di rassicurami varie volte dicendomi che i fantasmi non esistono ma che esiste solo dio, la madonna e tutti i santi e gli angeli che ci proteggono. 

Ad ogni tomba di parenti srotolava uno o due mazzi di fiori, che trasportava sotto braccio, e lasciava cadere sul pavimento i fondi dei gambi dei fiori accorciati con le tronchesi alla misura giusta per ciascun vaso. Con uno straccio puliva il marmo, poi si faceva ancora più seria e recitava velocemente una sequela biascicata di eterno riposo, o’ signore porta in cielo tutte le anime e salve regina. Dopo il segno della croce si baciava il palmo della mano e lo passava come un’ultima carezza sulla tomba e sulla foto del caro defunto.

Faceva sempre lo stesso percorso di visite nel cimitero. Mentre stavo varcando il cancello d’ingresso con la croce sulla sommità avevo realizzato che me lo ricordavo ancora dopo tanti anni. Cominciava da mio nonno,  poi i suoi genitori, fermandosi infine da due fratelli morti giovani e una cugina sua coetanea. 

Una volta lui mi aveva detto che su una lapide rosa di quel cimitero c’era la foto di suo zio che sorrideva con i suoi occhi verdi. Tutte le volte che la guardava si sentiva allegro. Non aveva mai capito come mai fosse stato così attaccato a suo zio, non di sangue per altro. E concludeva quel racconto sperando che anche suo nipote avrebbe sorriso quando avesse visto la sua foto al cimitero – il più tardi possibile, chiosava. 

Solo che lui aveva preferito il marmo bianco, si definiva un uomo classico. E anche la foto l’aveva scelta lui. Ogni volta che gli scattavano un ritratto in cui era venuto particolarmente bene esclamava sempre scherzando che era quella giusta per la  sua tomba.

Una luce primaverile illumina delle maestose querce verdi in lontananza sullo sfondo. Indossa una camicia azzurra che si fonde con i capelli canuti, appena arretrati per la leggera stempiatura dettata dall’età. Ha il volto liscio, rasato dalla mattina. Tra le guance che si aprono come il sipario di un palco spunta un sorriso dolce, di fiducia verso le altre persone. La punta del naso pronunciata e le narici ampie donano gentilezza e garbo. Le sopracciglia folte anticipano le rughe ondulate sulla fronte. E sotto queste ci sono i suoi occhi blu polvere, cinerini, affidabili e malinconici. 

Li avevo accarezzati con due dita, la foto era gelida. Sentivo un gran freddo salire dai piedi. La pietra del pavimento era completamente bagnata per l’umidità quasi totale dell’aria, che spandeva il pungente odore delle preghiere recitate dai tanti fiori freschi presenti quel giorno. Mentre camminavo verso l’uscita guardavo i marmi che facevano da sfondo ad un’esplosione di colori che cercava di redimere dalla tristezza che quella data suscita nelle persone. 

Così tanta ricerca di vita in una giornata che pioviscolava sul mio trench, sui flebili lumini delle tombe, sulla sua promessa infranta di non morire prima di me nonostante fosse più grande, sui miei capelli increspati, sui sassolini del vialetto, sul crepitio dei ricordi, sulle mie ciglia già umide di lacrime, sui pensieri amari, sulla statua della madre che piange inconsolabile, sul piccolo cipresso che aveva sostituito quello pericolante accanto alla statua e che guardava il cipresso, alto e parallelo dall’altro lato del viale, come un figlio contempla sua madre.

Ed infine pioveva sulla frase che avevo scoperto e letto quella mattina, strappando via il quadrato del calendario del primo giorno di novembre appena passato, e che diceva che le persone che non puoi più tenere per mano le tieni nel cuore.

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3 commenti »

  1. Dal fischio della moka si snoda, attraverso collegamenti inaspettati, un viaggio a ritroso tra ricordi (forse talvolta un po’ troppo circostanziati)che porta all immagine di un ‘lui’ perduto. Tra nostalgia e sorriso.

  2. grazie per il commento. La pioggerella malinconica quando si sente sola, la luce che emana il ricordo di lui.

  3. Commovente e vero! Bravo!

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