Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2021 “L’ABC del pifferaio” di Licia Tumminello (sezione racconti per bambini)

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

Il mio nome è Friedrich.

A cinque anni, nel febbraio del 1440, i frati del monastero di Weltenburg mi hanno salvato dall’incendio della mia casa. Da allora sono trascorsi dieci anni.

Devo tutto ai frati benedettini che mi hanno cresciuto e insegnato a leggere, scrivere e far di conto. In cambio hanno voluto preghiere, ubbidienza e servigi. In questo, ecco, lo ammetto, non sono molto bravo. Sì, mi spezzo la schiena per scaricare i sacchi di farina, passo ore nell’orto a togliere erbacce e in cucina a lavare piatti e pelare patate, ma piuttosto che sistemare i breviari, spolverare le panche della chiesa o attendere – seduto e in silenzio – che si esaurisca la candela dei copisti per sostituirla, preferisco andare in giro per i campi e i boschi, ascoltare il canto degli uccelli e perdermi nella natura, arrivare in paese e incontrare gli amici, incidere il legno e suonare il piffero…

Non per disobbedienza, ma per la mia impudenza, tre giorni fa le ho prese di santa ragione. Non riesco neanche a stare seduto, per i calci che mi ha dato padre Karl. E le sue parole mi hanno fatto male; quasi mi bruciano più delle pedate: «Il diavolo sei, il diavolo! Vuoi farmi morire di crepacuore? Ci vuoi buttare tutti sulla strada? Vattene e non farti più vedere!». Ma padre Karl ha solo frainteso le mie intenzioni. Non intendevo mancargli di rispetto!

Quando ho aperto la mia scatola segreta ed ho rovesciato sul tavolo del refettorio tutti i miei dadi, mi ha guardato, sdegnato.

«Così lavori tutto il giorno? A fare dadi per divertirti con i tuoi amici? Ed io ti nutro e ti mantengo forse per questo, disgraziato?»

La dimostrazione che non erano dadi da gioco non è servita. Ho schivato il suo manrovescio, ma non ho potuto evitare i calci e neanche i sei giorni di punizione.  Perché? La mia intenzione era di salvare lui e gli altri dalla sicura cecità, dal gibbo incipiente!

Quella notte, poi, il padre portinaio mi ha svegliato. Voleva che gli aprissi. Cosa poteva volere da me? E non era solo! Ho sentito anche la voce di un uomo di cui sconosco il nome; mi è sembrato fosse colui che chiamano “il macellaio”: un delinquente che vive di espedienti e, dicono, ammazza la gente dietro compenso. Quest’individuo, con padre portinaio… Al chiarore della lanterna li ho intravisti. Mi è sembrato che lo sconosciuto avesse tra i denti un coltello lungo più della sua faccia!

Vorranno uccidermi! Mi sono detto. Non ho atteso che spalancassero la porta. Afferrato un mantello, due candele e un acciarino, sono scappato dalla finestra.

Ho corso senza fermarmi sino a quando le gambe hanno ceduto. Nella notte scura anche lo stormire delle fronde faceva paura. Le candele si sono presto esaurite. Il buio mi metteva terrore, la fame mi torceva le budella. Ho cercato di ingannare l’uno e l’altra suonando il mio piffero. Al primo chiarore ho ripreso il cammino. Ho attraversato un bosco e una vasta radura; ho oltrepassato un piccolo ruscello, oltre il quale si distendeva un prato verde brillante, tagliato in due da una strada. L’ho raggiunta e, non sapendo che direzione prendere, mi sono avviato verso il rosso fuoco del tramonto. Il primo della mia nuova vita di vagabondo.

Il mattino dopo ho udito avvicinarsi il rumore degli zoccoli di un cavallo. L’intenzione di nascondermi è svanita dinanzi alla bellezza delle dorature che guarnivano un’elegante carrozza. Come specchi, riflettevano i raggi del sole ancora basso all’orizzonte. Una carrozza simile l’avevo vista solo quando il Vescovo Johan von Eych era venuto in visita al monastero.

I cavalli hanno nitrito. Una donna si è sporta, mi ha visto ed ha ordinato al cocchiere di fermarsi e aiutarmi a salire.

«Cosa ti è successo, ragazzo? Dove sei diretto? Ti sei perso, per caso?»

Non ho risposto. Ero quasi assiderato.

«Come ti chiami? Da dove vieni?» ha insistito la sconosciuta. Era una suora, dallo sguardo mansueto e chiaro, il volto affilato, le labbra sottili. Due ciocche bionde sfuggivano dalla fasciatura bianca che le circondava il viso.

Non sapevo chi fosse, né dove mi trovassi. Non avevo neanche la forza di parlare. Mi ha offerto del pane e una mela. Mi sono addormentato. Al risveglio, lei mi guardava con i suoi occhi dolci, interrogativi.

Le ho parlato, accorato, e le ho riassunto i fatti.

«All’inizio padre Karl sembrava incuriosito.»  Ci tenevo a raccontarle anche i minimi particolari.  «Gli ho spiegato la mia invenzione: un modo nuovo per copiare e scrivere libri senza troppa fatica. Lui mi ha riso in faccia e mi ha detto: davvero? Vediamo che cosa sei stato capace di inventare tu, che non sai far altro che spaccare corteccia e fare fischietti!»

La suora mi ascoltava, sorridendo. «Sono curiosa anch’io adesso. Che idea hai avuto, da rischiare pure la morte?»

Aveva un tono sarcastico; non capivo se fosse sincera o se volesse solo consolarmi. Forse non credeva che mi avrebbero ucciso? Pur tuttavia, volevo convincerla della bontà della mia idea e ho ripreso, con maggiore foga.

«Ho fatto vedere a padre Karl il contenuto di una scatola che nascondevo sotto la tonaca: 108 dadi, su ciascuno un carattere dell’alfabeto, maiuscole e minuscole, punteggiatura compresa… Gli ho spiegato che i dadi servono a comporre le parole; le parole le frasi; le frasi le pagine e le pagine, un intero libro! Guardi, padre Karl, gli ho detto, basterebbe intingere il tutto nell’inchiostro e il gioco è fatto! Gli ho dato anche una dimostrazione: ho preso una cornicetta di legno – fatta apposta per gli esempi – e l’ho riempita di dadi scelti accuratamente. Giusto due righe, poche parole… Ho spennellato con un velo omogeneo d’inchiostro e… voilà! ho capovolto la cornice su un foglio di pergamena.»

«Ah…interessante!»

«Sì, anche Padre Karl è rimasto di sasso. Era una semplice frase: “Eccellentissimo Padre Karl, la riverisco”. Non volevo prenderlo in giro… Era solo un esempio! Mi ha dato pure del ladro…»

«Ladro? Perché?»

«Per l’inchiostro… È vero, l’ho preso una sera, dallo scriptorium, ma serviva per la dimostrazione!»

«E poi, che è successo?»

«Lui ha voluto provare. Ha preso i dadi, se li è rigirati tra le mani, poi ha iniziato a comporre delle parole. Volevo aiutarlo, ma mi ha fulminato con lo sguardo. Ci penso da solo! ha detto. Io mi accorgevo che stava sbagliando tutto… Infatti, quando ha capovolto la cornice sulla pergamena, erano… parole senza senso.»

«Davvero? E come mai?»

«Semplice. Doveva scriverle al contrario!»

La suora si è messa a ridere. «E adesso la scatola dov’è?»

«È rimasta nella mia camera, nascosta sotto il materasso» le ho risposto sconsolato. «Mi sono rimasti solo tre dadi, quelli che sto ancora intagliando.»

«Fammeli vedere.»

Li ho tirati fuori dalla tasca della tonaca. F R I: le prime tre lettere del mio nome. «Non sono ancora finiti…»

Li ha osservati, pensierosa.

«Glieli regalo» ho aggiunto, porgendoglieli, «sono tutto quello che ho…»

Mi ha ringraziato con un sorriso, li ha riposti in grembo e ha chiuso gli occhi.

È calato il silenzio.

Non sapevo dove mi trovassi, dove stessi andando, che sarebbe stato di me, adesso che non avevo più un tetto, un riparo.

Avevo commesso una leggerezza incredibile. Irreparabile. Ero fuggito dall’unico posto a me noto al mondo, ed ero solo, come dieci anni fa. Con la differenza che non ero più un bambino che ispira tenerezza, ma un fuggiasco, un ladro. Un colpevole.

Oltre la tendina, il panorama era sempre uguale: un immenso manto verde scuro, spolverato d’argento, che dalla strada si stendeva sino in cima alle colline e pareva come poggiato contro un cielo color latte. Il silenzio, rotto solo dallo sferragliare della carrozza, aumentava il senso di solitudine che m’irrigidiva il corpo e stringeva il cuore.

Ah… poter suonare il piffero!

Dopo un tempo indefinito la suora, riaprendo gli occhi, mi ha chiesto dove fossi diretto.

«Non so» le ho risposto scuotendo il capo.

«Non mi hai neanche chiesto chi sono. Non t’interessa?»

«Ha ragione…»

«Sono suor Terese, la badessa del monastero femminile di Dalheim» e intanto si sfilava i guanti. «Sto andando a Magonza, per ritirare una consegna per la chiesa.»

Ho notato subito le dita macchiate. Quel rosso scolorito, e ancora di più le tracce di blu oltremare… In una donna! Non era possibile, ma le conoscevo bene, non potevo sbagliarmi.

«Le sue mani… sono come quelle dei monaci…»

È rimasta silenziosa a guardarsi le dita, poi ha rimesso i guanti e annuito. «Sì, Friedrich, anche noi lavoriamo agli antichi scritti. Li custodiamo, alcune di noi sono autorizzate a leggerli e molte passano le giornate a copiarli.»

Ero sbalordito. Non sapevo che anche le suore si occupassero dei manoscritti. I monaci lo considerano un privilegio, si vantano del loro ruolo… Non riuscivo a immaginare una donna nello scriptorium.

«Io sono una miniaturista. O meglio, lo ero, prima di diventare badessa».

Mi ha restituito i tre dadi. Ho preso il coltellino ed ho iniziato a rifinirne i contorni.

«Sai, è interessante questo tuo… lavoretto. Verresti con me a Magonza? Mi è venuta un’idea…»

I suoi occhi erano buoni e aspettavano un sì. Per me, Magonza o un qualsiasi altro posto è lo stesso, ho pensato, ma quella meta, mentre la carrozza andava, mi ha riscaldato il cuore e sciolto le membra, come strutto sul fuoco.

Lungo la strada ci siamo fermati in una locanda per rifocillarci e far riposare i cavalli. Non ho mai mangiato tanto in vita mia.

«Datti una ripulita» mi ha detto suor Terese. «Devi essere presentabile. Più tardi andremo a trovare un mio giovane amico.»

Giunti a Magonza il cielo era grigio, la via polverosa e larga. Guardavo stupefatto dal finestrino. Una città non l’avevo mai vista. Non c’erano casupole ma palazzi; non carretti ma carrozze. Donne e uomini ben vestiti andavano di fretta; i bambini vociavano allegri, chi rincorrendosi, chi spingendo il cerchio con un bastone. Ho visto giovanette con ceste sulla testa e ragazzi che trasportavano carretti di frutta e ortaggi. C’era movimento e vita, in ogni angolo, in ogni strada.

Ci siamo fermati dinanzi alla bottega di un orafo. Il proprietario incuteva soggezione e non pareva poi così giovane. Forse era la barba che rendeva il suo aspetto severo, o lo sguardo altero e diffidente col quale mi ha squadrato da capo a piedi quando sono entrato al seguito della badessa.

«Caro Johannes, questi è Friedrich. Viene dal monastero di Weltenburg ed ha avuto un’idea molto interessante, che potrà illustrarti lui stesso!»

L’espressione dell’uomo si è ammorbidita, pur mantenendo quella punta di sospettosa prevenzione forse tipica del suo rango.  Era un ricco commerciante, del resto, e la badessa aveva appena acquistato da lui un turibolo finemente intagliato, con madreperle incastonate a formare una croce.

«Dimmi, ragazzo.»

Mai avrei immaginato, solo pochi giorni prima, che il mio passatempo disprezzato da padre Karl potesse interessare qualcuno, fuori dal mio convento.

Gli ho mostrato i dadi, ancora grezzi, e cercato di vincere la timidezza. Con parole povere e il cuore come un tamburo, incespicando spesso, gli ho descritto come andavano utilizzati.

«Io… penso che in questo modo si potranno scrivere molti più libri…» ho concluso, alzando gli occhi su quell’uomo per una fugace occhiata, ma tornando subito a guardarmi le punte dei piedi.

«La scrittura è la più alta delle attività manuali» ha esordito lisciandosi la barba. «Non mi stupisce che un amanuense l’abbia considerata una diavoleria. Forse ne ha intuito le possibilità e l’avrà ritenuta in grado di togliere il lavoro a lui e a chi, come lui, dedica la propria vita a copiare gli antichi testi. Che cosa pensa lei, Terese, in proposito?»

«Amo molto il mio lavoro. Io e le altre miniaturiste abbiamo fatto delle cose meravigliose e sono convinta che nessuna macchina possa fare altrettanto.  La bravura di certi artigiani sarà sempre richiesta; non credo che scomparirà. Ma il progresso non si può e non si deve fermare.»

«È vero» ha detto l’orafo. Poi, rivolto a me: «Però il legno non è materiale adatto per fare timbri. Assorbe e si rovina subito. Ci vuole il metallo. Un metallo resistente. O meglio, una lega… E occorre trovare un inchiostro che aderisca su questo materiale. E studiare una pressa, che sostituisca la mano dell’uomo…»

Facendo roteare tra le dita uno dei miei dadi, ha continuato: «Ci vuole tecnica, ragazzo. Tecnica.»

«Ma l’idea è buona, vero Johannes?»

«Molto buona, mia cara Terese, molto buona. Direi geniale. Bravo Friedrich.»

Ho alzato lo sguardo su di lui, riconoscente. Nessuno mi aveva mai detto “bravo”.  Sto sognando, ho pensato.

«Allora… t’interessa?» ha aggiunto la badessa. «Io sono venuta subito qui perché solo una persona come te, artista e conoscitore del mondo…»

«Sì. Vale la pena di lavorarci su» ha detto l’uomo annuendo, pensieroso. «Direi proprio di sì…»

Suor Terese mi ha sorriso; ciò mi ha dato coraggio e, fatto un respiro profondo, ho osato, non avendo nulla da perdere.

«Mi tenga a lavorare con lei. Sono volenteroso e… non le chiederò nulla. Solo lavorare, signor…»

«Gutenberg. Johannes Gutenberg, ragazzo mio.»

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8 commenti »

  1. Un ‘idea originale svolta con linguaggio vivace.

  2. Racconto scorrevole e intrigante. Ho apprezzato la ricostruzione dell’epoca.

  3. È un racconto perfetto e scritto benissimo. Mi è piaciuto più che moltissimo. Complimenti davvero!

  4. Molte grazie Emilia Giorgetti e Loredana Specchio! ?

  5. Grazie mille Leonardo Schiavone!

  6. L’ho letto due volte e sempre mi ha catturato il tuo stile di scrittura, Brava ! Ottimo lavoro!

  7. Grazie Paolo Tognetti! Sono lusingata. In bocca al lupo anche a te!

  8. Sto pian piano cercando di leggere tutti i racconti vincitori, anche il tuo merita veramente riconoscimento! Leggendo ho vissuto l’atmosfera del tempo e mi piace molto la scelta dell’argomento! Condivido l’opinione di chi ha detto che i dialoghi sono molto ben scritti, anche il ritmo narrativo coinvolge e trascina verso il finale. Complimenti Licia!

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