Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2021 “Un incontro” di Gianni Cesari

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

Gavino e Bobore correvano a perdifiato, sugli impervi altipiani della montagna grande che sovrastava, incombente, il paese.

Erano anni bui, in cui camionette di Questura e Carabinieri presidiavano le tanche e non di rado loro bambini si rifugiavano negli ovili, al solo sentire crepitare i mitra e talvolta risuonare, con una eco sinistra e sorda, quasi la tonalità bassissima  e più  profonda del “bimbabambaro”del canto a tenore, il rombo lacerante delle bombe a mano. Non passava mese che i banditi si facessero più intraprendenti e che “sa forza”,con i suoi capi generalmente siciliani e napoletani, non occupasse per qualche giorno il paese, senza riscuotere particolare simpatia tra gli abitanti, che continuavano farsi gli affari loro, vedendo solo quello che c’era da vedere, sentendo quel che c’era da sentire ma mai dicendo quello che c’era da dire. Bastava poco, anche una sola parola , per rischiare di ritrovarsi, una domenica mattina , all’uscita dalla messa, con una scarica di pallettoni piantati nel petto da un paesano a viso scoperto, davanti a tutti perché tutti sapessero.

Nei loro giochi di bambini, “sos pitzinnos”, Gavino era il Carabiniere, con una cintura bianca del fratello, che suonava nella banda del paese, messa a tracolla come bandoliera e Bobore era Grazianeddu, l’ultimo eroe romantico, un eroe buono, arrestato e rilasciato, accusato ingiustamente ed evaso, scappato, ripreso e riscappato, rispettato e amato, come un re pastore, saggio, forte e implacabile. Nella testa di un bambino il fascino del proibito speso prevale sulla normalità del bene. Ma Grazianeddu era Zorro, Robin Hood, Sandokan tutti insieme. Nessuno ne parlava in paese, ma alle fanciulle spesso luccicavano gli occhi, quando le vecchie ne raccontavano la storia, ribelle, triste e disperata.

Correvano, d’estate, Bobore e Gavino, su per l’altopiano, raggiungevano le cime dei crinali e precipitavano nelle forre, cercando le piste dei cinghiali e le grotte dei cacciatori di frodo o dei banditi, dove talvolta rinvenivano i resti di un bivacco, di un pasto, di una sosta notturna. Avevano imparato a conoscerle tutte quelle grotte, memorizzandone ingressi, conformazione e via di fuga, sottraendosi spesso alle ire dei pastori che infuriati li inseguivano perché avevano fatto spaventare le bestie al pascolo.

Erano anni di pochi conforts, di fame, spesso dura, di genitori che stanchi di una terra avara decidevano di traversare il mare, affrontando il lavoro in fabbrica, i più fortunati a Genova, gli altri a Torino e Milano, senza prospettive di riabbracciare, nell’immediato futuro, i vecchi, che aspettavano, seduti sulla pietra vicina all’uscio di casa, il trascorrere del tempo e che spesso si lasciavano morire di nostalgia, con il nome di figli lontani esalato insieme all’ultimo respiro.

I bambini non capivano, giocavano, correvano, ogni giorno inventavano un’avventura nuova, un fantastico susseguirsi di agguati, imboscate,fughe, inseguimenti e lotte corpo a corpo, che si risolvevano ogni tanto in una sbucciatura dei gomiti e delle ginocchia. Gavino Carabiniere e Bobore Grazianeddu riuscivano a far scorrere i pomeriggi in un lampo, il lampo che li separava dall’età adulta.

Anche Bobore, sempre vestito meno bene rispetto all’amico, dovette un giorno salutarlo: suo padre entrava alla Fiat e mamma aveva trovato lavoro come magliaia presso una parente  che gestiva un laboratorio di confezioni alla periferia del capoluogo piemontese. Seduto sul ponte della nave Bobore, guardava la sua terra allontanarsi, mentre lacrime inarrestabili rigavano il suo visetto abbronzato di bimbo del Supramonte. Sulla banchina, con la bandoliera a tracolla, Gavino agitava il berretto e un fazzoletto bianco, col quale ogni tanto, si soffiava il naso e asciugava le lacrime. Quando fu certo che l’amico non lo sentisse più Gavino smise di gridare tutta la sua rabbia e la disperazione per avere perso l’unico compagno di giochi, giurando di vendicarsi, contro quel mondo troppo distante che gli aveva portato via l’unica persona che lo capiva.

Strani scherzi fa la vita.

Gavino dopo due anni all’università, in città, era tornato in paese, con i capelli lunghi e la barba incolta, indossando un strano soprabito verde col cappuccio. Non lavorava, viveva in un ovile lasciatogli dalla nonna materna dove allevava poche capre, dal cui latte ricavava un prezioso delicatissimo formaggio cremoso che andava a vendere in Gallura, ai ristoranti dei ricchi, che raggiungeva a bordo di una macchina francese, rossa e con il cambio sul cruscotto comprata , usata, in Corsica, con una parte dell’eredità della nonna. Quando scendeva in paese non si fermava neppure una attimo al bar , nemmeno per un giro di birrette con i suoi coetanei, molti dei quali erano già affermati pastori, con un gregge loro e qualcuno anche con famiglia. Andava dritto all’edicola, dove comprava un giornale dalla testata rossa, che si faceva arrivare apposta dal Campidano, sul quale, notava “tziu Melis” che gestiva il negozio di merceria con annessa rivendita di giornali, si leggevano troppo spesso di parole che lui, Melis, proprio non capiva :  Viet Cong, Giap, lotta proletaria, azioni per smantellare il sistema capitalistico e altre ancora che adesso non ricordava.

Qualche servo pastore che lavorava negli ovili confinanti, aveva rivelato al padrone che dalla proprietà di Gavino, verso sera, si levavano rumori forti, secchi, come di rami spezzati di forza, che potevano sembrare spari, anche se non facevano il rumore delle fucilate che si sparavano ai cinghiali o ai tordi di passo, quando se ne voleva fare un griva da regalare al fattore. Sembravano più i colpi di una pistola, forse una pistola militare. C’era chi , più vecchio, avendo visto passare la guerra, ricordava quel rumore, per averlo sentito dalle automatiche dei sottufficiali tedeschi, che loro chiamavamo Walther , ma che in paese, quando i tedeschi se ne andarono, abbandonando le armi nei rifugi, tutti conoscevano come P.38.

Tutti lo seppero, quando un giorno con la corriera arrivarono due ragazzi giovani, un maschio e una femmina, questa con una magliettina a collo alto aderente che lasciava in evidenza tutte le forme, con grandissimo scandalo delle nonne in costume tradizionale che a quell’ora uscivano dalla funzione delle undici. La coppia entrò nel bar e ordinò un caffé e un cappuccino. Parlavano con accento strano lei napoletano e lui come romano, la ragazza fumava, altro motivo di scandalo, strane sigarette che il maschio arrotolava e leccava per bene, prima di passargliele dopo averne tirato, a mani unite, alcune boccate. Chiesero se il barista conoscesse un loro amico, Sanna Gavino e se fosse lontana la sua casa. Senza rispondere, il gestore uscì da dietro il bancone,  si affacciò sulla porta e fece segno ad un ragazzo che passava dall’altro lato della strada a cavallo di una asinello bianco. Il servo pastore si avvicinò e il barista lo indicò ai due, invitandoli a seguirlo, che li avrebbe portati proprio dove abitava la persona che cercavano. Mentre la ragazza indossava il soprabito, molto simile a quello di Gavino, il barista guardandole con noncuranza  il sedere, osservò uno strano rigonfiamento al centro della schiena, gli sembrò quasi di intravedere l’impugnatura di un’arma, ma si disse, forse sbagliava, essendo troppo distratto dalle rotondità della giovane.

Serra Salvatore, in famiglia chiamato Bobore, era un bambino triste e silenzioso. Negli inverni freddi e bui del bilocale in casa popolare, subaffittato da un compaesano, trasferitosi in acciaieria a Cogne, non aveva altre distrazioni che leggere. Leggeva e leggeva, tutto quello che gli capitava. Tranne che nelle due ore in cui tutti i pomeriggi, non avendo niente di meglio da fare, indossati i calzoncini e una maglia del Toro, correva, sulle rive della Dora,a tutta velocità,da solo, come un fulmine, come quando giocavano ai banditi e ai carabinieri, nella sua isola lontana, con il suo unico amico. Diventò, come diceva Pasolini, un figlio del popolo in divisa. Un sardo altissimo, muscoloso, intelligente e sornione, con lo sguardo fiero di un “balente” ma la testa di un professore. Così lo chiamavano, al corso Ufficiali di complemento, quando dopo una selezione durissima risultò primo negli studi, nello sport e nel tiro. Al termine del servizio di prima nomina gli fu offerto di entrare in servizio permanente e lui non ci pensò su, accettò convinto, chiedendo di essere assegnato ai paracadutisti, a Livorno. Ultimato che ebbe il suo ciclo addestrativo, fu chiamato a Roma dove gli chiesero se voleva tornare in Sardegna. Disse di no. Troppo bene conosceva la sua terra e non avrebbe mai potuto diventare un bravo cacciatore di banditi. Grazianeddu ce l’aveva ancora nel cuore e sapeva che, nonostante tutto ciò che aveva fatto, la sua era un’immagine leggendaria, dura da scalfire.

Gli spiegarono che non era più il tempo degli Stochino e dei Mesina e che l’Anonima si era fatta crudele, emigrando anche a Milano e a Torino. Il deciso colonnello parmense che lo ascoltava nell’ufficio dello Stato Maggiore di  Milano insistette a lungo perché accettasse di formare una sua squadra, tutta di sardi, non tanto per dar la caccia a sequestratori e latitanti ma per fronteggiare un nemico nuovo,subdolo e pericoloso, che si era insinuato nelle coscienze dei giovani, spesso imbevute di ideologia nichilista, dando vita ad un fenomeno difficile da capire e ancor più duro da estirpare: la lotta armata.

Chiese due giorni tempo, nei quali parlò con la madre e la sorella, il padre non c’era più da quasi un anno e alla fine accettò. Pretese di poter portare il basco rosso dei parà e di ricevere ordini solo dal capo dell’antiterrorismo, che lo aveva reclutato. Scelse quindici corregionali, traendoli chi dalle cucine, chi dalle officine di riparazione meccanica dei Comandi dell’Arma del Nord Italia. Il più anziano era un Comandante di stazione in servizio sui monti di Sondrio, rimasto vedovo da poco. Tra gli altri c’erano uno della catturandi di Milano , due dell’antidroga di Verona e un artificiere. Le loro origini andavano da Arzana a Gairo, da Carbonia a Tresnuraghes, da Pabillonis a Chilivani. Li addestrò nella caserma dell’Ardenza e in tre mesi furono “operativi”. Per dar loro una dipendenza organica furono costituiti in Squadrone e vennero provvisoriamente chiamati “Cacciatori di Sardegna”.

Gli elicotteri dovevano decollare due ore prima dell’alba, per poter essere in zona di operazioni quando il sole non era ancora alto. L’obiettivo era la ricerca  di una coppia di irregolari, sfilatisi dalla colonna romana del partito armato, dopo aver condotto con altri fiancheggiatori una dura campagna contro l’Amministrazione carceraria. Avevano fatto già fatto cadere sotto i colpi delle loro Scorpion, Makarov e P.38 due agenti di p.s, un brigadiere dei carabinieri e due membri della polizia penitenziaria, di cui il vicedirettore di un istituto di massima sicurezza. Secondo le confidenze di un dissociato, sulla strada della collaborazione, stavano preparando un’azione dimostrativa verso le carceri di massima sicurezza della Sardegna che allora erano l’Asinara, praticamente inattaccabile e Bad’ e Carros, geograficamente e logisticamente  più a portata di mano. Il collaboratore aveva anche ipotizzato che potessero aver trovato rifugio, da un paio di mesi presso alcuni elementi di un costituendo  gruppo eversivo sardo, mimetizzati nell’ambiente agro pastorale  che stavano raccogliendo adesioni anche tra le frange più “moderne” del banditismo e dell’Anonima Sequestri.

La costa si avvicinava velocemente, aggredita dal volo a bassa quota dei grossi elicotteri da combattimento. Sarebbe stato il battesimo del fuoco per i suoi cacciatori. Il cuore  batteva forte nella gola : non era più tornato sull’isola, da quel mattino in cui versò le ultime lacrime della sua vita. Gli parve di vedere ancora il suo amico dal molo che lo salutava agitando un fazzoletto bianco.

L’atterraggio avvenne in una radura distante cinque chilometri dal paese, alle pendici del monte. Il tenente Serra trovò ad aspettarlo, in borghese, un commissario dell’Ufficio politico della Questura di Sassari ed il maresciallo della stazione, un calabrese taciturno arrivato da cinque mesi, entrambi col fucile da caccia in spalla. Si fosse  trattato di banditi li avrebbero riconosciuti subito, ma essendo “cittadini” i soggetti da catturare , non avrebbero mai fatto caso a quei due strani cacciatori senza cani. Il briefing durò un quarto d’ora durante il quale il commissario spiegò che in città c’erano stati diversi episodi che facevano pensare alla costituzione di un gruppo di fiancheggiatori,pronto a iniziare sull’isola la lotta armata. Il maresciallo segnalò la presenza in paese di una coppia di giovani la cui descrizione poteva corrispondere con quelle degli irregolari che il Tenente e il suo Squadrone dovevano catturare. Non seppe precisare dove erano ospitati ma in paese si diceva che dormissero in un ovile insieme a tale Sanna, conosciuto forse all’Università.

Sanna era un cognome comunissimo nella zona e a Bobore nemmeno per un attimo venne in mente che proprio quel Sanna potesse essere il suo amico d’infanzia. Anzi non ci pensò neanche: dopo tutto la famiglia di Gavino stava bene economicamente, era fatta da gente timorata di Dio e cattolica praticante, niente a che vedere con quei rivoluzionari da salotto che stavano insanguinando l’Italia giocando alla lotta armata.

Dispose i suoi uomini con le armi a spina di pesce, cercando di evitare il centro abitato, risalendo per i sentieri più impervi, avendo più o meno localizzato sulla cartina IGM l’area da setacciare. Con la grossa radio da campo che uno dei suoi portava in spalla manteneva il contatto con la Stazione dove il maresciallo ed il poliziotto erano rientrati per aggiornare il Comando ed il Magistrato sull’esito delle operazioni.

Più salivano e più il fiato si faceva corto. Ansimavano a bocca chiusa. Anche gli astuti arzanesi e il piccolo scuro tiratore scelto di Gairo, che aveva affinato la mira sparando ai “sirbonis” di notte, arrancavano su per i pendii scoscesi ma non fiatavano, ogni tanto sputavano. Giunsero in vista di un primo ovile dove il servo pastore, intento alla mungitura mattutina, trovandoseli davanti senza averli sentiti, in tenuta da combattimento, istintivamente alzò le mani. Poche parole in dialetto ne vinsero la diffidenza e consentirono di circoscrivere il raggio delle ricerche. Si, li aveva visti i due ragazzi, la napoletana e il biondo. Dormivano più su, nell’ovile della moglie del farmacista, morta due anni prima, forse li aiutava quello strano, che in paese chiamavano “s’eskimesi”, per via del giaccone verde col cappuccio che non si levava mai.

Accosciati dietro l’edificio in pietra dove il servo pastore trascorreva la notte fecero il punto sulla carta e si divisero in due gruppi : uno sarebbe salito per il sentiero più battuto, l’altro sarebbe partito mezz’ora prima e avrebbe aggirato dall’alto l’obiettivo per  arrivare silenziosamente dietro l’ovile dove  si sarebbero dovuti trovare i sospetti. Una volta in posizione avrebbero dato il via al primo gruppo che sarebbe arrivato dall’ ingresso principale. Bobore decise di condurre lui quelli che avrebbero effettuato l’aggiramento e lasciò al maresciallo ordini precisi su come entrare nell’area da controllare, raccomandando di tenere almeno due armi lunghe in retroguardia.

Il caffé borbottava sul fornelletto da campeggio, la ragazza prese la moka con uno straccio e versò fumante il liquido scuro in tre tazze di metallo, col manico, dall’interno smaltato. Dalla branda vicina il suo compagno si alzò, stiracchiandosi, tolse la sicura alla Scorpion che teneva a portata di mano e controllò colpo in canna e caricatore inserito. Quindi si avvicinò al bacile d’acqua fresca poggiato su un canterano rustico e si lavò velocemente il viso. Riallacciò gli scarponi da montagna strinse la cintura dei jeans. Sotto la maglia infilò una .44 magnum e si accinse a far colazione. La ragazza gli sedeva di fronte, su uno sgabelletto di legno di quercia, forse costruito dal loro amico stesso. Anche lei aveva infilata alla cintola, dei pantaloni a vita bassa, leggermente scampanati, una grossa pistola calibro 9. Il suo compagno le chiese dove fosse l’amico e lei con un cenno del capo indicò l’esterno, precisando che stava mungendo le capre.

Lo scalpiccìo sul sentiero di fronte li allarmò subito. Facendo segno alla ragazza di controllare l’uscita posteriore l’uomo si alzò, sbirciò dalla finestrella quadrata che dava sul sentiero sterrato e con rapidità afferrò un tascapane, mettendoselo a tracolla. Prese poi la mitraglietta e socchiuse la porta. Vide salire con circospezione quattro uomini in tuta mimetica maculata e basco rosso, con la tecnica del brick, che aveva studiato sui manuali di guerriglia urbana arrivati dall’Ulster. Estrasse dalla sacca una bomba a mano, tolse la sicura e come il primo militare fece per alzare l’asta di legno che immetteva al recinto la scagliò ad alzo zero. Per fortuna era un residuato bellico, una vecchia SRCM ad effetto ridotto e la cuffia di sicurezza non si era tolta. Maledicendosi ricordò che quando gli avevano insegnato ad usarle gli avevano ripetuto allo sfinimento che perché la bomba esplodesse il lanciatore doveva farle disegnare un ampio arco, in modo da far saltare il cuffiotto di sicurezza attivando il detonatore che avrebbe innescato l’esplosione a contatto col terreno. Mentre estraeva la seconda e levava la sicura coi denti il maresciallo si era già reso conto di cosa gli stava capitando e aveva dato l’allarme alla pattuglia, appostandosi dietro il muretto a secco ed intimando agli occupanti della baracca di uscire a mani alzate. Per risposta gli volò sopra la testa la forma conosciuta della bomba a mano offensiva modello SRCM che andò a scoppiare ai piedi di una sughera, incendiandola. Sparò senza mirare,contro la porta del capanno, tutti e tredici i colpi dell’automatica d’ordinanza, mentre dai lati del recinto,incrociate, si susseguivano brevi le raffiche degli M12 tenuti in retroguardia.

Il ragazzo aveva coraggio. Rispondeva al fuoco con le bombe a mano, dimostrandosi anche piuttosto preciso, le schegge sottili ferirono alla spalla uno dei due arzanesi che sparava con la mitraglietta, mettendolo fuori combattimento. Il ragazzo mnemonicamente contava le raffiche e calcolava quando avrebbe cambiato caricatore il mitragliere superstite, mentre i colpi di pistola degli altri non lo intimidivano. La donna, dal canto suo,aveva indossato un giubbotto, si era messa a tracolla la borsa di tolfa e con la pistola impugnata a due mani stava guardando il retro dell’ovile, dove non sembrava ci fosse nessuno. Stranamente Gavino non si vedeva.

Non visto, aveva sentito tutto .Il trambusto della pattuglia che arrancava in salita, i colpi di pistola, la prima deflagrazione di bomba a mano, le urla dell’arzanese ferito. Adesso ascoltava il gracchiare secco della Scorpion, che faceva tenere la testa bassa, dietro il muretto a secco, agli uomini in divisa. Aveva anche visto, nell’ombra che la montagna proiettava sul retro dell’ovile, altre ombre furtive e rapide che ritmicamente, come danzando, procedevano scendendo a sbalzi, prima due, poi altri due, poi altri due. Quando i primi erano in piedi gli altri restavano fermi, a terra. A loro volta i due in piedi si gettavano  pancia a terra mentre automaticamente, ma restando bassi, piegati, i due che li seguivano si alzavano e allargandosi li sopravanzavano leggermente, per finire anch’essi,poco dopo, con la faccia tra l’erba. Li stavano circondando, era evidente. E avevano accelerato allo scoppio della bomba. Non sembrava impaurito, si era infilato nel porcile che aveva una porticina laterale che consentiva una via di fuga, diagonale rispetto alla linea d’attacco degli assalitori che li  stavano prendendo alle spalle.

Mentre svuotava il primo caricatore, con raffiche precise, a ventaglio sull’orlo del muro a secco dietro il quale i militari si riparavano, il ragazzo sussurrò alla compagna di scappare dall’uscita posteriore della costruzione. La giovane armò il cane dell’automatica e uscì gattoni. Bobore sparò in aria , dopo averle gridato di fermarsi e di arrendersi, dandole tuttavia il tempo di ripararsi dietro due bidoni da duecento litri pieni d’acqua, poggiati vicino al lato più lungo del muro a secco che delimitava il recinto delle capre. Fece per scavalcare ma la donna esplose quattro colpi che ribalzarono sulle pietre. Mentre si riparava il tenente Serra pensava a quel che da bambino faceva quando sentiva gli echi lontani degli scontri tra banditi e carabinieri:scappava negli ovili e nelle grotte. Aveva sempre pensato che il suo primo scontro a fuoco sarebbe stato con dei “balentes” o con dei criminali comuni, non aveva contemplato di poter fare da bersaglio a una donna. La quale donna dopo aver fatto abbassare la testa al suo inseguitore  si gettò a capofitto verso la macchia, che iniziava subito dopo il porcile. Prima di buttarsi nell’intrico della vegetazione  si fermò a prender fiato appoggiata alla parete esterna della porcilaia. Qui  sentì la mano di Gavino toccarle il braccio.

Bobore fece cenno ai suoi di avanzare coprendosi a vicenda e disse al cecchino di Gairo di mettersi in postazione e inquadrare, col mirino telescopico, l’area da bonificare.

Sul davanti dell’ovile lo scontro proseguiva: il ragazzo, finite le bombe a mano che avevano ferito in modo serio due degli attaccanti, sparava con la mitraglietta facendo in modo che non si sporgessero per prenderlo di mira. Non sentendo rispondere al fuoco tentò una sortita, la Scorpion in una mano e la .44 nell’altra. Voleva uscire dal recinto, superare il sentiero e buttarsi in discesa verso il paese. I carabinieri erano impegnati a soccorrere i loro feriti e pensava di poter riuscire. Ma il maresciallo non aveva digerito la bomba a mano inesplosa e, con calma, dopo aver ricaricato la pistola, si era acquattato dietro un arbusto. Quando il ragazzo spiccò il primo balzo, sventagliando con il mitra in direzione del muretto, si allungò a terra, appoggiando il braccio armato su un robusto ramo a forcella. Attese il secondo balzo e la seconda raffica e proprio mentre il terrorista saltava in velocità il sentiero premette il grilletto. Si accorse di averlo colpito quando quello lanciò il mitra verso il bosco e si portò la mano alla coscia, dalla quale usciva un fiotto di sangue. Mentre gli altri gli erano addosso per disarmarlo l’uomo tentò di esplodere un colpo con la grossa pistola a tamburo, ma le forze lo stavano abbandonando rapidamente e il proiettile finì il terra scavando una profonda buca. Prima di ammanettarlo gli strinsero attorno alla coscia ferita una cinghia, che poi serrarono con un rametto, impiegato come leva per mantenere ben stretta la gamba, per impedire all’arrestato di morire dissanguato.

Gavino fece cenno alla ragazza di seguirlo e scostando due rami  si tuffò di una pista di cinghiali che costeggiando la montagna li avrebbe portati in una valloncello poco più sotto e da lì, risalendo, verso una grotta dove lui e il suo amico, da bambini, si nascondevano quando banditi e carabinieri facevano a fucilate. Anche Bobore ricordava quel sentiero e fece cenno a due dei suoi di andargli dietro. La ragazza inciampò, mentre Gavino , senza voltarsi,piegato in due correva verso il vallone.

Bobore invece procedeva eretto, nella boscaglia fitta, con la pistola in fondina per fare più presto. L’appuntato di Gairo, salito su una quercia, lo seguiva dall’oculare del binocolo Zenith montato sulla carabina  Mannlicher .40, che aveva fatto approvvigionare appositamente all’armeria del Reggimento, all’Ardenza. Sapeva benissimo, da vecchio cacciatore, che ad un buon tiratore bastava uno spazio di mezzo metro, un passaggio brevissimo per colpire il bersaglio in fuga, braccato dai cani. Doveva stare attento però a non confondere il nemico con il tenente, “su professori”. Infatti lo vide avanzare sicuro su quel percorso strettissimo, poco più di una pista da cinghiali. Non esitò a premere il grilletto quando si rese conto che il tenente non aveva visto a cinque metri da lui la ragazza, accosciata, che con una caviglia spezzata, gli sparava contro.

L’Ufficiale si fermò sorpreso dall’espressione stranita della donna che, continuando ad impugnare la pistola, puntata verso di lui si guardava il petto, poco più su del seno. Aveva sentito il rombo della carabina ma non l’aveva ricollegato all’arma del suo tiratore scelto. Mentre la ragazza crollava avvertì un bruciore fastidioso tra la spalla destra ed il collo. Istintivamente si toccò con la mano sinistra,trovandola insanguinata. Non si fermò, aveva visto il terzo terrorista. La rabbia di essere stato colpito accelerò i suoi passi, tagliandosi il volto tra i cespugli estrasse e impugnò la pistola, deciso a prendere anche il terzo. Quella corsa a rotta di collo, quante volte l’aveva fatta e il sentiero, adesso gli tornava vagamente familiare. Conduceva ad un pertugio, a mezza costa, da dove si dominava l’altra costa del vallone, senza essere visti.L’unico inconveniente era che la grotta non aveva uscita posteriore. Era in sostanza un anfratto dove talvolta i pastori trascorrevano la notte mentre le pecore ruminavano sul falsopiano sottostante, c’erano un fornello di pietre e un giaciglio, nessun altro riparo dove nascondersi. Bisognava però saperlo, che c’era quella grotta.L’uomo che lui inseguiva non poteva sapere che in quele montagne lui ci aveva trascorso l’infanzia. L’avrebbe raccontato a Gavino, alla fine dell’operazione, quando sarebbe sceso in paese a cercare di lui. La corsa ormai era al termine. Aveva distanziato di quasi un chilometro i suoi pur veloci  sottoposti. Con circospezione portò in avanti le braccia distese e si accinse ad entrare. Dalla grotta, non appena la sua ombra si proiettò all’interno, rimbombò uno sparo, il cui proiettile sbriciolò una parte del soffitto. Paziente Bobore, che stava perdendo sangue, a voce bassa pronunciò poche parole in dialetto, il dialetto del luogo, spiegando che non c’era scampo per il ragazzo e che entro due minuti sarebbero arrivati gli altri,con le mitragliette, che ci avrebbero messo un attimo a “bonificare”la grotta.

La P.38 volò fuori quasi subito.Allora Bobore si fece coraggio ed entrò. Nell’angolo più oscuro, tremante, con la testa arruffata tra le mani c’era un ragazzo. Si guardarono.

–     Una volta ero il  carabiniere – sussurrò.

–     Sesi tui, Baingio ?- replicò sbigottito Salvatore.

–     Seu deu, Tore. Abbracciami o fradi!

I due bambini si abbracciarono piangendo, guardandosi fissi negli occhi, senza altre inutili parole. Si stavano dicendo tutto in quell’attimo, lungo quanto la loro giovinezza perduta, mentre risuonavano già pesanti i passi degli uomini del tenente. Bobore si era accasciato nelle braccia dell’amico che lo aveva amorevolmente disteso sul giaciglio, cercando di farlo tornare in sé. In quel mentre  sopraggiunsero i carabinieri che, dopo essersi accertati che il loro tenente fosse vivo, ammanettarono il ragazzo.

Il veterinario comunale, dottor Gavino Sanna, oggi va in pensione. Alla festicciola che in municipio hanno organizzato per lui ha partecipato, come ospite d’onore venuto appositamente da Roma, il colonnello dei carabinieri a riposo Salvatore Serra. Dopo aver brindato i due bambini, sul fuoristrada del veterinario, hanno raggiunto l’altopiano che sovrasta il paese e hanno fatto una lunghissima passeggiata insieme. Bobore fa un po’ più di fatica e si aiuta con un ramo di quercia che ha raccolto al limitare del bosco, Gavino lo sorregge, talvolta sostenendolo col braccio.

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