Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2021 “L’Aeroporto” di Matteo Bartolini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

Ora saranno tra le sei e le sette del mattino. La piccola finestra sopra la testiera del letto non ha tende o persiane, e così la luce entra nitida e massiccia, riesumando nella memoria quella teoria sulla duplice natura della luce, corpuscolare ed ondulatoria, nascosta sotto la polvere della memoria degli studi scolastici.

Il resto della stanza è parzialmente al buio. D’estate la luce comincia a fare capolino qualche minuto prima delle sei, all’inizio delicata e piacevole, diventa col tempo sempre più aggressiva, e quando sono le otto, bisogna praticamente alzarsi. Avrei potuto montarci qualcosa per oscurare, mi avrebbe sicuramente permesso di dormire di più, ma avrei dovuto sacrificare la luce che quella finestra, piccola e nuda esposta ad est, lasciava entrare durante nelle notti di luna piena.

Mi è sempre piaciuto pensare agli elementi della natura come esseri animati in grado di comunicare con me. Con gli animali è divertente, se lo fai con i pianeti ti prendono per matto, ecco perché l’ho sempre tenuto solo per me. E così, a volte, rivolgo lo sguardo alla luna, le chiedo se va tutto bene e lei sorridendo mi dice che si, va tutto bene, continuando a spazzare aree uguali in intervalli di tempo uguale.

La mia stanza ha la forma della lettera “l” maiuscola, le altre pareti sono completamente coperte di finestre, queste però munite di tende. A pensarci bene forse la mia stanza è più simile ad una serra che ad una stanza vera e propria. Mi trovo al secondo piano di una villa in legno, al piano sottostante vivono I miei coinquilini. La mia casa è meglio nota come la casa dalla porta gialla: il motivo del nome deriva dal fatto che la porta d’ingresso principale è rossa.

No, sto scherzando, la porta è davvero di colore giallo.

Ora sapete dove sono. E sapete anche quando, è circa estate. Più precisamente è febbraio. La temperatura dell’acqua durante le nuotate pomeridiane è di circa 24 gradi, non tira (troppo) vento, e sono più di tre settimane che non piove. Questo sì che sarebbe da festeggiare come un grande avvenimento.

Dimenticavo, sono circa quattro anni che ormai vivo qui. Qui nel senso di Auckland, Nuova Zelanda.

Ogni tanto, ormai non più tanto spesso, rifletto su questo, sul mio trasferimento dall’ Italia a qui. Quasi diciannovemila chilometri. Anzi per la precisione sono diciottomila trecento novantacinque. Così recita la targhetta in bronzo che troverete in alto sul cucuzzolo del vulcano Mount Eden. Era il dieci giugno quando ho scoperto che diciannovemila chilometri non sono poi tanti, li copri in trenta ore. Lo stesso giorno, qualche ora dopo, ho realizzato che invece questi chilometri sono tantissimi: tanto valeva usare l’anno luce come unità di misura, sarebbe stato più appropriato.

Lo ricordo bene quel dieci giugno, soprattutto quando ero all’aeroporto.

L’aeroporto è un luogo ricco di emozioni positive. L’aeroporto è al tempo stesso un luogo ricco di emozioni negative. Trovo curioso che un posto così asettico, possa invece essere il ricettacolo di sensazioni così forti: i viaggiatori sono gli strumenti musicali di questo concerto chiamato vita, che negli aeroporti assume ogni possibile ritmo e andatura.  

Tra la popolazione degli aeroporti, ne esiste una categoria, in cui il dieci giugno sono entrato di diritto: i viaggiatori solitari. Non intendo coloro che viaggiano per lavoro, ma coloro che si stanno spostando da un determinato luogo ad un altro, da soli. Sono silenziosi, spesso leggono, oppure ascoltano la musica, oppure semplicemente guardano. Sembrano guardare quello che li circonda, magari gli aerei che atterrano, oppure le persone che camminano. In realtà guardano dentro di loro. una categoria sola per rappresentare un’infinità di storie che spaziano tutto lo spettro di emozioni.

Quando sono partito, io ero uno di questi viaggiatori solitari. Mi ricordo che all’inizio tutto proseguiva in maniera normale, ho imbarcato la valigia, chiacchieravo e ridevo.

Poi è arrivata l’ora di andare al controllo di sicurezza. All’ingresso del controllo di sicurezza c’è un cartello, è in ogni aeroporto, io prima non ci avevo mai fatto caso, fondamentalmente perché fornisce un’informazione che sembrerebbe superflua.

Il cartello recita: “oltre questo punto, solo passeggeri muniti di biglietto”.

Ovvio, semplice e diretto. Se si viaggia con la famiglia o con gli amici, è chiaro che tutti hanno il proprio biglietto. Se si parte per lavoro, non ci sono altre persone di cui preoccuparsi.

Ma se sei un viaggiatore solitario che si appresta a salutare le persone a cui vuole bene, non sapendo quando sarà la prossima volta che le rivedrà, quel cartello ha un significato enorme. E’ un cancello, grandissimo. Solo tu passerai, gli altri che erano con te restano dietro. E così mi ricordo di essermi fermato davanti a quel cancello invisibile che gli altri passeggeri attraversavano a cuor leggero. Quello è l’ultimo posto in cui puoi salutare le persone a cui vuoi bene, le persone che vorresti portare con te. Non è un momento in cui hai ripensamenti, ormai hai già deciso di partire, però è il momento più triste di tutto il viaggio. Tuttora, quando ci penso, mi commuovo ancora, nonostante siano ormai anni che vivo in Nuova Zelanda.

Ho affrontato l’attraversamento di questo cancello in vari modi, e ricoprendo diversi ruoli. In Italia ero quello che doveva varcare il cancello, in Nuova Zelanda ero quello che rimaneva fuori del cancello vedere andare via la persona che amo. Ogni strategia che ho usato ha sempre fallito. Il risultato era che piangevo sempre, e anche tanto.

La prima volta che varcai quel cancello, mi ricordo una fila lunghissima: un passo dopo l’altro, con il sorriso nel volto e la tristezza nel cuore vedevo le facce amiche diventare sempre più piccole più i metri che ci separavano aumentavano. Quando mi giravo li vedevo ancora distanti, poi però è bastato un momento, un singolo metro in più, ad un certo punto quei volti piccoli non li ho visti più.

L’operatore dell’aeroporto chiedeva il biglietto, indicava la cintura, mi chiedeva di levare le scarpe. Una volta passato il controllo, ero da solo: circondato si da mille persone, ma solo. Io mi sono chiesto se avesse senso proseguire, se valesse la pensa soffrire così tanto, ma la risposta l’ho scoperta solo migliaia di chilometri dopo, e qualche anno più tardi.

Le persone a cui voglio bene lo sanno, alcuni di loro negli anni sono riusciti a chiamarmi non appena avevo finito il controllo passaporto. E tutti di loro hanno sempre avuto delle parole di conforto: sono ovviamente delle cose semplici, ma è bello sentirsele dire, soprattutto da persone che non rivedrai per lungo tempo. E così dopo il pianto liberatorio, mi sono incamminato. Riflettevo su cosa mi attendeva: guardavo l’aereo ma in realtà vedevo riflesso nel vetro me stesso e mi domandavo se ne sarei stato all’altezza.

Ogni volta che vedo questi viaggiatori solitari, immagino che ognuno di loro abbia deciso di tentare qualcosa fuori dal comune e l’unica certezza che hanno riguarda quello che stanno lasciando. E così ognuno si mette comodo, o il meno scomodo possibile e tenta di fare ciò che gli dà maggiore tranquillità. Leggere o ascoltare musica o, nel mio caso, guardare gli aerei, consapevole del fatto che l’aereo che oggi mi rende così triste, un giorno mi renderà felice perché mi riporterà dove il mio cuore risiede.

L’arrivo negli aeroporti è, spazialmente parlando, poco distante dalle partenze, ma emozionalmente parlando è proprio agli antipodi.

All’aeroporto infatti le persone non partono solo, ma arrivano anche. E mi ricordo il giorno in cui la persona che amo è venuta a trovarmi: ero dall’altro lato, e attendevo l’arrivo del volo. Mi guardavo intorno ed ero circondato da persone sorridenti, famiglie che attendevano il ritorno della figlia che vive lontano, e amici che si ricongiungevano dopo tanto tempo. Rumori, colori, suoni e sapori erano tutti piacevoli: o forse io li percepivo semplicemente così. Non mi sono mai soffermato troppo a sezionare le emozioni che io provavo e che percepivo nelle persone intorno a me: mi ricordo che tutto succedeva veloce, ed anche la semplice attesa era piacevole: i tabelloni che riportavano la lista di velivoli che atterravano, ognuno proveniente da posti differenti, ognuno che trasportava nella sua pancia centinaia di persone, ognuno con storie diverse da raccontare. E poi ecco che le persone sbucano dall’uscita: qualcuno cerca i volti amici che sono lì ad attendere, oppure altri scrutano cartelli con il proprio nome sorretti da persone sconosciute. E poi la cosa divertente è che all’arrivo, le regole e le restrizioni così rigide che ci sono alla partenza saltano un po’ tutte: mi ricordo spesso bambini che correvano dove non avrebbero potuto, per abbracciare per primi la propria mamma che non vedevano da tempo. Ma alla fine è giusto così: bisogna in qualche modo compensare il carico di sentimenti che ci sono alla partenza, con quelle dell’arrivo, in modo da mantenere la bilancia delle emozioni il più vicino possibile alla posizione di mezzo.

Solo tanto tempo dopo il dieci giugno ho capito che diciannovemila chilometri sono solo un numero, tanti o pochi è toccato a me scoprirlo, un giorno alla volta.

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3 commenti »

  1. Sensibile e romantico, un po’ malinconico e un po’ positivo: bel mix!

  2. Tempo e gates, che poi sono frontiere da oltrepassare, segnano tante vite (mi piace pensare in positivo). Colpisce la figura del viaggiatore solitario, metafora di quel viaggio che chiamiamo vita? Io credo di si. Questa immagine riporta alla mente Hemingway, che ci ricorda che dobbiamo abituarci all’idea che ai più importanti bivi della nostra vita non c’è segnaletica. Anche per questo si è sempre viaggiatori solitari, che si parta o si arrivi in qualunque luogo.

  3. Amo viaggiare da sola. Mi sono ritrovata in ciò che hai scritto. Il viaggiatore solitario trova il tempo di stare con se stesso, proprio nel momento in cui si lascia alle spalle una dimensione di vita per entrarne in un altra. Almeno per me è così. “C’è chi viaggia per perdersi, c’è chi viaggia per trovarsi.” Gesualdo Bufalino. Ho fatto mia questa citazione.
    Complimenti !!!

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