Premio Racconti nella Rete 2021 “Sotto il cielo di Roma” di Luca Laurenti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021
Mia madre non sta bene.
Decido con molta fatica e preoccupazione di portarla al pronto soccorso dell’ospedale S. Camillo dove è seguita da anni.
Il cuore fa le bizze, non posso tergiversare.
È ora di cena.
Le strade sono libere.
Pochi passanti.
Viale Trastevere è incredibilmente vuoto e buio.
La luce fioca dei lampioni si riflette sull’asfalto bagnato, poche insegne luminose, qualche passante frettoloso.
Arrivo all’ingresso del PS.
Ci misurano la febbre ed entriamo.
Pochi metri ed entriamo.
Siamo soli in sala d’attesa.
Davanti a noi un corridoio, in fondo il triage.
Voci lontane, sanitari in visiera senza volto che si affannano intorno a letti e barelle su cui sono
adagiati corpi umani senza forma.
Mani e braccia grinzose si levano verso il soffitto insinuandosi tra lenzuola bianche e teli verdi.
Sono tutti anziani, tutti, presumo Covid.
Un’atmosfera irreale.
Aspettiamo.
Mia madre si guarda intorno con aria spaesata.
Sento il suo respiro affannato dentro la mascherina.
Le accarezzo la mano per rassicurarla.
Passano i minuti.
Nessuno.
Arriva un’ambulanza.
I suoi fari rompono il buio della notte.
Si aprono gli sportelli posteriori.
Una barella.
Un’anziana signora distesa sul fianco protende una mano all’esterno e con l’altra si regge sul volto la mascherina.
I due barellieri accostano la barella al muro.
La lasciano un attimo, entrano nella sala, poi tornano.
L’anziana signora si toglie la mascherina e tenta di toccare il volto della giovane ausiliaria che insieme al collega l’ha accompagnata fino al PS.
“Voglio farvi pubblicità, dice con un filo di voce. Siete stati due angeli, lo dico a tutti”
La giovane donna sorride.
Le accarezza i capelli.
Ha uno sguardo dolcissimo.
Si capisce che è emozionata e commossa.
“Adesso le facciamo il tampone. Non deve avere paura. Le tengo la mano mentre lo fa. Va bene?”
L’anziana annuisce e vedo le sue dita scarne che si avvinghiano al polso del suo angelo in tuta gialla.
Un lungo cotton-fioc le penetra nel naso.
Pochi secondi e tutto finisce.
L’infermiera in uniforme stile “robocop” si avvicina a mia madre.
“Tocca a lei, signora”
Abbasso la mascherina di mamma.
Pure lei, come l’altra, artiglia il mio polso.
Gli occhi le si riempiono di lacrime mentre il cotton-fioc le rovista nella narice.
Anche per lei dura pochi secondi.
Poi tutti si allontanano mentre altri due infermieri portano via la barella con l’anziana signora.
Di nuovo silenzio.
Arrivano altre ambulanze, una dopo l’altra.
Stavolta i pazienti entrano dall’ingresso Covid.
Una donna in tuta su una barella in mezzo alla stanza triage grida aiuto.
Vuole sapere che ne sarà di lei, ma nessuno le dà retta.
Qualcuno finalmente si avvicina per spiegarle che non le faranno nulla prima del risultato del test Covid.
Lei si placa, ma si guarda intorno spaesata.
La sua barella ingombra, ma non si sa dove metterla.
Non c’è posto.
Alla fine, riescono a spostare due lettini dove due corpi raggrinziti giacciono inerti e lei viene spinta contro un muro tra i due.
Scompare alla mia vista e le sue grida si affievoliscono.
Mamma continua a guardarsi intorno sempre più attonita.
Arrivano altre ambulanze.
Anziani, sempre anziani.
Guardo l’orologio.
È passata un’ora.
Ecco finalmente l’infermiera.
Ha un blocco in mano.
Attraverso la visiera riesco a vedere i suoi occhi stanchi incastonati da occhiaie scure.
Infila l’indice di mamma nel saturimetro e intanto mi chiede i dati anagrafici.
Qualcuno la chiama.
Scappa via.
Poi torna e registra i valori.
Mi avverte che mamma dovrà stare da sola.
Ci contatteranno sul cellulare per darci notizie.
Le spiego che mia madre non può stare da sola, lei alza le braccia e mi indica la sala.
Nessuno di loro può stare da solo. Ma non c’è scelta.
Mi viene un crampo allo stomaco.
Mia madre mi guarda e nei suoi occhi leggo angoscia e terrore.
Non so come spiegarglielo.
L’infermiera scappa di nuovo.
Io comincio a sfilare l’orologio dal polso ossuto di mamma, poi prendo il portafoglio e il cellulare mentre il cuore mi scoppia e lei mi guarda quasi di divertita, senza capire, senza chiedermi nulla.
Mi sembra di strapparle la carne insieme alla dignità, di tradire la sua fiducia, di condannarla a un abbandono di cui non immagina la crudeltà e dal quale non potrà più fuggire.
L’infermiera torna, sembra voglia parlarmi.
“Le posso dare un consiglio? La porti via. Glielo dico come fosse mia nonna. I valori sono sotto controllo. La porti via di qua. Guardi come stiamo messi. Sono tutti malati Covid. La porti a casa sua. Domani la fate vedere da un cardiologo. Non la lasci soffrire qui da sola”
Quasi la bacerei, mentre pronuncia le parole che mi liberano da un’angoscia e da un dolore che non riesco più a contenere.
Mamma mi guarda.
La sua muta supplica si unisce a quella di tutti gli altri corpi, alle grida disperate, alle mani levate al cielo, agli sguardi dove puoi scorgere la profondità di abissi senza fondo.
È un attimo.
Siamo già fuori.
Passiamo con la macchina davanti a una fila di auto parcheggiate ordinatamente una accanto all’altra.
Nel buio degli abitacoli scorgo figure silenziose, immobili, volti scuri rivolti verso l’ingresso del PS.
Sono i parenti di quei corpi soli strappati da un subdolo virus all’affetto dei propri cari.
Immagino la loro disperazione, il senso di colpa, la paura, l’angoscia di non poter fare nulla, di non sapere cosa stia succedendo là dove non possono vedere quelle dita che cercano qualcosa in alto, verso il soffitto, verso il cielo.
Lo strazio che provo mentre li guardo ormai dallo specchietto retrovisore è terribile.
Ma già sento mia mamma che grida felice “che meraviglia” mentre le luci dell’isola Tiberina ci accolgono rassicuranti e poi piazza Argentina, il Campidoglio e la sua scala deserta, piazza Venezia con i sanpietrini che riflettono la luce della luna.
Il suo respiro è più regolare, ora.
Che meraviglia, esclama continuamente, rapita ogni pochi metri e i suoi occhi brillano in una notte di coprifuoco così diversa dalle altre, così buia e silenziosa.
E Roma quasi sembra ascoltarla.
Intenerita da quella mano ossuta appoggiata al vetro del finestrino, pare offrirle delicatamente la sua grandiosa nudità, il buio e lo sfavillio dei suoi monumenti, perché quella meraviglia sussurrata continui a galleggiare nel silenzio e nel deserto di una notte di un tempo malato e fuggitivo.
Le strade sono vuote, potrei aumentare la velocità, ma non lo faccio.
Voglio ascoltare il suo continuo che meraviglia, voglio prolungare la sua felicità.
Voglio che non si senta sola.
Voglio vedere le sue dita che indicano ora qua, ora là.
Voglio vederla sorridere.
Perché il suo sorriso possa arrivare fin laggiù, fino ad accarezzare quei volti angosciati negli abitacoli delle auto nascosti dal buio della notte e ancora più oltre, fino a stringere quelle mani grinzose e sole protese verso un cielo senza stelle e senza amore.
Il cielo di Roma, stanotte.
Racconto che sembra scritto in versi, ed ogni verso è una fotografia della tragedia che ha colpito il mondo da più di un anno. Smarrimento, dolore, ma anche umanità e speranza. Attraverso una scrittura che coniuga perfettamente prosa e poesia, la testimonianza di un’epoca. Complimenti e grazie.
Davvero emozionante. Un periodo difficile per tutti questo appena vissuto. Ansia, angoscia e smarrimento devono lasciare spazio alla speranza. Bravo!!