Racconti nella Rete 2009 “Metallo dentro” di Adriana Lazzini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009Rotolavo. Abbassata sulle mie ginocchia, inarcavo la schiena su di esse, le mie braccia stringendole al petto, le cingevano. I miei piedi, come la mia testa e i miei capelli, si estendevano a fascio di luce, indistinto, si perdevano protesi in-dietro e in-avanti. Pallina metallica allora roteavo, prima lenta, poi prendevo velocità, poi veloce, poi scattavo, sobbalzavo, ricoprivo percorsi, percorrevo distanze…lunghissime…lunghissime… Iniziavo. Iniziavo da un punto (non so quale) indistinto (non so dove), in un ambiente rarefatto, esteso, limitrofo ad altri o nessuno. Incolore, inodore, lì, non percepivo presenze. Qualora ve ne fossero state, si mostravano nebulosa ai miei occhi o smussature di pallina. Tondeggiante, sferea, raggomitolata roteavo. Ispessita nel tempo e dal tempo, mi riscoprivo più dura, di lega altra dalla massa indistinta che occupava il circondario. Grigio plumbea, a seconda della prospettiva blu notte, viaggiavo scivolando veloce su impreviste serpentine verso il basso, precipitando in spazi vuoti ed incompleti. Luci artificiali o forse filtri solari lampeggiavano su me fulminei smacchi di luce bianco argentei. Nel mio rotolìo interminabile questo scintillio appariva poco, sfuggente, perdibile. Qualche parete più ruvida poteva, cogliendo l’attrito del mio passaggio, accorgersi di me da lì fuggitiva. Il moto rotatorio impossessatosi di me pallina, mi sdipanava matassa di energie vibranti ed invisibili equilibri, minacciati dalla gravità persa nelle impennate del mio viaggiare. Girottolavo, apparentemente stanca e pronta al riposo, giraprillandomi in improbabili ritorni su me stessa, ferma lì sul posto, giravo e giravo…
Riprendevo lineare il cammino, perdendomi subito dopo in incroci di scelte. Proseguivo spinta, senza apparente causalità dal mio baricentro interiore, perdendo di vista la direzione reale e assaporando il gusto di non guardare. Il vorticoso girottìo mi rendeva informe e non riconoscevo più me stessa né le mie parti. Perdevo la propriocezione del mio corpo, ormai unico e continuo nel tondo metallico che mi sostituiva, a questo punto, definitivamente. La memoria del “come fossi stata prima” si perdeva nella nuova dimensione fredda e ferrea. Non conoscevo più la scompostezza delle parti, ma roteavo uniforme su tutta la mia superficie, senza più dover rendere spiegazione di alcuna mia fattezza, difetto o difformità…rotolavo, senza più neanche un sentimento. Non potevo aver tempo di nulla. Né provare, né sentire, né udire, né vedere, né gustare…molto meno di tutto gustare! Niente più mi entrava dentro, né usciva. Nessun flusso più poteva attraversarmi: ero solo una pallina roteante! Metallo dentro, non mangiavo più. Metallo dentro, ero chimica e alchimia di me stessa: composto mestessiale introvabile in quanto unico e senza fornitore. Autoprodotta ed autoreferenziale, procedevo senza più rispetto di alcuna segnaletica: viaggiavo ad alta velocità. Adesso però avvertivo qualcosa, mentre l’aria iniziava a fischiarmi contro e l’attrito con occasionali pareti mi sibilava contro scottante, scintillando fuoco. Ecco ora sentivo la paura. Me ne accorgevo dal pulsare profondo che, nonostante, il mio rollìo leggero ma imperterrito sul tracciato obbligato, mi arrivava attraverso lo spessore del mio corpo tondo. Rimbombava aumentando in me, un’eco prima sordo di battito cardiaco accellerato e poi, invece, superato da urlo sempre più acuto, il mio, inespresso dentro il mio cuore di ferro, sentito solo dalle orecchie della mia mente. Elle netta, secca, un angolo di 90° improvviso, caduta fulminea, agghiacciante verso il basso senza fine…sembrava senza fine… Lì pensavo a tutto, ad ogni cosa, a niente. Com’ero diventata così? Cosa mi aveva portato lì? Cosa mi stava accadendo? Mi sarei frantumata? Ecco la fine. Assaporavo nel più morboso dei masochistici piaceri, il dolore finale che avrei provato nello schianto, augurandomi che fosse il più istantaneo possibile, in modo da non poterne conservare il ricordo neanche nella frazione di millesimo di secondo prima della fine: non volevo conoscere il mio dolore lancinante. La profondità della caduta, che non scemava, ma anzi sembrava aumentare, aggravando la vorticosità del mio baratrare giù, mi paralizzava di terrore, al punto che mi finsi morta a me stessa. Allora il beffardo peso specifico della mia massa, bussò alla porta del mio esserci residuale, obbligandomi all’attenzione. Dovevo necessariamente terrorizzarmi. Vivere, anticipandola, la tragedia dello schianto. La mia caduta libera ed ormai irrecuperabile, mi faceva sentire la distorsione del mio perimetro sull’atmosfera spaccata dal mio sfrecciare. Alterata dalla distorsione che l’attrito cosmico mi costringeva contro, sentivo cedere in me la possibilità di resistere. Tac, fermo immagine: a un millimetro da terra. A un millimetro da terra: fermo immagine, tac.
Non c’è schianto: rimbalzo. Sì, entusiasticamente, imprevedibilmente, rimbalzo. Niente schianto. Rim-bal-zo. Euforia, eccitazione di una piccola pallina che continua a roteare. Ripiegata su me stessa, rotolante, mi riconosco viva nel proseguire del mio moto ritorto. Ancora procedo.
Adesso, fin troppo piano mi appare il percorso… Ristabilito l’equilibrio del mio moto uniforme, riprendo su di me i conosciuti parametri della velocità nota. Mi accorgo della mia audacia, di quanto sia ardita, biglia di ferro spinta all’eccesso. Riprendo tragitti simili ai precedenti, imbocco rettilinei già attraversati, rincorro discese già scivolate… Quasi noia di questa consuetudine, provo ad abbandonarmi più leggera al percorso curvilineo incontrato per caso. Sballonzolo su sponde rassicuranti, viaggiando lenta e sinuosa, rispolverando il dondolìo di una culla. Ritorno su di un tenore calmo, il mio bioritmo di sfera metallica riprende quello che è e deve essere.
Rotolo e rotolo ancora, non incontro più nulla, sempre sola. Attraverso ora il caldo, ora il freddo: iridescente ed incandescente rosso fuoco, poi vitrea e glaciale. Implodo ora la mia passione di metallo fuso, esterno poi il mio grigiore esistenziale di minerale antracitico.
Piccoli sassi di dimensioni irrisorie inframezzano il percorso sostanzialmente lineare del mio vagare senza meta: saltellando in mezzo ad essi, provo un curioso solletico. Motivo di divertimento per una pallina di ferro, urto con crescente intensità superfici sconnesse: flipper, punti e nuovo record.
Riposta su nuovi livelli piani, da non-si-conosce-quale-mano, posticipo ogni cura nell’assestamento, smaniando ancora il movimento. Provo un’inclinazione fortunosa per improvvisare ancora una caduta, ma non riesco a trovar spinta favorevole. Eccedo nell’entusiasmo inerziale per convincermi dell’essenza utile dell’immobilità. Rimango immobile per capire, rimango immobile per non agire azioni non previste, rimango… Ossido le mie volontà nella mia memoria siderea.
Flipper psichedelico. Hai un ottimo gusto per le parole, hai tradotto i suoni, le luci e gli schianti di un piccolo universo a parte. Nessun rischio di tilt, bello e avvincente. Insert coin!
Lorenzo
Bello. La scelta dei termini salta agli occhi. E poi si svela il flipper.
Ben scritto, accattivante… sorprendente e azzeccata la scelta di raccontare il gioco dal punto di vista della pallina.
E’ un racconto ben scritto e originale. Un racconto pensato. il ritmo della pallina che “balla” nel flipper rimanda al ritmo della vita dentro ai giorni. ora più veloce, ora più lento, a volte pensoso, riflessivo, a volte sentimentale, a volte casuale. la pallina di metallo diventa una metafora della vita dell’uomo. si universalizza. è una cosa molto particolare. ben giocata la scelta di un vocabolario inusuale.
avrei forse svelato solo sul finale che la protagonista di questo percorso è la pallina di un flipper ed avrei forse sottolineato anche il fatto, per me interessante, che c’è sempre qualcuno che la spinge, quella pallina, per farla rotolare sul flipper.