Premio Racconti nella Rete 2021 “Teatranti” di Domiziana Chiodi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021Lei ora la guarda come si guardano gli spettacoli teatrali d’avanguardia: con attenzione spasmodica e allo stesso tempo una totale noncuranza e sdegno, che denotano un particolare e lieve disprezzo per la fine arte. Era in ritardo.
Scese le scale e uscì dal palazzo, camminava veloce lungo la strada bagnata e l’umidità le entrava tra i capelli facendoli divaricare lentamente l’uno dall’altro, ogni oggetto periferico era fradicio, e il fatto di starvi a contatto, per osmosi, rendeva bagnata anche lei. Mise i guanti e si sistemò i capelli mentre affrettava il passo per arrivare alla fermata dell’autobus in tempo. Il 56 sarebbe passato di lì a poco. Arrivò nello stesso istante in cui si aprivano le porte e saltò dentro proprio all’ultimo secondo rischiando di finirci in mezzo, cosa di cui era profondamente spaventata da sempre e di cui aveva fatto la sua fobia segreta. Rimanere intrappolata tra porte di vario genere non è proprio la fobia ideale da raccontare come aneddoto alle cene tra amici.
Quando si mise seduta ebbe tempo di notare che la fissavano tutti, e tutti, notando che li aveva notati, distolsero lo sguardo. Si ricordò di aver dimenticato sopra il letto il carica batteria del telefono e si infastidì, perché se avesse avuto mente sgombra da qualsiasi preoccupazione si sarebbe ricordata di infilarlo in borsa. Invece non accadde, un punto a zero per il teatro d’avanguardia.
A metà strada due uomini si urlano contro improperi e discutibili offese: –Napoletano di merda! –, grida il primo, –Tossico del cazzo! –, risponde il secondo, gridando ancora più forte. E avanti così finché l’autista non fa scendere il tossico del cazzo – perché è peggio essere razzisti che solo affrettati nei giudizi – il quale continua a gridare e a inveire contro l’autobus mentre questo si allontana e il Napoletano di merda borbotta tra sé e sé per minuti che la colpa non è la sua, che quel maledetto tossico se l’è andata a cercare, che stesse a letto a quell’ora invece di cercarsi la dose.
Conta le fermate. Sono alla decima, lei deve scendere alla dodicesima. L’autobus gira vorticosamente tra i palazzi della città, e se non piovesse da giorni si potrebbero intravedere, riflesse nelle sfavillanti vetrate degli edifici d’epoca, le prime luci dell’alba. Le vedrebbe arrivare e sfondare la porta d’ingresso senza avere mai avuto l’invito, non curanti di chi vi è all’interno e di cosa quel qualcuno si aspetterebbe di veder entrare al posto loro.
Si ricorda ora di quando il teatro la emozionava ogni volta come la prima. Si ricorda le tende di velluto rosso e l’ingresso degli attori. Le parole che venivano gridate al vuoto e come proprio il vuoto la lasciasse sempre a bocca aperta. L’eterna stasi della scena e i pavimenti di legno che riverberavano il suono dei passi degli attori, quel rumore costante, a cantilena. Quasi rassicurante. Del tutto ipnotico. E si ricorda di quando questo aveva smesso di farla sentire reale. Di quando si era trasformato solo in una banalità.
Alla dodicesima fermata si alza e scende dell’autobus. Cammina sotto la pioggia per qualche minuto, cercando di capire se ha abbastanza tempo per fermarsi a prendere un caffè. Ma in quella parte della città non saprebbe neanche dove, così decide di posporre la questione.
Alle 7:12 arriva all’altra stazione dei pullman. C’è un ragazzone piazzato fuori dal veicolo che controlla i biglietti dei viaggiatori, e, a uno a uno, instancabilmente, ripete di posizionare il proprio bagaglio a mano nella cappelliera invece che in mezzo alle gambe o sotto al sedile, dice: –Vediamo di venirci incontro! L’ultima volta che non mi hanno dato retta abbiamo preso una multa da più di cinquecento euro, chiaro? Ci siamo capiti? …Bene.
Chiede se ha tempo di prendere un caffè, lui la guarda e le dice che se fosse lui al posto suo, non rischierebbe di essere lasciato a piedi per una misera tazzina. Ride sguaiatamente, come se avesse fatto una gran battuta. Lei lo ignora e si mette a sedere in attesa della partenza.
Il teatro ha il compito di rivelare cosa è successo prima, e cosa è successo dopo.
Guarda fuori dal finestrino, ora si capisce che è giorno anche se le nuvole coprono tutto del cielo. Le foglie degli alberi, piegate su loro stesse, quasi come facessero l’inchino, gocciolano senza interruzione e il vecchio dietro di lei tossisce fino a terminare il fiato dallo sforzo.
Ha dormito più o meno due ore stanotte, e adesso è stanchissima, ma sa che non riuscirebbe a dormire neanche qui. Il teatro ha il compito di farla innervosire.
La particolarità che la infastidisce più di tutte è l’enfatizzazione delle gestualità. I movimenti lenti e rotondi che caratterizzano ogni tipo di teatro dilettantistico. Fare un movimento alla velocità di uno slow motion non ne dà per forza una comprensione maggiore, e non lo rende maggiormente pregno di importanza o di profondità. Lo ridicolizza e basta. Per non parlare dell’autoreferenzialità che vi è all’interno di questa tecnica, se di tecnica si può discutere.
Sono le 7:29 e sono tutti seduti, attendono la partenza del pullman per potersi infilare le cuffie o per poter aprire la prima pagina del libro che hanno appena comprato all’edicola qui di fronte. O pronti a inserire la password del laptop per cominciare a rispondere alle numerose mail che hanno lasciato stagnanti nella casella di posta questo weekend. Aspettano solo che l’autista giri quella maledetta chiave e così fa anche lei finché l’uomo al volante non borbotta: –Questi devono essere i soliti ritardatari…– e la sua attenzione viene assorbita dalla scena che si sta svolgendo proprio di fronte al pullman nello stesso momento in cui l’uomo termina la frase.
Un ragazzo con un cappotto lungo e delle Adidas sta correndo verso di loro, e quasi inciampa sul marciapiede mentre si butta di fronte al pullman per impedirgli fisicamente di partire. Una ragazza lo segue poco più indietro. L’autista fa battute stupide mentre i due si salutano prima che lei salga, lui le prende il viso con tutte e due le mani e la bacia sulla bocca, celere ma con cura. Poi lei sale, ha il posto accanto al suo.
Mentre il pullman si allontana lui guarda insistentemente e sistematicamente verso la ragazza, lei non ricambia lo sguardo. Addebita la particolarità alla fretta e allo stress che l’arrivare all’ultimo momento deve averle creato. Questo, e il fatto che ha le lentiggini sotto gli occhi, sono le ultime cose che nota prima di ripiegarsi dentro sé stessa.
Il teatro, deve avere una funzione percettiva. Più che descrivere come è fatta la realtà, dovrebbe farla risplendere, dovrebbe trasmetterne l’essenza intrinseca, in modo che non sopraggiunga una mera rappresentazione, ma che renda possibile intimamente vivere uno stralcio di quella stessa, senza farla vivere veramente.
Al primo posto nella lista delle cose che le piacciono di più del teatro c’è lo scalpitio e il chiacchiericcio generale che contraddistingue i momenti precedenti allo spettacolo. Il rumore di fondo di tutte le persone che parlano a bassa voce, che ridacchiano, tossiscono, respirano, deglutiscono e si confrontano su quello che stanno per vedere, tutto questo scompare in un tempo che va da un quarto di secondo a due secondi non appena le luci in sala si attenuano e quelle sul palco si enfatizzano. Questi pochi secondi di transizione sono i suoi preferiti. Il così detto rullo di tamburi.
È da stamattina presto che pensa e ripensa al teatro, da quando ha fatto ritardo per guardarla, è da stamattina che ci pensa ma non sa ancora il perché. La ragazza accanto a lei ha messo il bagaglio a mano tra le gambe.
I TEATRI SONO FINALMENTE APERTI !!!!!
Questo racconto ha sicuramente diverse chiavi di lettura da cogliere.
In questo momento mi piace sottolineare lo spiraglio di luce che finalmente si intravede dal sipario.
Siamo un po’ tutti: “Teatranti”.