Premio Racconti nella Rete 2021 “Celeste” di Letizia Quaglierini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021Sarebbe stata la cinquantesima seduta. L’ultima. L’assistente la introdusse nello studio del professor Cavigli, muovendosi con l’eleganza sinuosa di un pesce in un acquario e si chiuse la pesante porta di noce alle spalle. La grande finestra che si affacciava su Via Tornabuoni era aperta, ad accogliere lo scampolo d’estate di quel settembre ancora caldo, forse troppo. Il medico le sorrise e le fece cenno di sedersi, con un movimento quasi impercettibile della bella testa, copiosa di folti capelli grigi. Stavolta niente divano ma, come lui le aveva anticipato nell’incontro precedente, una conversazione riepilogativa del suo percorso, che le aveva permesso di rimuovere se non di cancellare il trauma che l’aveva segnata fin dall’infanzia.
Quasi le dispiaceva concludere quella consuetudine che l’aveva portata negli ultimi due anni a trascorrere due pomeriggi al mese al quarto piano di quel bel palazzo nel cuore di Firenze. Si era rivelata molto costosa quella terapia, sia in termini economici che emozionali, ma ne era valsa la pena. L’acclarato psichiatra la stava guardando con il compiacimento del pittore che osserva la sua tela, che ha appena suggellato con l’ultima pennellata. Quegli incontri bimensili avevano suscitato ogni volta in lei sentimenti contrastanti. Da una parte il piacere che le offriva l’opportunità di recarsi spesso a Firenze, sottraendosi alla grigia sciatteria del suo paese, situato al limite della provincia, dall’altra il turbamento che l’agitava nel riportare in superficie ricordi su cui avrebbe voluto passare un colpo di spugna. Ma col trascorrere del tempo, mano a mano che la rielaborazione del tremendo avvenimento di trenta anni prima progrediva in maniera positiva, Celeste si era sentita ogni volta un po’ più sicura, mentre usciva dalla stazione di S.Maria Novella e si avviava verso il cuore della città, diretta all’antico palazzo patrizio che accoglieva lo studio del suo specialista.
Appena l’imponente portone si chiudeva con un greve cigolìo dietro di lei, affrontava con impeto la larga scalinata in pietra serena, dopo aver attraversato velocemente l’austero androne col soffitto a cassettoni. Mentre saliva le pareva che quei gradini, che tradivano l’usura di innumerevoli impronte, evocassero il fruscìo lieve delle sete, dei velluti, dei broccati che nel corso dei secoli li avevano sfiorati. E ora era lì, davanti al suo “taumaturgo”, che l’aveva aiutata a reimpostare la sua vita, che l’aveva convinta che avrebbe potuto dare fiducia ad un uomo che avesse voluto amarla, l’aveva persuasa a perdonare finalmente sua madre. Mentre il medico le ricordava i capisaldi a cui era agganciata la sua autostima e lei lo osservava con un’espressione rivelatrice nello stesso tempo sia di deferenza che di gratitudine, improvvisamente si avvertì nella stanza un impertinente ronzìo. Una grossa ape, dopo aver sfiorato i vetri molati della finestra aperta, compì un volo a semicerchio, si diresse verso il professor Cavigli e gli affondò il pungiglione nel collo.
L’insetto aveva agito in maniera fulminea, come se avesse programmato il suo attacco e quando lo psichiatra si rese conto di essere stato punto, già iniziava ad avere il respiro affannoso. Si portò le mani alla gola, guardò la giovane donna davanti a lui e mentre nei suoi occhi si leggeva la paura, con il braccio sinistro indicò il secretaire che si trovava vicino al divano. “Presto, apri il cassetto…….. adrenalina. Presto…..l’iniezione”. Celeste si precipitò al mobile indicato, afferrò le maniglie in lucido ottone e tirò il cassetto verso di sè. Era spaventatissima. Aveva più volte sentito parlare di shock anafilattico e si era appena resa conto che proprio quello stava rischiando il suo medico. Il cassetto era pieno all’inverosimile di medicinali, di fogli spiegazzati pieni di appunti, di chiavi tra cui annaspavano le sue mani, alla spasmodica ricerca del farmaco indicatole. A un tratto si sentì sotto le dita un piccolo oggetto ovale, lo estrasse dal cassetto quasi senza rendersene conto, lo guardò e in un attimo si ritrovò a un pomeriggio di trenta anni prima.
Erano ormai gli ultimi giorni d’agosto e i villeggianti, alla spicciolata, lasciavano le case e gli alberghi della Versilia. Lei e sua madre avevano deciso di trattenersi qualche altro giorno, mentre suo padre era già rientrato al lavoro, al paese. Sua madre adorava il mare in tempesta perciò quel pomeriggio si erano recate sulla spiaggia semideserta. Gli ombrelli racchiusi nelle loro custodie di plastica, la sabbia alzata dal vento, le nubi grigie incombenti sul bianco dei cavalloni a lei facevano tristezza. C’era solo una signora anziana che, sulla riva, osservava il ritmo alternato delle onde che ora le lambivano, ora le abbandonavano i piedi deformati dall’artrite. Nessuno con cui giocare, correre, parlare. Si ricordò che in cabina aveva la bellissima Barbie che le era stata regalata pochi giorni prima, per il suo nono compleanno e chiese a sua madre il permesso di andare a prenderla. Lei le fece un cenno di assenso, con gli occhi chiusi nel volto proteso alla sferza del maestrale.
Celeste corse saltellando, improvvisamente riconciliata dalla prospettiva di un gioco con la sua bambola, verso la doppia fila di cabine dello stabilimento. Mentre stava per girare la chiave che d’abitudine lasciavano infilata nella toppa, sentì una mano pesante posarsi sulla sua spalla. Non fece in tempo a voltarsi che si sentì sospinta con forza all’interno e nella penombra vide un uomo alto che incombeva su di lei. Celeste non capiva cosa le stesse succedendo. Forse era un brutto sogno, uno di quelli che a volte la facevano urlare nel sonno e accorrere suo padre a confortarla. Ma il dolore era vero, quel dolore atroce che quell’uomo le stava infliggendo con qualcosa di duro raggiungeva tutte le fibre del suo corpo. Cominciò a urlare, invocando la madre, mentre cercava disperatamente di respingere quella massa spietata che si era abbattuta su di lei, ma nessuno accorse ad aiutarla. La mano dell’uomo si abbattè sulla sua bocca, poi le strappò la sottile catena che portava al collo mentre il dolore si faceva insopportabile. Quando riemerse dal buio che l’aveva inghiottita vide il volto di sua madre e del bagnino che apparivano e scomparivano attraverso una nebbia che le offuscava la vista.
Le indagini non portarono alcun risultato. Una ragazza che si trovava davanti all’entrata dello stabilimento balneare dichiarò che le sembrava di aver visto un uomo, forse sulla quarantina, bruno di capelli, provenire dalla zona delle cabine e dirigersi tranquillamente verso la passeggiata su cui si affacciavano tutti i Bagni. In quegli anni le telecamere non avevano ancora fatto la loro comparsa come strumento di sicurezza e controllo nelle varie zone delle città per cui gli inquirenti, non avendo in mano uno straccio di indizio, archiviarono ben presto il caso. La stampa locale relegò la notizia nelle ultime pagine per non offuscare l’immagine patinata di quella ambita località vacanziera. Celeste si ritrovò senza il medaglione della sua bisnonna, di cui portava il nome e un odio mortale nei confronti di sua madre, che non aveva udito le sue urla rotolate nel cupo lamento del mare. Ora quel medaglione era di nuovo tra le sue mani, dopo trent’anni. Com’era possibile! Mentre si avvicinava allo psichiatra, il cui volto stava diventando bluastro, guardava alternativamente lui e il medaglione, mentre la sua mente si arrabattava nella ricomposizione di un impossibile puzzle. Quando il professore si rese conto di cosa Celeste avesse scovato nel cassetto, nei suoi occhi passò un guizzo che accese in lei la luce della memoria.
Era lo stesso guizzo che aveva profanato in maniera orribile la sua innocenza e aveva segnato la sua vita. E anche se ora lo sguardo di lui virava nell’implorazione del soccorso, lei aveva deciso. Non gli avrebbe somministrato l’adrenalina. Richiuse il cassetto, si sedette e lasciò passare i pochi minuti necessari a che il veleno compisse la sua vendetta. Il respiro ormai tremendamente affannoso del suo aguzzino e i suoi tentativi di lamento non potevano essere uditi da nessuno, poichè il locale attiguo era vuoto, per consentire il massimo della privacy ai pazienti che si recavano dal professor Cavigli, assicurando loro che nessuno avrebbe potuto ascoltare le loro confessioni.
L’assistente si trovava nella reception e poteva entrare solo se chiamata personalmente dal professore. In un vaso sulla scrivania c’erano delle rose e lei pensò che erano troppo rosse, che le facevano male. Si alzò, infilò il medaglione nella tasca dei jeans e atteggiando il volto a una sincera preoccupazione corse ad avvertire l’assistente dell’incidente occorso al professore. I soccorsi giunti tempestivamente non poterono altro che accertare il decesso dell’eminente clinico.
Racconto che sorprende per la trama, e la sua conclusione. Scritto in modo scorrevole, ricco di dettagli sensoriali. Complimenti
Racconto incalzante che si legge tutto d’un fiato. Un colpo di scena da brividi.
Mi piace.