Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2021 “In ricordo di Ebe” di Guido Panziera

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

Vidi per la prima volta Ebe quando ancora le cose si compravano con le lire.

Di quel giorno ricordo il freddo pungente che non intimorisce quando si è ragazzini, ma che assume il sapore di antiche memorie quando si diventa vecchi.

Abitava in una casa diroccata, in via Ponte Rotto, con un cartello di ferro marcio che ne indicava il numero, e che offriva malinconia a chi si fermava a osservarlo.

C’era disordine nel giardino. Cose abbandonate da tempo ma lasciate lì per non essere dimenticate.

Ebe era ferma sul ciglio della strada e sembrava in attesa che qualcuno la portasse via, lontano da tutto ciò che per lei rappresentava quel luogo.

Indossava un vestito pesante, non della sua taglia, appartenuto con ogni probabilità a sua madre molti anni prima.

Ai piedi portava un paio di scarpe vecchie, stanche di calpestare sassi e fango, ma ancora adatte per tutte le buone occasioni.

I suoi occhi nascondevano qualcosa che avevo già visto in un momento indefinito della mia vita che più non ricordavo, e quel suo sguardo abulico sembrava cercare qualcuno, senza però fare intendere chiaramente con quale intenzione.

Quel giorno rimasi a osservarla in silenzio, in compagnia di una delle sigarette più amare di tutta la mia vita, in attesa che la motocicletta decidesse di ripartire per riportarmi a casa.

Fu grazie a lei che ripresi a frequentare la parrocchia. Se volevo vederla, dovevo farmi trovare ogni domenica davanti alla chiesa di mattoni, quella senza campanile, alle sette in punto. Ci andavo con mia moglie Sara, talmente orgogliosa della mia ritrovata fede da farmi trovare, tutte le volte pronto sopra il letto, il completo blu per la festa.

Ebe, invece, arrivava con sua madre, una persona schiva e dall’aspetto severo, che l’aveva cresciuta senza che nessuno in paese sapesse chi ne fosse il padre.

Si sedevano sempre in terza fila, sulla navata di destra, e si inginocchiavano una accanto all’altra, per rimanere in silenzio, composte, senza mai rivolgere lo sguardo all’altare, quasi per nascondersi da chi le cercava con occhi inutilmente curiosi.

Dopo l’ultimo Padre Nostro, poco prima di uscire, accendevano una candela e se ne andavano senza salutare nessuno, con il volto che fissava il pavimento.

Nel 1989 persi il lavoro.

La ditta chiuse e mi trovai costretto a trasferirmi in Germania. Serviva una persona che conoscesse il tedesco, lo stipendio era buono, e quei soldi sarebbero serviti per i figli che però non arrivarono mai.

Quando rientrai in Italia, un paio d’anni più tardi, Ebe era scomparsa, come sciolta nella nebbia che d’inverno circondava la sua casa.

Mi dissero che per trovarla dovevo rivolgermi a sua madre e che dovevo sbrigarmi, perché la malattia che la stava consumando le stava facendo dimenticare ogni ricordo.

Nascosta in quella vecchia casa con le persiane sempre abbassate, apriva la porta solo al prete e mai agli estranei.

La vidi un giorno in cimitero, quasi per caso, quando avevo perso ogni speranza di incontrarla un’ultima volta.

Passeggiava in modo confuso osservando tutte le foto sulle lapidi scolorite dal Sole, come alla ricerca di un defunto che non riusciva più a trovare.

Era talmente sciupata dal tempo e dal dolore che quasi non la riconobbi.

Mi era già capitato di incontrarla al camposanto, un luogo che anch’io frequentavo spesso, soprattutto da quando era morto mio padre, un uomo buono e semplice, che aveva deciso di togliersi la vita il giorno di San Giuseppe, prima che gli potessi consegnare il regalo preparato per lui con l’aiuto delle suore.

A differenza di mia madre, gli portavo spesso un fiore sulla tomba.

Quel piccolo gesto mi aiutava a tenere vivo il ricordo del suo sorriso e, soprattutto, mi faceva stare bene.

Ma quel giorno, quella signora invecchiata dalla malattia e dalle preoccupazioni, non ricambiando il mio saluto, mi diede l’impressione che volesse evitarmi.

Mentre le parlavo, i suoi occhi sembravano fissare un punto lontano che solo lei vedeva.

Mi rispondeva con fatica, ma la trattenni finché non pronunciò il nome del paese in cui sua figlia era andata ad abitare.

Mi raccontò che viveva con un uomo più grande di lei e che era felice, e quello stesso giorno, senza dire nulla a mia moglie, andai a cercarla per capire chi fosse a prendersi cura di lei.

Il posto non era lontano.

Quando arrivai davanti alla sua casa ciò che videro i miei occhi fu qualcosa di talmente desolante che mi fece ricordare il motivo per cui, molti anni prima, avevo smesso di andare a messa. Sembrava non possedere nulla se non una composta miseria e quella malinconia tipica di chi annega nella solitudine.

Per mesi continuai a osservarla senza mai rivolgerle una parola, incapace di qualunque gesto in grado di salvarla da quella sua vita che sembrava volesse consumarla senza che lei ne avesse colpa.

Usciva di casa ogni giorno, sempre verso sera, per fermarsi sul ciglio della strada.

Provando a leggere ciò che celavano i suoi occhi gonfi di preoccupazione e di inquietudine, mi resi conto che non ero più così sicuro che desiderasse fuggire: sembrava piuttosto attendere il ritorno di qualcuno che non vedeva da tempo e che tanto le mancava.

Era fragile Ebe e temevo, avvicinandomi, di spezzare quel filo sottile che sembrava tenerla in vita.

Io, invece, avevo tutto per essere felice: una casa, un nuovo lavoro e una moglie che mi amava, ma il pensiero di quella donna non mi abbandonava mai, quasi servisse per compensare i nostri stati d’animo per qualche motivo legati da qualche oscuro motivo.

Il 23 dicembre 1992 caricai l’auto di tutto ciò che poteva rendere gradevole una festa conosciuta per portare tristezza alle persone sole, e mi diressi verso la sua casa, di nascosto da mia moglie.

Volevo fosse un Natale speciale anche per lei. Mi servivano un paio d’ore, così mi affrettai.

Speravo di farle una sorpresa e preparai tutto in gran segreto.

Per giustificare quella mia visita, senza preavviso e motivo apparente, decisi di coinvolgere il vecchio parroco che tanto l’aveva a cuore e che forse, lui soltanto, di Ebe conosceva ogni segreto.

Mancava soltanto la neve quel giorno e poi tutto sembrava perfetto, ma quando arrivammo davanti alla sua casa, vedemmo solamente un mucchio di foglie secche davanti alla porta, un lucchetto che chiudeva il cancello, e la cassetta della posta incapace di trattenere altre lettere al suo interno.

Non ricordo quando smisi di piangere, ma di certo era già passato Natale.

Mi ritrovai smarrito senza aver compreso l’origine esatta di quel mio disagio, e dopo qualche mese anche della madre di Ebe persi ogni traccia.

La ritrovarono dopo molti giorni morta dimentica nella sua casa che oramai cadeva a pezzi, riversa sul pavimento della cucina, con ancora il rosario in mano. Se ne andò sola, senza nessuno ad accudirla nel momento del trapasso verso la terra della luce, e senza aver dato un ultimo saluto a quella figlia che sembrava non avere mai amato.

Si occupò il comune del suo funerale. Una cerimonia talmente sobria da apparire quasi indecorosa.

Avevo conosciuto il sindaco poco tempo prima; ci avevo scambiato qualche parola, un giorno, per un problema con il vicinato particolarmente incline a lasciare abbaiare i cani durante la notte. Fu molto risoluto nel gestire la questione e apprezzai quel suo diretto interessamento al punto di sentirmi in dovere di restituirgli un favore. Decisi quindi, con una scusa inventata sul momento, di partecipare ai costi per la sepoltura sostenuti dall’amministrazione con un contributo economico ben superiore alla reale spesa.

Fu un gesto particolarmente generoso che mi diede il diritto di chiedere ciò che solamente un pubblico ufficiale poteva sapere.

Trascorse qualche giorno e in quella breve telefonata che ricevetti e che mai potrò dimenticare, mi confidò il luogo in cui Ebe era stata ricoverata.

Non attesi altro tempo per andarla a trovare, e quando la vidi sul letto di quell’ospedale, riconobbi in quel suo sguardo disperato tutto ciò che dalla mia memoria faticava a riaffiorare.

Era invecchiata male, come male aveva vissuto, e il suo viso non poteva più mentirmi.

Ebe si spense dopo pochi mesi senza disturbare nessuno, in silenzio, esattamente come aveva vissuto la sua povera vita.

Quel giorno la strinsi a me per pochi istanti prima che chiudesse gli occhi per sempre, per sussurrarle che avevo trovato la persona che aveva aspettato per tanti anni, sulla porta di casa.

Caddero lacrime dal cielo quel giorno: lacrime che bagnarono la tomba di nostro padre.

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3 commenti »

  1. Un senso di malinconia è il filo conduttore di questo racconto, dove i protagonisti sembrano condotti per mano dal destino ad un epilogo senza lieto fine ma pieno di umanità. E proprio la capacità di questo scritto di trasportarci in un mondo più a misura d’uomo di quello in cui usualmente viviamo mi sembra il suo pregio maggiore. Un mondo, certo, anche punteggiato di errori e di dolore, ma sempre avvolto in un sentimento di trascendenza che in un certo senso fa intravedere una luce sopra il grigio di questa “valle di lacrime”

  2. Racconto struggente e delicato. Complimenti

  3. un racconto che esprime profonda malinconia, struggente e ben scritto, complimenti.

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