Premio Racconti nella Rete 2021 “La voce della colpa” di Valentina Zinzula
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021Gavino scostò piano i rami dei ginepri. Si affacciò al di là del cespuglio per osservare meglio l’uomo che tenevano nascosto. La luna piena illuminava il monte. Quello stava immobile, la testa coperta da un sacco di iuta e le mani legate. Era seduto a terra, chino su sé stesso. Non fiatava, ma Gavino sentiva la sua paura a metri di distanza. Il respiro tremolante riempiva il silenzio della notte.
Erano già trascorsi tre mesi dal rapimento, ancora pochi giorni e tutto sarebbe finito. L’estate tardava ad arrivare, l’aria ancora fresca fece rabbrividire Gavino che pensò dovesse coprire l’uomo. Se si fosse ammalato sarebbe stato un problema, e loro non volevano problemi.
Bobòre e Nenneddu, due dei suoi compari, erano scesi in paese per incontrare Don Efisio, il contatto con la famiglia del professore. Avevano chiesto molti soldi, così tanti che Gavino non sapeva immaginarli tutti insieme. Sarebbero rientrati a breve per prelevare “su maistru”, così chiamavano il professore, e l’avrebbero abbandonato lungo la strada che portava ad Orgosolo, poi da lì lui avrebbe proseguito a piedi.
Da quelle parti si conoscevano tutti per soprannomi. Bobòre “s’Astore”, il falco, era quello che dava gli ordini. Nenneddu “s’izerru”, rigido e freddo come l’inverno, era il suo uomo fidato. C’erano Billìa detto “tzappamuscas”, l’acchiappamosche, per la sua precisione, e Lillinu “lantione”, magro e alto come un lampione. Poi c’era Gavino, il più giovane della banda, detto Gaineddu, un ragazzo poco più che maggiorenne.
Il nascondiglio lo aveva trovato Billìa: un ammasso di rocce granitiche lavorato dal vento, protetto da foreste di lecci e tassi, tra i monti della Barbagia. Due volte alla settimana, a turno, andavano in paese per prendere cibo e vino buono. Lo avevano trattato bene il professore. Lillinu diceva che lo rimandavano indietro più grasso di un porcheddu, e lo guardava ridendo di gusto mostrando i pochi denti rimastigli.
Quella notte sembrava durare giorni. Gavino e Billìa erano di guardia e si scaldavano con un po’ di fuoco e una bottiglia di filu ‘e ferru che scioglieva le budella.
Il professore era zitto, come sempre. Non si lamentava mai. Gavino l’aveva sentito solo una volta, e probabilmente quel giorno il professore aveva iniziato a pregare, proprio lui che in Dio non credeva. Fu quando Bobòre s’Astore gli aveva tagliato un pezzo di orecchio per farlo avere ai familiari. “Così si prenderanno paura”, aveva detto mentre ripuliva la lama del coltello. Gavino poteva sentire ancora l’urlo, strozzato dal fazzoletto che gli avevano infilato tra i denti. Eppure non era tipo da impressionarsi facilmente, lo aveva visto sgozzare agnelli e maialini da latte, ma la sofferenza di quell’uomo lo tormentava durante il sonno. Bobòre lo aveva obbligato ad assistere, voleva che diventasse un uomo. Voleva potersi fidare.
Gavino era un bambino quando suo padre morì. Il giorno del funerale non riusciva a smettere di piangere, sdraiato sulla tomba chiusa e fredda. Bobòre gli si era avvicinato e l’aveva colpito con uno schiaffo, per intimorirlo, per dimostrargli chi avrebbe comandato. Lui si era asciugato le lacrime e il naso, strofinandosi con la mano, ripulendosi poi sui pantaloni dell’abito buono, quello che indossava alla domenica e per le occasioni speciali. Era rimasto a fissarlo, muto, gonfio di odio, in tono di sfida. La morte di suo padre era stata un incidente, cosi aveva scritto l’appuntato sul verbale, ma in paese si vociferava che Bobòre l’avesse spinto dopo una lite e il poveretto fosse deceduto sbattendo la testa su un masso; altri dicevano fosse per una questione di soldi, altri per un terreno che si contendevano da tempo. La verità non venne mai a galla. In cuor suo però Gaineddu l’aveva sempre saputa.
Bobòre l’aveva cresciuto come un figlio, ma non lo aveva mai amato come se lo fosse realmente. Gavino aveva dovuto imparare l’obbedienza verso l’uomo che aveva ucciso suo padre e che aveva avuto la presunzione di prenderne il posto tra le cosce di sua madre. Una notte li aveva sentiti litigare, lei piangeva perché Bobòre l’aveva schiaffeggiata. Era tornato ubriaco. Dopo l’ennesimo bicchiere di Cannonau, era barcollato in cucina e l’aveva presa da dietro con violenza. Lei cercava di soffocare il pianto per non svegliare Gavino, ma lui era lì, nascosto, e sebbene il suo unico desiderio fosse quello di entrare nella stanza e spaccargli una bottiglia in testa, la paura lo aveva inchiodato. Era rimasto a guardare, inerme. Suo padre, sua madre, il professore. Quante persone era rimasto a guardare senza intervenire. La voce della colpa gli rimbombava dentro da sempre.
Intanto al rifugio la fiamma ardeva convulsamente, e la bottiglia di filu ‘e ferru si svuotava. Billìa si stava addormentando. Gavino si avvicinò al professore per dargli da bere. Un po’ gli faceva pena, poveretto. Su maistru era stato sempre gentile con lui.
Forse fu l’acqua vite, forse la luna piena, ma quella sera Gaineddu ebbe l’incosciente idea di levarsi la calza che gli copriva il volto. Non aveva da giustificare le sue azioni, solo si sarebbe sentito più pulito se avesse potuto chiedergli scusa guardandolo negli occhi senza nascondersi, da uomo a uomo. Si era seduto di fronte a lui. Su maistru aveva alzato lo sguardo senza quasi muovere il capo. Gavino gli slegò i polsi. Gli tese la mano, che restò sospesa in attesa del perdono. Sarebbe potuto scappare, avrebbe potuto aggredirlo, ma il professore era un uomo sulla sessantina fiaccato dagli anni e dai giorni di prigionia, abbastanza saggio da capire che contro di lui sarebbe capitolato. Allungò a sua volta la mano e strinse quella del ragazzo, coprendola con l’altra, proteggendola amorevolmente, come un padre con un figlio. Gavino sentì un calore forte sulla pelle e nel cuore. Rimasero cosi, fermi e zitti, per interminabili secondi.
Un fruscio proveniente dalla boscaglia scosse entrambi. Gavino portò la mano al coltello, pronto a tutto. Dal buio apparvero Bobòre e Nenneddu. Il primo come una furia si gettò contro il professore, lo tirò in piedi prendendolo per il bavero della camicia e gli inveì in dialetto, strattonandolo. Qualcosa era andato storto, l’accordo era saltato, la famiglia non aveva pagato. Don Efisio aveva detto di scappare, perché a breve li avrebbero scovati. Il reparto Cacciatori di Sardegna sarebbe piombato sul nascondiglio dopo poche ore. Ma come era possibile che i carabinieri li avessero trovati? Era un luogo inespugnabile.
Gavino vide sul viso di Bobòre la disperazione e la rabbia. S’Astore era inferocito, colpì il professore diverse volte, poi estrasse una pistola e gliela puntò alla fronte. Ormai era un peso inutile, avrebbe almeno saziato la sua fame di vendetta.
Gaineddu doveva fare qualcosa o l’avrebbe ucciso. Non aveva molto tempo per pensare. I lamenti e le suppliche del professore gli diedero il coraggio. Si avventò su Bobòre, con un braccio gli si appese al collo e strinse forte, mentre con l’altro gli affondò il coltello sul collo. Bobòre urlò come uno dei tanti porcheddos che aveva sgozzato; cercò di liberarsi dalla sua furia, ma Gavino sembrava posseduto da una forza che nemmeno lui sapeva di avere. Nenneddu e Billìa non riuscivano a intervenire, il ragazzo brandiva il coltello fendendo l’aria per tenerli distanti. Era difficile staccarlo dalla sua vittima, urlava come un matto, e piangeva. Urlava per spaventare i compagni, urlava per spaventare i fantasmi del passato e la paura del futuro.
Improvviso e traditore, un sibilo nell’aria. Come un tronco sfiancato dal maestrale, il corpo esile di Gaineddu cadde al suolo in una nuvola di polvere. Intorno voci concitate, raffiche di spari, fari che diradavano il buio. I Cacciatori erano arrivati.
Lo sparo lo aveva colpito al petto, nel punto preciso in cui pochi minuti prima aveva accolto un perdono atteso da una vita. Una vita passata ad aspettare la fine: di un rapimento, delle sofferenze di una madre, delle angherie di un uomo, della voce della colpa. La colpa di aver taciuto che suo padre era morto per proteggere lui, per coprirlo dal furto che aveva compiuto nella casa di Bobòre.
La luna splendeva senza nuvole ad oscurarla, Gavino la fissava sorridente mentre lacrime stanche gli velavano lo sguardo. Il sangue scuro gli bagnava il petto. Uno dei baschi rossi si chinò su di lui. Gavino non sentiva cosa gli stesse dicendo, guardava la fiamma sul cappello, bruciava quanto la sua ferita. Aveva saldato il conto, con la sua coscienza e con la legge. La brezza soffiava.
Il respiro, quieto, si fermava.
Racconto potente e drammatico. Mi sembra ponga l’interrogativo, alquanto lacerante, di quanto di ciò che siamo sia determinato dall’ambiente in cui siamo vissuti. Ferma restando la libertà individuale che in questa storia trova il suo compimento nel tragico finale.
Grazie Andrea, sono contenta che il mio racconto ti sia piaciuto. Ho provato a mettermi dalla parte dei “cattivi” e immaginare cosa potessero provare.
Bel racconto, intenso e drammatico. Mi piace l’uso del dialetto che caratterizza molto la storia, bravo!
Molto realistico e coinvolgente. Complimenti. Argomento denso e complicato ma ben scritto.
Mi è piaciuto moltissimo! Complimenti per la scrittura così scorrevole, di effetto suggestivo e di notevole impatto emotivo!
Grazie Davide e grazie Cinzia, i vostri complimenti mi riempiono di gioia. Questo racconto è un figlio che non ha mai ricevuto apprezzamenti, lo considero perciò il suo riscatto. Grazie ancora.
Grazie Valeria, sono felice ti sia piaciuto.