Premio Racconti nella Rete 2021 “L’alba da quassù” di Massimiliano Bartolini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021Ero arrivato in paese da poco. Ci incontrammo “Al bar dello scoiattolo”. Mio cugino Stefano indossava una giacca pesante a quadri, abbinata ai soliti pantaloni verde militare. «Quanti ne hai portati stavolta? Hai la macchina piena, come al solito?». Percepii nella certezza marmorea della sua espressione, tenui venature di curiosità. «Ho il bagagliaio pieno, e prima di partire ho riempito pure il sedile posteriore».
Rimase in silenzio qualche secondo, osservandomi, concentrato, la fronte leggermente corrugata. Sembrava volesse capire qualcosa di più. A rifletterci, anche Matilde si era persa nel labirinto dei miei pensieri, da troppo tempo ormai. Forse avrei dovuto aiutarla, darle delle indicazioni. Ma non ero sicuro. Come fare per oltrepassare il groviglio di strade, vicoli, sentieri? Bussole non ne avevo, e quanto a senso dell’orientamento ero un disastro. Secondo me… «cugì, andiamo alla macchina, ti aiuto a scaricare e portare in casa gli scatoloni». Il flusso convulso di considerazioni fu interrotto bruscamente. Dopo circa dieci minuti, poggiammo i contenitori e le buste sul pavimento della cucina, al primo piano di una palazzina cielo terra. Dalla finestra si poteva godere della fronte bianca della chiesa madre, che al mattino regalava un senso di armonia con il mondo. Misi sul fornello il bollitore per il tè, mentre Stefano prese un libro, dalla copertina arancione. Iniziai a parlargli di nuovo del mio progetto.
Da poco meno di un anno andavo lassù all’incirca ogni mese, in quella piccola e solitaria comunità, dove un tempo ero cresciuto all’ombra di montagne e pratoni verdi. D’inverno i camini fumavano e l’odore della carne alla brace si spandeva lungo le vie acciottolate. In estate il ronzio delle api, misto al profumo dei fiori del piccolo “Giardino della flora”, avvolgevano giorni vivaci di libertà. Ma ero scappato da lì troppo presto. Non ricordo con precisione quando iniziai a percepire la pressione insostenibile della monotonia, l’odore nauseante della noia, la sensazione di irrequietezza nell’immaginare la vita al di là di quelle montagne. Gradualmente il rumore impercettibile di quel nulla del nulla divenne assordante e insopportabile. Negli ultimi tempi, lasciavo che Matilde andasse sola alla sagra dell’agnello alla brace e della pecora bollita, in un pianoro che in primavera brillava di un verde insopportabilmente monocromatico.
Quello strazio di pratone, sempre uguale a sé stesso, anno dopo anno, in un’alternanza di colori, dove nulla mutava. Più volte ebbi l’impressione che la natura spadroneggiasse arrogante. Non c’erano mai improvvisate fuori copione. Il solito appuntamento mattutino al Country Club. I volti allegri, sorridenti, la predisposizione d’animo sembrava sempre quella giusta per godere di un’allegra tradizione pastorale. Arrampicandoci per i tornanti lungo la provinciale, ognuno scrutava la propria fidanzata, e pure quelle degli altri, rassegnati che tanti occhi avrebbero bramato peccaminosamente le loro gambe, senza dubbio poco coperte da gonnelline corte o pantaloncini troppo aderenti. Non cambiava il quadro e non cambiava la cornice, appesi un po’ a sghimbescio su una parete di vita intrisa di umidità e muffa. Lo scorrere della sabbia rossa nella clessidra di cristallo di Matilde, non si limitava più a scandire mezz’ora di tempo. Avevo la sensazione che triturasse il futuro, riducendolo in una poltiglia informe. Passato e futuro, solo polvere rossa.
Il din don delle campane della chiesa madre fotografava impietosamente l’arretratezza di un paese alpestre, fuori dal tempo. Perfino l’insegna dell’unico forno era ancora dello stesso azzurro su sfondo bianco, da quando ero bambino. Il lunedì mattina, il mercatino settimanale. Le ragazze sempre eccitate all’idea di curiosare tra i banchi, parlare qualche minuto con altri uomini e donne, come se negli occhi di quei venditori ambulanti potessero rapire immagini di un altrove colorato, felici di ascoltare da loro storie diverse, divertenti, di sentirsi, anche solo per poco, una piccola parte del mondo là fuori. «E dove trovi tutti questi libri?», chiese incuriosito, mentre ancora giocherellava con il volume dalla copertina arancione. «Che domanda! Lo sai che lavoro in un’agenzia letteraria», risposi compiaciuto. «Comunque, mi piacerebbe che in questo paese le persone possano prendere libri in prestito, e tenerli il tempo che gli serve per leggerli». Stefano sospirò, poco convinto. «Pensi sarà facile? Eppure, hai vissuto qui, ci sei cresciuto!». «Vedrai, il tam tam delle voci sarà sufficiente. Vorrei che scoprissero altre dimensioni, capissero che la bolla di cristallo in cui sono adagiati a vivere può essere frantumata in mille pezzi, che si può deviare dai binari dell’esistenza, ma anche decidere di non farlo, a patto che la scelta sia libera, non imposta da un destino padre padrone che non proviamo neppure a contrastare. Cosa ci impedisce di cambiare prospettiva, di plasmare una nuova immagine di noi? Siamo forse condannati a nascere e morire etichettati sempre nello stesso modo? Dobbiamo sgusciare via, vedere, capire, e solo allora scegliere». Ripresi fiato, abbassando lo sguardo. «Da quanto non vi sentite?». Stefano si avventurò nel bosco fitto e cupo dei miei sentimenti, senza riflettere. «Ci siamo lasciati da quasi due anni. Pensi sia il caso di parlarne?».
Matilde era graziosa, una delle maestre della scuola. La sua grinta nell’affrontare la vita a viso aperto, il sorriso e quel modo di mettersi gli occhiali in testa prima di mangiare, avevano fatto breccia in un momento buio della mia vita. Il nostro primo bacio fu all’alba di un nuovo giorno di agosto. Forse avevamo varcato i confini dell’amicizia da tempo, ma il sorgere del sole da lassù, nel momento esatto in cui il primo velo di arancio squarcia il blu profondo della notte, aveva fatto il resto. In un istante ripensai al suo volto affranto, quando con gli occhi lucidi disse «lo so, non è questa la vita che desideri. Hai altre ambizioni e questo mondo ti opprime, non è giusto che tu sia infelice. No, non posso vincolarti». Sentivo che quel luogo mi stritolava, ristretto in una prigione senza sbarre. La mancanza di confronto con il mondo-altro mi annientava. Condannato senza appello a vestire sempre lo stesso abito, che non avevo scelto io di indossare. È come se lo specchio mi restituisse l’immagine di un uomo solo, in un deserto, assetato di diversità. Uno straniero senza voce, in una terra sconosciuta solo a me. Scappai. Stefano buttò giù un sorso di tè e con voce appena percettibile sibilò «Non so se dirtelo». Sbuffò con impazienza e proseguì «comunque lo verresti a sapere, quindi…», poi tacque. Intuii che di lì a poco avrei saputo qualcosa di spiacevole. Mi rassegnai. «Adesso lei frequenta il tizio dell’agriturismo», sbottò senza preavviso. L’ho scoperto tempo fa. Passeggiavano, tenendosi per mano. Ho il voltastomaco, che c’entra Matilde con quel bifolco?». Una sensazione di instabilità conquistò tutto il corpo. Ero sull’orlo di un precipizio, senza protezioni. Forti raffiche di vento mi spingevano giù, con violenza. Cercai di non perdere il controllo inalando nei polmoni quanta più aria possibile, espirando subito dal naso.
Improvvisamente Stefano, con tono indagatorio, chiese «ma questa storia dei libri, per caso, c’entra forse qualcosa con lei? In ogni caso, gliene ho già parlato e mi sembrava entusiasta. Del resto, è una maestra, la conoscono, si fidano dei suoi consigli in fatto di cultura, e potrebbe aiutarti alla buona riuscita del tuo proposito!». Chiusi gli occhi. Non avevo più voglia di ascoltare. Il silenzio ammantò tutta la cucina. Mio cugino finì di svuotare le scatole. Decisi di rimanere in quell’angolo di mondo qualche giorno. Desideravo la solitudine, il silenzio di quell’enclave sociale, una meteora nel cosmo, sola, eppure così brillante, popolata di uomini e donne e animali, di tetti di tegole rosse e camini fumanti, di vetri di finestre appannate dal freddo. Per troppo tempo mi era mancato il profumo di famiglia, il calore del ventre materno. La sicurezza di ritrovarmi negli occhi dei compaesani avrebbe soffocato il risentimento che covavo, per aver ceduto al fascino della vita là fuori? La notte che non riuscii a dormire, la nebbia che avvolgeva i pensieri si dissolse. Preparai un piccolo zaino e inviai un messaggio a Matilde, una poesia di Wang Changling che amavo tanto «Pur se una montagna ci separa, condividiamo le stesse nuvole e la stessa pioggia. La luna che brilla appartiene al mio villaggio e al tuo». Quindi mi avviai verso il sentiero diretto alla croce, sul monte che fu spettatore di tutto, dal principio. Arrivai in cima con calma, respirando aria fredda e sottile. Intorno il buio della notte era attenuato dal chiarore riflesso di una luna quasi piena. Attesi l’alba, desideroso di rivedere quei colori vivi, impressi nei ricordi. «In fondo siamo noi a decidere chi e cosa essere. Nella vita corriamo spesso il pericolo di perderci. Solo una grande forza interiore ci consente di rimanere fedeli a noi stessi». Sognavo? Forse mi ero addormentato, eppure non avevo percepito la sua voce come ovattata, e tutto appariva reale. Mi voltai di scatto e la vidi, in piedi, a pochi passi da me. «Ho capito che eri qui dal messaggio che ti sei deciso a inviarmi. Non riuscivo a dormire e ho deciso di salire alla croce». Si avvicinò. La guardai sedersi accanto a me. I nostri occhi, rivolti al cielo, danzavano da una stella all’altra, indecisi su quale brillasse di più. Non riuscivo a respirare, annegavo nei pensieri, come se qualcuno mi avesse annodato stretta una corda intorno al collo. La valle, custode di innumerevoli segreti e vite trascorse, faceva da cassa armonica al battito del cuore. Lei fece scivolare una mano sopra la mia. Era fredda, liscia, come la prima volta. Trattenni il respiro. «Sono tornato», riuscii a dire, sfiorando delicatamente i suoi capelli, «perché in nessun posto vedrò mai l’alba come da quassù».
Adagiai la testa sul suo petto, stanco di cercare un senso ovunque, senza rendermi conto che i colori della mia esistenza erano tra quei monti. Restammo così, nel silenzio incantevole di un nuovo giorno. La luce diafana dell’alba rischiarò la volta celeste sopra le alture, al di qua di una frontiera di vita che molto tempo prima avevo deciso di oltrepassare. In quell’istante capii di non aver mai dimenticato né smesso di amare quel luogo, adesso così diverso ai miei occhi, custode premuroso di sogni, di orizzonti di senso.
Con un inizio malinconico, l’autore lascia poco spazio ad un lieto fine.La descrizione di un caratteristico borgo collinare, unito a brevi ma intensi momenti introspettivi, contribuiscono a creare un’ atmosfera ormai sconosciuta ai giorni nostri.Per nulla scontato il finale, con richiami ad un romanticismo spensierato del primo novecento.
Bellissimo racconto … ci si sentite perfettamente immedesimati nel personaggio principale … quando da giovani si fugge bramosamente alla scoperta di luoghi ed esperienze lontane ..ma in fondo in fondo ciò che cerchiamo e ci fa stare realmente bene sono sempre i posti delle nostre origini.
Passato e presente si fondono in questo racconto: due strade parallele che sembrano essersi separate anni addietro: solo il finale dissipa il ginepraio di sentimenti che turbano l’anonimo personaggio principale
In questo bel racconto malinconia e speranza (soprattutto nel finale) si incrociano sapientemente e l’amore per i profumi e i sapori della provincia emergono con chiarezza. Per chi ci nasce e vive spesso sperimentare un’altra dimensione è un’esigenza impellente ma poi si finisce per a tornare desiderare quel senso di famiglia e di pace che solo in paese e non nel caotico mondo della metropoli si può trovare.
Una dimensione spazio temporale che in un primo momento genera conflitti interiori e non lascia posto a costruzione né speranza, se non con la fuga da quei monti che il protagonista considera come una prigione (peraltro, molto incisive le immagini rappresentative del confinamento vissuto nella testa del cercatore di libertà).
Poi si legge di una svolta. L’autore origina il cambiamento nell’amore per Matilde, ma è chiaro che si può leggere in molti modi. È come se l’autore abbia voluto mandare un messaggio: trovare l’impulso al proprio cambiamento, quale che sia la prigione che ciascuno sta vivendo.
Racconto che emoziona, ricco di contenuti. Smarrimento interiore, amore, importanza dei luoghi di origine, dimensione di vita nei piccoli centri, ed altro. Ogni lettore focalizzerà la sua attenzione su ciò che più si avvicina al momento di vita che sta passando.
Bel finale, di un romanticismo delicato e piacevole.
Un racconto davvero pieno di emozioni. Si mischiano sicurezza malinconia speranza amore e angoscia in un turbinio che è vita ed esperienza. Tutti abbiamo bisogno di ogni tanto di tornare nei luoghi o negli spazi che ci fanno sentire a casa….
Meraviglioso!