Premio Racconti nella Rete 2021 “Il castello di Brunswick” di Angelo Del Rosso
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021“Benvenuti. Il vostro soggiorno, come saprete, prevede tre giorni e due notti. Le stanze in cui dormirete sono arredate come lo erano nel secolo scorso, anche se ci siamo premurati di aggiornare l’igiene agli standard del ventunesimo secolo”. La hostess sorrise amabilmente. “Sono previsti due pasti, la colazione alla tirolese e un pranzo che vi permetterà di apprezzare bontà a chilometro zero. Per chi lo vorrà, sono possibili escursioni a cavallo o in mountain bike. Non è infrequente imbattersi, nei paraggi, in daini e camosci. E’ un’esperienza che non dimenticherete. Sono animali mansueti e quelli che pascolano qui intorno sono abituati alla presenza dell’uomo. E’ previsto un tour guidato del castello. Se sarete particolarmente fortunati” fece un altra pausa, elargendo un sorriso accativante, “potrete perfino essere visitati dal fantasma del Conte che abitava il castello. Più di qualcuno ci ha raccontato di averlo visto o sentito.”
Ci porse un opuscolo e ci augurò una buona vacanza.
Attraversando la passerella di legno che aveva preso il posto del ponte levatoio, alzai la testa per ammirare il castello nella sua interezza. I quattro torrioni in pietra resa grigia dal tempo rendevano la costruzione imponente. Doveva essere sembrata inattaccabile, un tempo. Fra i denti della merlatura, si vedevano bocche da fuoco che non spaventavano più nessun assalitore da secoli. I muri del lato Nord avevano una sfumatura verde, coperti com’erano dal muschio.
Mi fermai, con i trolley accanto e mi posi le mani sui lombi doloranti. Mia moglie proseguì per un po’, fino a quando si accorse del vuoto alle sue spalle; smise di camminare e mi cercò con lo sguardo.
Mi chiedo come faccia: sembra avere gli occhi anche dietro la nuca. Ogni volta che le guardo il culo, se ne accorge. Fu così che ci conoscemmo: al suo sguardo di riprovazione seguì il mio farfugliamento di improbabili scuse. Di quello che accadde dopo, non ricordo nulla, e devo fidarmi della sua memoria. La sostanza è che ci amiamo da vent’anni e viviamo insieme da diciannove.
I corridoi erano austeri, come doveva essere in una struttura che aveva scopo principalmente difensivo. Alle pareti erano appesi i ritratti dei conti che si erano succeduti alla guida del feudo dei Brunswick, inframmezzati da notizie di araldica riguardanti la famiglia. Un tappeto rosso correva al centro, con la duplice funzione di coprire le pietre consumate dal tempo e dare un po’ di calore all’ambiente. Alcune armature erano piazzate strategicamente nelle nicchie, in modo da essere al riparo da urti involontari.
La porta della stanza cigolò stridendo sui cardini. Un leggero odore di chiuso mi assalì. Il letto dominava gli spazi, con la sua mole Era piuttosto alto, come usava un tempo. Le pesanti coperte di lana ricadevano ai lati. Il mobilio non era antico ma faceva di tutto per sembrare di stile rocaille.
Margherita si buttò sul letto, distrutta dal viaggio, senza preoccuparsi neppure della borsetta caduta a terra. Aprii la finestra per rinnovare l’aria. Inspirai a fondo, ammirando il paesaggio. Avevo davanti agli occhi la vallata dominata dal castello. In lontananza, giganteggiavano le Alpi.
Chiusa la finestra, mi accorsi che mia moglie si era addormentata. La coprii, girandole le coperte addosso, e mi accinsi a disfare le valigie.
La cena fu incantevole, come promesso. Al nostro tavolo sedeva anche una coppia di francesi con cui simpatizzammo subito, parlando di musica e di libri. Il marito raccontò di essere stato amico di Leo Ferré.
“A me piaceva la triade anarchica Brassens-Ferré-Brel”, dissi.
Sorrise, ricordando che una volta qualcuno aveva chiesto a Leo Ferré cosa pensasse di Jacques Brel. Il cantante francese aveva alzato le spalle e detto: “Il est belge!”, come a dire che questo spiegava tutto, nel bene e nel male.
Passammo a parlare di Ambrose Bierce, dell’arguzia del suo Dizionario del diavolo e infine, inevitabilmente, delle sue storie di fantasmi. Jeanne e François ci confidarono di esserne appassionati e che la loro presenza al castello era dovuto prorpio alle voci della presenza di un’anima in pena che vi vagava nella notte.
“Io sono uno scettico”, ammisi, “a volte fatico perfino a credere a quello che ho visto. Figuriamoci a ciò che non vedo!”
François si infervorò, perorando la causa dei cacciatori di ectoplasmi. Ci parlò dei mezzi che la tecnologia moderna offriva per la loro rilevazione. Non capendoci molto, rimasi con l’impressione di una serie di affermazioni fumose, per quanto potessero essere, a suo dire, probabili.
Margherita mi afferrò la mano sotto al tavolo, stringendomela forte.
La sentii molto vicina eppure, in quel momento, mi resi conto di quanto in fondo la conoscessi poco, di quanto si possano conoscere poco le persone in genere. Era la donna che amavo, mi sembrava di poter leggere i suoi pensieri, ma in quel momento non sapevo se volesse essere rassicurata o comunicarmi la sua impazienza di trovarci in camera da soli, liberi da quella conversazione che rischiava di diventare noiosa.
Proseguendo la cena, tuttavia, dopo che la seconda bottiglia di rosso tornò vuota verso le cucine, eravamo molto più rilassati e perfino disposti a credere a oscure presenze. D’altronde, era proprio per intercessione di uno spirito, per quanto alcolico, che le nostre coscienze si erano dilatate.
Jeanne raccontò di una sua esperienza diretta avuta con un poltergeist. Margherita ebbe un brivido. Io mi sentii come quando, da bambino, sentivo raccontare storie come la seguente e non riuscivo a dormire la notte, interrogando per ore il buio con preoccupazione: un contadino, tornando con il suo asino verso casa all’imbrunire, a un certo punto si imbatte in un bambino in fasce abbandonato sulla strada. Lo raccoglie, lo depone delicatamente sul carretto e prosegue. E’ ormai buio. L’asino fa sempre più fatica a proseguire fino a quando si ferma e crolla a terra. Il contadino esclama “Cosa succede? Sembra che stia trasportando il diavolo!”
Il bambino, sogghignando, gli dice “Infatti io sono il diavolo!”. Il contadino muore per lo spavento.
Quando la sentii raccontare ero ancora un fanciullo. Mi sfuggì che a questa storia mancava qualcosa di fondamentale: il testimone. Chi aveva potuto raccontarla? Non di certo l’asino, e neppure il diavolo. Il contadino era morto …
Ci ritirammo nella nostra stanza a passo incerto. Ero posseduto da un disagio a cui non sapevo dare nome, per quanto sapessi che la causa erano le storie dei fantasmi.
Margherita era preda di una ridarella incontrollata. Indossò a fatica la camicia da notte e si addormentò subito. Io rimasi in una sorta di dormiveglia in cui i volti di Jeanne e François si confondevano con quelli di Brel e Ferré. Erano tutti fantasmi e, muniti di grosse catene arrugginite, tentavano di trascinarmi all’infermo.
Si erano spenti anche gli ultimi rumori che arrivavano attutiti attraverso le spesse mura.
Io continuavo a rigirarmi nel letto. Si udì un cigolìo nel corridoio. Aprii gli occhi completamente, ma il buio era tale da non consentirmi di vedere nulla.
Stavo per addormentarmi quando sentii un rumore come di catene trascinate, seguito da un vetro che rotolava in terra.
Adesso ero completamente sveglio. Tesi l’udito in direzione del bagno: più nulla.
Sentivo il respiro regolare di Margherita accanto a me.
Non sarei riuscito e dormire senza verificare la fonte di quel rumore. La luna, facendo capolino fra le nuvole, illuminò debolmente la camera. Mi alzai facendo attenzione a non far rumore.
Giunto nell’ampio bagno, mi sembrò di scorgere un movimento di fronte a me. La porta si richiuse, lasciandomi al buio. Avevo quasi smesso di respirare. Aspettavo di adattarmi al buio. Mi sembrò di vedere due occhi che mi scrutavano con cattiveria. Il cuore mi pulsava all’impazzata.
Nessun rumore, nessun movimento. Se pure ci fosse stato qualche suono lieve, il martellare delle arterie nelle mie tempie non mi avrebbe consentito di sentirlo.
Ero paralizzato dalla paura. Avevo la certezza di essere pallido come un cadavere. Il buio, poi, insieme al vino, mi dava il capogiro. Sentivo le forze venirmi meno. Trovavo molto allettante l’idea di abbandonarmi al Male e di lasciare che facesse di me quello che voleva.
Improvvisamente la porta sbattè e fui accecato dalla luce.
Margherita era entrata nel bagno e, sedendosi sul water, mi guardava perplessa: “Che fai come un coglione davanti allo specchio? E al buio, poi.”
Merveilleux! Je suis ni Brel,ni Pinc Pall, mais,j’ai ris beaucoup avec le fantôme du chateau! Ahah bravo! ( avec l’accento sul O ) LAURA !
Molto coinvolgente, sembra di essere al castello con il protagonista. Complimenti.
@Laura Florio: Merci beaucoup! J’espère que tu puisse écouter Brel en sa langue originelle! Grazie 🙂
@Cinzia Rizzetti: Wow, grazie! 🙂
Ma che bello! l’ho letto tutto d’un fiato e il finale è davvero simpatico ed esilarante!
Bello stile! Asciutto e scorrevole e la storia è deliziosa. Complimenti!
@Davide Desantis: grazie! Sono felice di trovare in chi legge quello a cui ambivo 🙂
@Monica Menzogni: gentilissima! Anche tu scrivi molto bene, ho letto il tuo racconto e mi è molto piaciuto.
bel testo, con il giusto ritmo e il giusto lessico; mi sono proprio goduta questa lettura e tutta l’ironia che trapela.
Complimenti 🙂
@Gioia: grazie! Hai dato senso a una giornata che era tutt’altro che bella 🙂
Molto piacevole e ironico
E dopo questa visita al castello di auguro: In bocca al lupo!!!!
Bravo!