Premio Racconti nella Rete 2021 “Invisibile” di Cinzia Rizzetti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021Delle persone vedo soprattutto i piedi. Sento i loro passi.
Frettolosi, quasi tutti. Pesanti. Leggeri, sono quelli dei bambini che sulle spalle non hanno fardelli.
A volte sento passi stanchi, sono quelli di chi ne ha viste tante perché tanto ha vissuto, o quelli di chi torna dal lavoro dopo essere stato chino a raccogliere pomodori. Poi ci sono i pendolari che scendono dal treno e anche se sono stanchi dopo dieci ore tra lavoro e viaggio, li affrettano per potersi finalmente fermare e togliere le scarpe che hanno messo al mattino.
A me le hanno rubate più di una volta, mentre dormivo. Anche le coperte che di volta in volta mi portano i Fratelli della Strada, gli unici che mi rivolgono la parola, gli unici che non solo ti vedono ma ti vengono a cercare.
«Ciao Babukar, come stai oggi?»
«Tutto bene sorella» rispondo.
Mi passano il sacchetto e mi stampo un sorriso mezzo deficiente di chi non capisce la lingua. Capisco invece tutto e loro sono davvero carini, infatti mi dispiace prenderli in giro. Risolvo diverse situazioni facendo finta di non conoscere l’italiano. L’ho imparato in Sudan alla missione cattolica di suor Teresa e padre Nazareno a Rumbek quando avevo dagli otto ai sedici anni. Qui è importante sopravvivere ed è meglio non avere occhi e orecchie, devi essere invisibile. Alla fine del marciapiede del primo binario c’è la mia dimora. La coperta, l’ultima è maculata di pile, il borsone dove nascondo i soldi che riesco a fare fuori il supermercato, un anello di bronzo di mio padre e un altro cambio. Nascondo anche un brick di vino, ogni tanto mi riscaldo così anche se continuo ad avere freddo. La sensazione di calore mi arriva dal petto e sale fino al collo. Sto bene quando bevo, non dimentico ma è più tollerabile il ricordo.
Anche questa giornata è passata e mi preparo a dormire dopo aver svuotato il sacchetto che mi hanno donato Alfonso e Serena: un pacco di biscotti, uno di crackers, succo, una merendina e bottiglietta d’acqua. Con loro c’era anche Antonio, a lui ho chiesto una sigaretta che ha detto di non avere. Io lo so perché non le danno, non possono farlo: il fuoco può essere pericoloso per chi come me beve. Nel mio borsone metto le scarpe e resto a piedi nudi, non me le faccio più fregare. Lo metto sotto la testa e mi copro tutto con la mia calda coperta. Il sonno mi avvolge ma da lontano sento rumori insoliti: bottiglie in frantumi, grida esagerate e frenate di motorini. Mi scopro per spiare ma non riesco a vedere niente da qui sotto allora mi metto in piedi, sento dei passi di corsa, prendo lo zaino e lo nascondo in quel buco che si è creato nella serranda del magazzino di fianco ai bagni. I rumori sembrano cessati e mi ricopro anche perché ho freddo ai piedi. Non faccio in tempo a sistemarmi che vengo colpito alla schiena da quello che penso essere un calcio.
«Chi abbiamo qui? Un animale?», dice una voce strillante.
«Ti abbiamo svegliato bestia?».
Ed ecco un altro colpo sempre alla schiena. Mi strappano la coperta di dosso e ora sono completamente visibile alla loro ferocia. Mi colpiscono in volto.
«Dai vediamo di che colore è il tuo sangue». Intanto grido sperando che qualcuno possa sentirmi e far cessare tutto l’orrore che sto vivendo. Ho paura! Qualcosa di caldo mi cola sulla faccia. Mi copro il viso con le mani «Perché mi fate questo? Perché?». Urlo più forte. Un altro colpo alla testa e vengo ingoiato dal nero più totale.
«Babukar. Babukar. forza! apri gli occhi». Mi sollecita una voce lontana che percepisco appena. Cerco di aprire gli occhi ma li sento appiccicaticci. Faccio per toccarmeli ma non riesco ad alzare il braccio, ho dolore, troppo dolore.
«Non ti muovere. Sei ferito» continua la voce.
«Lo zaino, lo zaino è lì nel buco» riesco a dire a stento.
«Tranquillo…». Non sento più niente e di nuovo vengo catturato e precipito nel buio.
Sono tornato a casa, sento la musica. I fratelli al campo scout girano intorno al fuoco, posso sentire il suo calore. Saltiamo insieme e battiamo le mani, è come quando mi sono battezzato. La festa fu la stessa dopo la cerimonia della tenda. Ora però ho una fitta al costato, lentamente riapro gli occhi. Non capisco, dove sono? Ero a casa in Sud Sudan e adesso sono qui non so dove e ho dolore ovunque. Ogni centimetro della mia carne, ogni muscolo. Faccio per muovere un braccio ma non posso: è immobilizzato. L’occhio destro si apre per metà e con il sinistro vedo un po’ appannato.
«Babukar ti sei svegliato?». Mi chiede un uomo in camice bianco di fianco al letto. Ecco realizzo che sono in un letto e non alla missione.
«Che è successo?» chiedo allora.
«Allora lo parli l’italiano?», chiede ancora l’uomo. «Sei stato aggredito da cinque ragazzi, delinquenti. Ti ha soccorso un poliziotto in servizio in stazione. Te lo ricordi?».
Non ricordo niente, non ho voglia di parlare allora faccio di no con il capo e sento forte una fitta alla testa proprio sull’occhio destro. Con il braccio sinistro mi tocco la fronte e trovo un pezzo di garza. Mi tocco ora l’occhio e posso sentirne il gonfiore, come le vesciche ai piedi dopo il lungo viaggio. È lo stesso che avverto anche sullo zigomo e il naso, lo sento da sotto un affare di plastica. Respiro male.
«Allora Babukar ora che so che mi capisci ti spiego quello che è successo e cosa ti hanno fatto – spiega il medico -. Ti hanno aggredito in cinque, hai riportato la frattura del setto nasale, per fortuna non grave. La frattura dell’omero e ti abbiamo messo un tutore. Un trauma cranico e conseguente commozione cerebrale. Inoltre hai delle forti contusioni alla schiena e alla spalla. Capito tutto? – Non aspetta la risposta -. Ora stai fermo e tranquillo e riposati, vedrai che guarisci presto». Dice andando via.
Non ricordo niente e mi fa male la testa. Penso che mi sia passato addosso un tir. Mi ricordo che ci ho viaggiato su un camion, c’era un odore nauseabondo, piscio, sudore e vomito. Eravamo più di trenta, molti uomini, alcune donne con i loro bambini. Piangevano e si lamentavano, le mamme cercavano di acquietarli cantando le ninne nanne. Mi viene in mente una melodia e la accenno con le labbra socchiuse, mi fa male anche la mandibola. Dormo e ritorno al villaggio. È la sera del viaggio, preparo la borsa, me l’ha regalata il vecchio kuhani, mi ha detto di stare attento e di guardare le stelle prima di ogni decisione. Dobbiamo arrivare a piedi fino al confine con l’Etiopia e poi verso l’Eritrea con un mezzo e li dobbiamo pagare dei tizi altrimenti non ci fanno salire. I soldi li tengo con una fascia legata alla coscia. Saluto mamma e l’abbraccio forte: «Halo Mama». Le prometto di tornare per aiutare la mia gente. Sono tecnico specializzato e sicuramente riuscirò a laurearmi in Italia. Cominciamo a camminare, fa freddo ed è buio pesto. Viaggiamo senza luna perché non ci devono vedere. Inciampo e mi sveglio: era di nuovo un sogno. Comincio a ricordare. L’infermiera che arriva è gentile, mi dice che posso cominciare a bere con la cannuccia e mi porge un bicchiere con una bevanda rossa. «Ce la fai da solo?», mi chiede. Faccio cenno di sì con la testa e posa il bicchiere sul comodino, mi alza lo schienale del letto e mi riporge il bicchiere che afferro assetato. «Stamattina è venuto un avvocato con due poliziotti che volevano interrogarti su quello che è successo ma gli ho detto che non potevi parlare così se ne sono andati, hanno detto che sarebbero tornati nel pomeriggio», mi dice. Arrivano poco dopo e mi chiedono cosa ricordo dell’aggressione «Ben poco, ho solo ricordi confusi… lo zaino, dov’è lo zaino?», chiedo spaventato.
«È qui! Non preoccuparti», risponde Angela. Si chiama così l’infermiera, me lo ha confidato prima.
Mi dicono tutto dell’aggressione e io metto insieme i pezzi prendendoli nei vari angoli della mente, aggiungo dei particolari anch’io al loro racconto e alla fine mi riferiscono che stanno vagliando le registrazioni della videosorveglianza ed è questione di ore che li prenderanno tutti. Dalla mia finestra accanto al letto la sera posso vedere le stelle ma non decido, chiedo e prego.
Dopo diversi giorni, mi rimetto in piedi. La fisioterapia ogni giorno fa miracoli. Mi sono anche ripulito e presto potrò andare via, si! ma dove?
Sono passati dodici giorni dall’aggressione, tre li ho passati sedato. L’avvocato è tornato a trovarmi e si sta occupando dei documenti. Ha detto che c’è la possibilità di entrare in un programma di Housing Sociale e visto che ho anche il livello di tecnico specializzato farà di tutto per trovarmi anche un lavoro part time. «Ma come lo ha saputo del mio livello di studi?». Mi chiedo e lo chiedo.
«Forse c’è un uccellino che ti vuole bene», risponde guardando verso Angela.
Sorrido e penso che far finta di non sapere la lingua non mi ha aiutato in passato, anzi! La ringrazio a mani giunte con il più grande dei sorrisi.
Ho ricevuto tante testimonianze di affetto, hanno anche avviato una raccolta fondi per me, sono commosso. Sono venuti a trovarmi Andrea, Serena, Antonio e Alfonso un giorno tutti insieme. Hanno fatto un gran casino e li hanno cacciati, sono stati davvero carini e io mi sono scusato di averli ingannati.
«Eh bravo Babukar! Così quando ti chiedevamo le cose e sorridevi non era perché non capivi ma perché ti stavi divertendo», mi dice Alfonso con tono di finto rimprovero prima di andare via. No! Non è così, un giorno glielo spiegherò. Un giorno gli dirò che ho imparato a fare finta, dimenticare di conoscere le lingue per capire meglio il gioco degli altri. Far le facce da deficiente per non far trasparire che non lo sono affatto. Che se avessi potuto avrei anche finto di essere bianco per mimetizzarmi meglio e non essere più l’immigrato, il clandestino.
Una volta arrivati in Egitto pensavamo di essere al sicuro e invece ci hanno venduto ad altri uomini che hanno preteso altri soldi fino la Libia, chi non poteva pagare rimaneva nei campi libici. Io sono rimasto solo sette giorni. Ho temuto per la mia vita e per quella dei miei compagni di viaggio. Hasani che è partito con me è morto a furia di bastonate, appeso a testa in giù come un bue squartato. Mopati ha sbattuto violentemente la testa contro il muro fracassandosi il cranio perché non sopportava più il dolore della plastica sciolta sulla sua pelle, tutti i giorni preso di mira. A me hanno premuto la pistola alla tempia facendo finta di premere il grilletto, mi hanno lasciato andare perché avevo pagato, aspettavano solo gli uomini per il carico successivo. Sono stato all’inferno e ne sono uscito ma le sue pene mi resteranno addosso per tutto il resto della mia vita.
Esco ora dall’ospedale, mi aspetta una casa da dividere con altri due uomini, lavorerò in una ditta di compressori, sei ore al giorno e potrò studiare. Voglio finire gli studi che avevo iniziato, tornerò nel mio bellissimo Paese in Sud Sudan, andrò a visitare il Parco del Boma e i suoi magnifici elefanti. Saluterò il sole rosso della sera e il fuoco del campo scout. Guarderò le stelle e ringrazierò la mia. Ballerò con i miei fratelli e abbraccerò forte forte Mama.
Intenso e, purtroppo, troppo attuale. Bel racconto
Grazie Davide. Si, molto attuale.
Cattiveria, pietà, paura e speranza. C’è tanto dell’uomo in questo racconto che ci trasporta con una scrittura priva di orpelli ma perfettamente intonata all’argomento trattato nel mondo spesso tragico dei migranti. Un racconto che al di là delle opinioni personali sul tema dell’immigrazione ci mostra come solo la misericordia ci renda intimamente felici, e quindi sia prima di tutto un dono fatto a noi stessi.
Grazie Andrea Polini, non le nascondo che sono felice del suo commento. I sentimenti, positivi o negativi, sono quelli che cerco di evidenziare e condividere nei miei racconti, spero di riuscirci. Il suo commento e quello precedente di Davide Desantis hanno suscitato la mia curiosità, infatti sono andata a cercarmi i vostri racconti che ho letto con estremo piacere. Entrambi avete una certa scioltezza e bravura nel raccontare, voi veterani qui in Racconti nella Rete, complimenti.