Premio Racconti nella Rete 2021 “Il guaritore pazzo” di Lorenzo Ratisti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021Basta piangere. Sono lacrime di coccodrillo. Ti sei affacciato dal grattacielo? Bello vero? C’è una vista meravigliosa. Lo sai che Raul tutti i giorni ci guarda dal lago? Mi ha detto che per curare la depressione, si lascia incantare dai riflessi che il sole dipinge sui vetri della facciata. Che spettacolo, tante piccole albe e tanti piccoli tramonti che si rincorrono fra loro, intrappolati fra centinaia di finestre, speranze e tradimenti. Perché non ti butti di sotto? Tu, il Grande Guaritore, il Nuovo Messia, guarda in che condizione ci hai lasciati. Sei talmente bravo a declamare l’irreale, che se ti sfracellassi a terra, riusciresti pure a riattaccare i pezzi del tuo stesso corpo.
Nello stupore generale, Margherita si alzò in piedi sulla sedia e, senza dire una parola, si lanciò sopra il lungo tavolo color noce, intorno al quale gli altri sette partecipanti alla riunione, si stavano confrontando animatamente. Un fragoroso schianto riecheggiò per la stanza e poi cadde il silenzio. Occhi esterrefatti e imbarazzati si posarono all’unisono su di lei, increduli per ciò che stavano vedendo. Il tavolo era lungo poco più di tre metri, e Margherita si trovava all’estremità più vicina alla porta. Gattonando goffamente, perché intralciata da una corta minigonna, puntò dritto davanti a sé, verso il lato opposto, dove sedeva il Direttore Generale, Francesco Guaritore. Nella mano sinistra impugnava un trincetto.
Ai lati di Margherita sedevano Janice e Alfonso. Janice era stata assunta da appena cinque mesi, e la sua partecipazione alla riunione era esclusivamente formale, non essendole concesso alcun tipo di intervento. Un vero peccato, perché in poco tempo aveva già dimostrato di possedere una conoscenza delle logiche aziendali decisamente sopra la media. Ma non essendo, a dispetto del nome esotico, una gran bellezza, avrebbe dovuto lottare più di altre colleghe per conquistarsi un posto al sole. Tre anni, dieci mesi, e quindici giorni più tardi, suo figlio Andrea, sarebbe tornato da scuola con l’occhio destro leggermente arrossato. Sembrava una cosa da niente, ed invece era solo l’inizio di un lungo e doloroso calvario. In poco tempo avrebbe perso quasi del tutto la vista. Alfonso era un lavoratore instancabile e pieno d’energia, sempre pronto a dare una mano ai colleghi. Ma in quell’istante, al pari degli altri, non riuscì ad avere alcuna reazione, la mente focalizzata, per non dire ottenebrata, dallo striminzito tanga nero che a malapena affiorava dal generoso sedere della sua collega. Un anno, otto mesi, e due giorni più tardi, il cuore di sua figlia sarebbe andato in tilt. Senza preavviso, proprio dopo la festa di compleanno. Alla destra di Guaritore sedeva Saverio, il suo tirapiedi. Aveva una camicia così perfetta e ben stirata che, quando d’istinto si ritrasse lontano dalla scrivania, impaurito dall’avanzare di Margherita, nel silenzio della stanza, sembrò quasi di sentirne scricchiolare le pieghe. Sarebbero bastati appena due mesi e ventisei giorni, perché il mondo gli crollasse addosso. Qualcosa non andava ai polmoni di Elena, sua figlia. Angela, la segretaria personale di Guaritore, gli sedeva alla sinistra. Fisico slanciato, sguardo intenso, mix perfetto di seduzione ed intelligenza, adesso se ne stava a bocca aperta, leggermente protesa in avanti, come un pilone della luce penzolante dopo il passaggio di un uragano. Aveva un marito di cui da tempo non era più innamorata ed un figlio di otto anni che la propria vocina interiore, nonostante i frequenti rimproveri, continuava a chiamare “errore di gioventù”. Facile intuire quanto poco se ne occupasse. Ma le cose stavano per cambiare. Un anno, un mese, e tre giorni più tardi, un’iniezione sbagliata lo avrebbe ridotto per sempre su una sedia a rotelle. Al centro del tavolo, fra Janice e Saverio, sedeva Riccardo. Famoso per i continui litigi, era senza dubbio la persona più difficile da gestire ad una riunione. Due anni, undici mesi e diciotto giorni più tardi, tutto il suo ardore polemico si sarebbe sgonfiato per sempre, come un palloncino abbandonato al proprio destino dopo la festa di capodanno. Suo figlio Giulio avrebbe cominciato a manifestare i primi sintomi di una forma molto grave di autismo. Davanti a lui sedeva Raul.
Un sorriso non può bastare. Sarebbe troppo facile, non credi? Non porgere le mani, non le porgere proprio a me. Sembri un incrocio fra un cartomante caduto in disgrazia, ed un barbone intento a chiedere un’ultima, disperata elemosina. Povere creature, quante speranze spezzate. Non ti vergogni? Tutti ti credono e ti lasciano fare. Ti invitano a cena, ti fanno regali, sarebbero pure disposti a portarti fuori il cane, se ne avessi uno. Poi un giorno Raul si stanca delle tue smorfie, e te lo ritrovi in fondo al lago a giocare con alghe e pesciolini. Che bella immagine, vero? Ne verrebbe bene un quadro, uno di quelli moderni. Potresti provare a farlo, tanto scommetto che sai anche dipingere. Vedi quella colonna di fumo? Sai cos’è? E’ il falò dei sogni infranti, tu lo conosci bene. Te lo ripeto ancora una volta, prova a buttarti di sotto, vediamo cosa succede. Basta! devo fare qualcosa, è inutile continuare ad aspettare e parlare, parlare… Adesso arrivo, non mi lasci altra scelta.
Margherita era arrivata a metà tavolo. Ansimava, e da come si muoveva, sembrava dolorante al ginocchio destro. Durante il fine settimana aveva sbattuto violentemente contro un carrello all’aeroporto. Dal dolore si era accasciata a terra, e qualche lacrima era scesa a bagnarle mascara e fondotinta. Nonostante tutto, ci teneva ancora a curare il trucco, ma la sofferenza dal viso era ormai impossibile da nascondere. Purtroppo quel viaggio, come i precedenti, non era servito a niente. Adesso tutto il suo corpo era un fremito. Solo la mano che stringeva il trincetto era ben salda. Nessun partecipante alla riunione provò a fermarla. Qualcuno addirittura distolse lo sguardo, trovando più interessante una colonna di fumo nero, che in lontananza cercava di impiastricciare lo sbiadito sole del tardo pomeriggio. Finalmente arrivò davanti a Guaritore il quale, bianco e stupito come un fantasma che ha appena scoperto di essere morto, allargò le braccia e inclinò leggermente la testa all’indietro, in evidente segno di resa. Ma proprio mentre Margherita stava per piantargli il trincetto nel collo, Raul gridò: “Fermati mamma, che stai facendo?”.
Francesco rincasò poco prima delle nove. Era esausto. Una giornata come quella se la sarebbe ricordata a lungo. Alle due di pomeriggio, subito dopo la pausa pranzo, una fortissima esplosione nel reparto polveri, aveva gettato lo stabilimento chimico nel panico. Per alcuni minuti si era respirata aria di tragedia. Poi, per fortuna, o per miracolo, si era tirato un sospiro di sollievo, constatando che il bilancio era di soli due operai leggermente feriti. Il corpo di ballo composto da vigili del fuoco e forze dell’ordine, aveva iniziato l’inevitabile danza, mentre la colonna di fumo sprigionata dall’esplosione, si arrampicava in cielo nera e rabbiosa, fino a sfiorare alcune nuvole che, incuranti dei guai terreni, se ne andavano tranquillamente a braccetto. Ma il peggio doveva ancora venire. Come ogni mercoledì, dopo aver finito il proprio turno di lavoro, Francesco era andato al Marini, il moderno ospedale-grattacielo costruito due anni prima sulle sponde del lago Beleggio. Durante le prime ore del mattino, nelle sue placide acque, era stato rinvenuto il corpo senza vita di Raul. Si era trattato di suicidio. Inequivocabile, dopo il ritrovamento di una lunga lettera. In essa, il ragazzo aveva cercato di spiegare le ragioni del proprio gesto, urlando con ferocia tutta la rabbia che aveva dentro. Su quel pezzo di carta, scritto con mano ferma da chi aveva già scelto l’abbraccio triste ma pur consolatorio del proprio Destino, c’era anche il nome di Francesco. Veniva descritto come una specie di mostro crudele. Falso, bugiardo, cinico. Quanto dolore… Fu come se qualcuno gli avesse afferrato i capelli e spinto la testa dentro un acquario. La realtà deformata, il respiro spezzato, una gran voglia di spaccare tutto e buttarsi giù dalla finestra. Accendere un sorriso nelle tenebre non è facile, ma lui spesso ci riusciva. Adesso però, solo nel silenzio di casa sua, aveva la sensazione che l’oscurità lo stesse per inghiottire. Si chiuse in bagno, andò davanti allo specchio, e se lo rimise. Lo osservò con attenzione. Forse era arrivato il momento di smettere. Provò l’impulso irrefrenabile di strapparselo dalla faccia e gettarlo dalla finestra, il più lontano possibile. Stava per farlo, ma poi ripensò a Federica, Andrea, Michele, Giulio ed Elena, i suoi piccoli angeli. Certo che non era giusto illuderli, ma lui non lo faceva. Lui aveva il dono prezioso di saper afferrare mostri e dolori e scacciarli un po’ più in là. Almeno fino al giorno successivo. Così se lo lasciò indosso e lo fissò ancora per qualche istante. Non lo avrebbe mai abbandonato. Il suo naso rosso da clown.
C’è il tocco di una penna esperta in questo racconto dall’atmosfera oscura e che pare estratto da un lavoro più lungo. Magari un romanzo che vorrei leggere.
Complimenti
Grazie Monica per il bel complimento. Mi piacerebbe molto riuscire a scrivere un romanzo, ma perora mi sto concentrando sui racconti brevi. In effetti però,
col tuo commento, hai colto il mio tentativo, in un racconto di poche pagine, di condurre il lettore un mondo molto più ampio.
Concordo con Monica sull’evidente complessità dell’impalcatura nascosta dietro al racconto, che si presenta come uno spiraglio su un panorama molto ricco. Complimenti per la maestria nel sovrapporre tante storie e tante vite entro un unico canale narrativo. Bravo!
Grazie Giovanni, ho lavorato tanto a questa trama complessa e compressa e sono felicissimo che sia stata apprezzata